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La rivoluzione di Milano dell'Aprile 1814

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Leopoldo Armaroli, Carlo Verri
La rivoluzione di Milano dell'Aprile 1814

La rivoluzione milanese dell'aprile 1814 e la caduta del Regno italico, che ne fu conseguenza immediata, ebbero già parecchi storici o raccontatori; quali, per citare solamente i piú diffusi, il Fabi1, il De Castro2, l'Helfert3: ma sono avvenimenti tuttora avvolti in qualche oscurità, dei quali non si è colta ancora compiutamente la ragione storica, forse perché sin dal primo momento troppi furono gli interessati a nascondere il vero di quei rivolgimenti, o almeno a rappresentarli ciascuno in modo che ne restassero giustificate le proprie tendenze e la propria condotta. La serie delle scritture che rispecchiano direttamente i sentimenti e gli atti di coloro che furono spettatori o partecipi ai fatti del 1814 è lunghissima, e tutte andrebbero minutamente esaminate e raffrontate, chi volesse sceverare in ciascuna la particella di vero, che pur vi sarà, e di tutte le particelle comporre la storia genuina e sincera di quei moti. E dagli articoli, dalle notizie e dai documenti che a cominciare dall'aprile 1814 si vennero pubblicando quotidianamente sul milanese Giornale Italiano – l'officioso napoleonico, tramutatosi improvvisamente a officioso austriaco – la serie si produce lungamente sino a quelli Studi intorno alla storia della Lombardia negli ultimi trent'anni, che, dettati certamente dalla principessa Cristina Belgioioso Trivulzio, furono pubblicati in Parigi solamente nel 18464, ma erano eco non ancor fioca dei sentimenti e dei contrasti in mezzo ai quali il Regno italico di Napoleone I era caduto, lasciando, retaggio prezioso, agl'Italiani la coscienza della nazionalità, lo spirito delle armi proprie, il desiderio delle istituzioni civili e la tradizione di un illuminato liberalismo.

A rappresentare con sufficiente fedeltà lo svolgersi di quei memorabili avvenimenti mi è parso opportuno eleggere di mezzo alle scritture di cotesta serie copiosa le relazioni composte, quando erano recenti i fatti, da due uomini di spirito temperato ed equanime, entrambi per l'ufficio loro di senatori presenti e partecipi alle deliberazioni che furono motivo o pretesto alla rovina del Regno. L'una delle quali relazioni, col titolo di Memoria storica sulla rivoluzione di Milano seguita il giorno 20 aprile 1814, fu distesa solamente qualche mese dopo gli avvenimenti e indi a poco divulgata per le stampe con la data del novembre 18145. Duplice, come appar chiaro dalla semplice lettura, era stato l'intendimento di chi scrisse questa relazione: difendere la condotta del Senato contro le postume accuse del partito indipendentista lombardo e rivelare la parte sinistra che i detrattori del Senato avevano avuto nei tumulti dell'aprile, nello strazio del Prina, nella caduta del Regno. Al primo di questi fini non era parso che corrispondesse abbastanza la Lettera sulla seduta del Senato del Regno d'Italia tenuta a Milano il 17 aprile 1814, la quale era venuta alla luce in Parma, sin dalla fine del maggio6: se n'era saputo subito autore uno dei senatori, «uomo illustre per probità, per carattere, per dottrina», e si disse che non aveva taciuto «la verità anche parlando di sé medesimo»,7 ma il nome di lui, se pur corse sulle bocche dei contemporanei, non fu segnato sulle carte, né oggi sarebbe agevole a riconoscere se non per indizi che potrebbero esser fallaci8. Ad ogni modo la relazione o «commentariuccio», come la designò il Foscolo, fu come il punto di partenza alla piú diffusa «Memoria storica» del novembre, alla quale anzi la narrazione parmense sulla seduta senatoria del 17 aprile 1814 fu accodata come primo e principal documento9.

Appena la Memoria storica fu pubblicata, la polizia si diè un gran da fare per impedirne la diffusione, sino a ordinare la chiusura d'una libreria ove si era venduta, e molto si affaccendarono gli interessati, o i colpiti che dir si vogliano, a ribattere come meglio potevano le gravi accuse, alle quali aggiungeva valore la pacatezza del racconto e la temperanza dei giudizi e della forma. Il generale Domenico Pino, che per la parte avuta nelle giornate dell'aprile era già stato bersaglio a ben altre contumelie e alla meglio se n'era schermito10, non volle lasciare senza risposta ciò che di lui si diceva nella Memoria storica, e diè fuori sul principio del 1815 certe sue, poco concludenti, Osservazioni… sopra alcune asserzioni dell'autore dell'opuscolo che ha per titolo «Su la rivoluzione di Milano seguita il 20 aprile 1814»; osservazioni le quali non valsero certamente a rimuovere tutti i sospetti che si erano venuti addensando sopra la sua condotta11. Il conte Federico Confalonieri stampò, con la data del 15 marzo 1815, la sua Lettera ad un amico, il conte Antonio Durini, nella quale, un po' confessando la parte avuta nei fatti dell'aprile 1814 e un po' impugnando le asserzioni della Memoria storica, tentò un'abile difesa di sé stesso e già si mostrò, politicamente, assai mutato da quello che era l'anno innanzi; ma anch'egli riuscí tutt'altro che convincente: fortunato che gli avvenimenti posteriori della sua vita e la grandezza del sacrificio e dell'espiazione, circondando la sua memoria di una fulgida aureola di patriottismo, facessero dimenticare quali erano stati i primi suoi passi sulla via malsicura delle congiurazioni politiche12. Finalmente il conte Ludovico Giovio, già consigliere di Stato napoleonico e presidente delle riunioni che nell'aprile e maggio 1814 avevano tenute in Milano i Collegi elettorali di una parte del Regno, difese quella convocazione in un opuscolo, nel quale anche cercò di scagionare sé stesso dalla taccia datagli nella Memoria storica di esser stato troppo facilmente ingrato verso un governo che lo aveva innalzato ai piú alti onori13.

Mentre cosí si appuntavano le armi contro la relazione documentata, che in povera veste era venuta da Lugano a raccontar fatti che si volevano sopire, era naturale che si cercasse di sapere chi ne fosse l'autore. Sulle prime corse voce che l'avesse fatta Melchiorre Gioia14, forse perché dell'economista piacentino si ricordavano altri opuscoli pubblicati nell'occasione di gravi mutazioni politiche nel ventennio anteriore; ma la voce cadde di per sé, senza bisogno di essere smentita. Maggior consistenza invece prese l'opinione che uno o piú senatori avessero lavorato a mettere insieme la Memoria storica, e a questa opinione aderí anche Ugo Foscolo, quando prese a confutar quella relazione nei suoi discorsi Della servitú dell'Italia15: generosi ed eloquenti discorsi, nei quali per altro non è dissimulato il dispetto del poeta di essere stato additato come frequentatore di mense ministeriali e sovvertitore della plebe ai tumulti del 20 aprile. Il Foscolo, come si vede da piú luoghi di quei discorsi e da altri della Lettera apologetica scritta quasi dieci anni di poi agli editori padovani della Minerva16, teneva, se non per autore, almeno per ispiratore principale della Memoria storica il senatore Diego Guicciardi, fattosi, sempre secondo il Foscolo, sostenitore del principio della monarchia di diritto divino, appunto in quei giorni che l'Austria si preparava a soppiantare la Francia, e proclamatosi da sé per uomo di Stato a nessuno secondo. E questa ch'era stata l'opinione del Foscolo divenne presto universale, tanto che nel 1822 il Saint-Edme (cioè Teodoro Bourg, già commissario nelle guerre napoleoniche e sostenitore anche dopo il 1815 delle idee repubblicane e imperiali), pubblicando in Parigi la sua traduzione francese della Memoria storica,17 vi poneva in fronte il nome del Guicciardi e nella prima delle note da lui aggiunte ragionava e argomentava tale attribuzione cosí:

1º Dans son avertissement, l'éditeur annonce que l'ouvrage qu'il publie est dû à un illustre personnage du royaume d'Italie, qui avait le droit de conserver près de lui les documens authentiques placés à la fin du mémoire: le comte Guicciardi était sénateur et chancelier du sénat.

2º L'exposé de la situation morale de l'Italie qui précède l'historique de la révolution, est basé: 1º sur des bruits auxquels n'aurait point ajouté foi tout autre écrivain de l'époque qui n'aurait point eu à justifier une opinion émise dans une assemblée politique, opinion opposée à sa conduite antérieure, aux vues du prince, et peut-être au bien de son pays; l'auteur même avoue ses doutes: mais pourquoi se serait-il arrêté à des mensonges, en aurait-il, comme historien, entretenu le public, s'il n'avait eu l'intention de se servir de cet appui pour se justifier? 2º sur le caractère personnel de quelques individus employés par le gouvernement, tels que le secrétaire des commandemens du prince et le directeur des postes: on ne peut voir là que le fruit d'une animosité particulière, et l'on sait que l'esprit rétif de M. le comte Guicciardi avait été atteint par quelques-uns de traits de MM. Méjan et Darnay.

3º Le 17 avril, lorsqu'on lut au sénat le projet de décret du duc de Lodi, qui s'opposa à son adoption? M. le comte Guicciardi. Et le mémoire cherche à prouver que l'on avait machiné pour surprendre la délibération: l'opposition violente de M. Guicciardi est donc tout honorable pour lui, dans le sens de la marche qu'il avait adoptée.

Mais sans entrer à ce sujet dans une longue discussion, à laquelle le lecteur, une fois prévenue, suppléera facilement avec un peu d'attention, je me bornerai à fare remarquer que M. le comte Guicciardi a fait partie de la commission nommée pour l'examen de la proposition du duc de Lodi; qu'en sa qualité de membre de la commission, c'est lui qui s'est rendu auprès du duc, afin d'en obtenir les éclaircissemens nécessaires au travail de la commission; qu'il a fait le rapport; qu'il a été nommé député; qu'il a eu une entrevue avec le prince; que sa justification au gouvernement provisoire a été imprimée malgré la défense de la régence, et que là, comme dans l'ouvrage, oú il est tant question de lui, ses opinions et son caractère politique sont élevés à un haut degré.

Queste argomentazioni del Saint-Edme, per quanto avvedute e sottili, non hanno, si capisce subito, un grande valore probativo, poiché il Guicciardi in tutte le fasi del movimento milanese dell'aprile 1814 rappresentò le tendenze del partito austriaco, come ha ben dimostrato il Bonfadini18, e la Memoria storica, se non tace per un senso di imparzialità gli errori e le colpe degli uomini di tutti i partiti, è manifestamente rivolta in particolare contro gli indipendentisti lombardi in quanto spianarono con la Reggenza la via all'Austria di occupare e tener per suo il paese: l'autore quindi, se non era un eugeniano, non poteva essere neppure un austriacante; e ben vide e sentì il significato dell'opera sua la polizia austriaca, che si sforzò di rimuoverla dalla circolazione. I documenti, che accompagnano la Memoria storica, parte erano stati pubblicati per altre vie, parte erano di tal natura da esser passati per molte mani, e l'apologia del Guicciardi poté ben essere comunicata da lui medesimo all'autore di questa relazione, non già perché la pubblicasse, ma come a senatore ch'egli era, poiché il Guicciardi, dopo il divieto della Reggenza di darla alle stampe, avrà sentito il bisogno che ne avessero conoscenza almeno i suoi antichi colleghi del Senato. E che tra i senatori fosse da cercare l'autore della Memoria storica, ove la condotta del Senato era difesa con tanto calore, pochi allora dubitarono; e presto anche si seppe che questo senatore era il maceratese Leopoldo Armaroli, magistrato onorando e insigne giurista19: si seppe presto, ma pubblicamente non fu detto se non nel 1823 da Federico Coraccini (sotto il quale nome, ben si sa, nascondevasi Carlo Giovanni Lafolie francese, stato nel 1812 segretario generale della prefettura del Tagliamento e nel 1813 viceprefetto di Ravenna) nella sua Storia dell'amministrazione del Regno d'Italia20, e fu poi confermato piú tardi da piú credibile testimonio, lo storico dell'esercito cisalpino-italico21. Ciò non ostante, poiché si continuò da qualcuno ad attribuire la Memoria storica al Guicciardi22, parmi opportuno dissipare ogni dubbio per mezzo di una lettera che l'Armaroli stesso scriveva nel 1830 a Francesco Cassi per ottenere dal marchese Antaldo Antaldi di Pesaro la restituzione dell'unica copia rimastagli del suo libretto; lettera che sulla divulgazione di questo scritto ci dà anche alcune particolarità rimaste sin qui ignorate.

Mio degno e rispettabile amico,

Macerata 25 aprile 1830.

Ho bisogno dell'autorità vostra municipale, per citare al vostro tribunale codesto diligentissimo amico nostro marchese Antaldo. È piú di un anno che in vostra presenza gli consegnai quel mio Opuscolo sulla rivoluzione di Milano del 1814, che gentilmente si offerí di farlo osservare ai Revisori per vedere se s'incontrasse difficoltà nel ristamparlo. Ritornando da Bologna mi recai da lui e mi disse che non vi era opposizione, ma non potea restituirmi il libro perché era rimasto presso il Signor Canonico Coli.

Dopo di ciò gli ho scritto, gli ho mandata qualche mia pubblicata freddura, ho certezza che l'ha ricevuta, e non mi ha risposto. Gli ne ho fatta avanzar premure da Asiari, e ultimamente dal Ferri nipote del sordo, ed anche ciò inutilmente.

Parlando sul serio io ne ho vero e sommo bisogno: ho stimoli da piú parti e dalla stessa Lombardia di farne altra edizione corredata di abbondanti commenti; vi è anche dell'onore del mio nome il farlo perché sono stato citato con menzogna. Non solo non ne ho altra copia, ma è impossibile di procurarmela perché le 500 copie venute a Giegler, meno le poche esitate, furono sequestrate dalla Polizia, né so se potessi ottenerne da Parigi. Mi raccomando dunque alla vostra amicizia di farne cortese insistenza all'amico onde io possa ricuperarlo.

Viene qui Delegato Monsignor Ciacchi. Voi forse lo vedrete. Mi sarà grato che mi facciate conoscere ad esso per un uomo d'onore, tranquillo suddito, e vostro amico.

Addio. Alla vostra famiglia ed a voi cordialmente mi raccomando. Vale.

Il Vostro
Armaroli.
Al Nobil Uomo
Il chiarissimo Signor Conte Francesco Cassi
Gonfaloniere di
Pesaro 23

La Memoria storica dell'Armaroli fu per molto tempo una delle piú copiose fonti d'informazioni a chi ebbe ad occuparsi dei fatti dell'aprile 1814: dal Jomini, che ne fece larghissimo uso nella sua storia dell'ultima campagna dell'armata franco-italiana24, giú giú sino ai piú recenti narratori della fine del Regno italico, tutti si valsero della operetta del senatore maceratese; alla quale si presenta ora, in parte come opportuno riscontro, in parte come necessario correttivo, la relazione particolareggiata che di quelli avvenimenti stese e lasciò ai posteri il collega suo Carlo Verri milanese25. Il patrizio lombardo fu veramente nei moti del 1814 uno dei rappresentanti piú cospicui e sinceri del partito austriaco; meno vigoroso all'operare che non fosse il Guicciardi, giovò piú di lui al trionfo di quel partito rafforzandolo con l'autorità del suo nome, e prestò l'opera propria, come presidente della Reggenza provvisoria, alla consolidazione che fu lenta, ma sicura e avveduta, della nuova dominazione26. Però, come il Verri fu animato da un sincero, per quanto fallace, sentimento di giovare agli interessi del suo paese, cosí la sua testimonianza molto ci aiuta a intendere le cagioni e i procedimenti di un fatto che tanto sembrò contrastare con il desiderio dell'indipendenza nazionale, della quale in quei giorni tutte le parti politiche s'erano fatta una bandiera per conto proprio. Storia dolorosa di errori, se non di colpe, onde procedette una espiazione ancor piú dolorosa durata oltre mezzo secolo; ma storia feconda di ammaestramenti, anche per noi che di quella espiazione raccogliemmo i frutti, poiché ci insegna come la rettitudine delle intenzioni non basti a salvare un paese quando non sia accompagnata dal senso dell'opportunità, dall'accortezza dei mezzi, dalla prontezza dell'azione.

T. Casini.

AVVERTIMENTO

Il manoscritto della presente memoria, opera di un personaggio illustre del Regno d'Italia, e la di cui autorità è tanto piú rispettabile, che esso vi godette per molti anni di una riputazione fondata sulle di lui eminenti qualità, venne per una combinazione felice nelle mani dell'editore. Egli sarà facile di convincersene colla lettura delli documenti autentici che si presentano al lettore, e molti de' quali non potevano cadere in possesso di una persona, la quale per il suo posto non avesse avuto il diritto di leggerli non solo, ma anche di ritenerli presso di sé. L'editore si è fatto un dovere di dare questa memoria alla luce, senza aumentazioni, né diminuzioni, e senza permettersi veruna osservazione. Non è opinione sua quel che espone, ma bensí un racconto fatto da un uomo autorevole, di fatti autentici, e di cui gli effetti furono pubblici.27

SULLA RIVOLUZIONE DI MILANO
Seguita nel giorno 20 aprile 1814

MEMORIA STORICA.28

Dopo la ritirata di Mosca, tutte le molle politiche de' governi di Francia e d'Italia perdettero all'istante la loro elasticità. Il sentimento della potenza di Napoleone a rapidi gradi si estinse, e cessò l'illusione che la fortuna e la vittoria marciassero costantemente alla testa delle sue armate. Gli animi dei popoli sempre piú s'indispettirono per l'aumentato rigore delle finanze, e per l'accresciuto bisogno della coscrizione desolatrice delle famiglie. Ciò non ostante, il rovesciamento totale del sistema non entrò nei piani delle Potenze, e molto meno nelle viste dei sudditi, come quello che non sembrava verificabile senza rinnovare gli orrori di una rivoluzione. Miglior partito parve quello di sostenere il Governo e di somministrargli i mezzi, onde colla gloria delle armi ottenere finalmente una pace onorevole e solida. Non vi fu perciò sforzo che si risparmiasse. Artiglieria ed armi si fabbricarono da ogni parte con un'attività che non ha esempio. La coscrizione ebbe il suo effetto quasi per intero, si offrirono persino gratuitamente dai corpi e dai privati cavalli in gran numero e guerrieri.

Lo spirito italiano, non mai versatile, ma attaccato sempre tenacemente ai suoi principi, superò, alla debita proporzione, la Francia nelle volontarie oblazioni. Nel Regno d'Italia si ebbe per istimolo ulteriore, che alla pace generale cessasse l'esercizio di un Governo per procura coll'organo di un Viceré, e che sul capo del Principe Eugenio passare ne potesse indipendente la corona. Non vi è dubbio che a quell'epoca concorressero nel Principe l'amore ed il desiderio dei popoli. Non vi è dubbio che si avesse di lui l'opinione di un buono e zelante amministratore, di un uomo di Stato, di un prudente e generoso condottiero di eserciti, educato ad una grande scuola. A ciò si aggiungeva la rispettosa affezione che si era conciliata la Principessa sua consorte, a cui tutti offerivano i loro omaggi, chi per la sua pietà e per le sue virtú, chi per le sue grazie e la sua amabilità, chi per le beneficenze che a larga mano spargeva, specialmente sulla classe degli indigenti che qual rifugio e madre la riguardavano.

Niun debito si faceva al Principe del complicato sistema di amministrazione, della coscrizione, e soprattutto della gravezza delle imposte. Il solo Re ne sopportava l'odiosità, non che, rapporto alle finanze, quel Ministro, che aveva la bassezza di prostituire i suoi sommi talenti nel secondarlo e facilitargli i mezzi di esecuzione. I sentimenti del suo segretario degli ordini erano conosciuti da pochi nella capitale, da pochissimi nei dipartimenti. Quest'uomo, tuttoché naturalizzato italiano con la sua ammissione al Collegio elettorale dei dotti, si crede che non abbia mai naturalizzato il suo cuore.

Furono i pochi uffiziali reduci dalla campagna di Mosca, che inserirono nell'animo degli Italiani i primi semi di diffidenza verso la persona del Principe. Questi lamenti, già disseminati abbastanza, crebbero a dismisura nel 1813, allorché fu miseramente l'Italia ancora il teatro della guerra. Non piú il solo uffiziale, ma dal generale al soldato si chiamarono tutti mortificati dal Principe, offesi dal suo primo aiutante. Saranno state forse calunniose alcune acerbe proposizioni poste in bocca dell'uno e dell'altro, ma pure da moltissimi si recitavano come vere. Fece dispiacere il vedere trascurato il primo ed il piú provetto tra i generali italiani, che dal Nord al Sud ha sempre associata la sua carriera alla gloria delle armi italiane.

Ad alienare gli animi dal Principe concorse un terzo francese, il suo segretario di gabinetto, passato, contro il prescritto della costituzione, alla direzione generale delle poste. Egli con la polizia esercitata negli ultimi tempi sul carteggio, col trattenere ed anche disperdere le lettere, specialmente de' negozianti, portò al colmo il malcontento in questa classe sí benemerita della società, la quale era già prima indispettita abbastanza per il sistema continentale e per l'incaglio totale di ogni ramo di commercio.

Altr'oggetto di avversione, e forse il maggiore, era negli abitanti della città di Milano, perché il governo ridondasse di forestieri, che spendevano in essa con i loro soldi, i quali venivano pure dai rispettivi dipartimenti, anche le rendite de' propri patrimoni. Unico paese in Italia, e forse in tutto il mondo civilizzato, ove in pochi si trovi una cordiale ospitalità, ed ove in moltissimi, specialmente fra i nobili, regna una decisa avversione contro i forestieri, e per forestieri quelli riconoscono che non sono oriundi della antica Lombardia Austriaca! Oggetto di gelosia e di rabbia erano i ministri ed il senato, quasi che tra sei ministri in Milano non se ne vedessero ultimamente due lombardi, due milanesi fra cinque dignitari, otto tra cinquanta senatori, quasi tutti i consiglieri di cassazione ed i giudici della Corte dei conti, la metà circa de' consiglieri di Stato, la maggior parte dei direttori generali, tutti i segretari generali dei ministeri e quasi tutti quelli delle direzioni, dieci tra ventiquattro prefetti, e cosí molto e molto piú nel restante, giacché la Corte era popolata di ciambellani, di dame di palazzo, di scudieri e di altri soggetti milanesi tutti al soldo della corona, e non vi era dipartimento nel Regno, che non contasse e giudici ed uno stuolo grandissimo d'impiegati della capitale. Volere un regno costituzionale, ed un corpo per conseguenza intermediario, e pretendere che i membri non fossero oriundi dei dipartimenti, è un concepimento, un assurdo tutto nuovo.

Erano gli animi in questo caldo allorché i successi delle armi delle Alte Potenze coalizzate sempre piú si moltiplicavano in Francia, e facevano veder prossimo un qualche decisivo avvenimento. Si permettevano i discorsi i piú allarmanti ne' luoghi pubblici, ne' caffè e nei teatri. All'annunzio poi dell'ingresso degli Alleati in Parigi, non ebbe piú ritegno la commozione. I primari patrizi milanesi, e quegli stessi che allora prestavano piú ligio il servizio alla Corte e maggiori ne avevano sperimentati i benefizi, correvano da ogni parte baccanti, esagerando i torti del governo, e per maggiormente dilatare l'allarme associarono a loro tre soggetti d'amplissima trachea, che alzavano con piú coraggio la voce. Un generale di brigata italiano, sdegnato di non aver avuto i desiati avanzamenti, un generale straniero al soldo italiano riformato per demeriti, un estero letterato che non sembrava attaccato a questo paese da altri vincoli che da quelli delle tante mense de' ministri alle quali era assiduo, questi furono i piú animosi apostoli della rivoluzione.

Bisogna credere che il Principe Eugenio, il quale gemeva in Mantova tra le gravi cure della guerra e tra le angoscie per l'incertezza della sua situazione, non fosse inteso di quanto si vociferava in Milano, ovvero bisogna convincersi che chi lo tradiva continuasse ad adularlo per non incontrare ostacoli all'esplosione della sua perfidia. La verità pur troppo non arriva che tardi e zoppa ai gabinetti dei principi. Egli, che si era mantenuto sempre costante e fedele nella sua direzione verso il proprio padre e sovrano, che aveva resistito a tutte le insinuazioni della politica, egli finalmente pensò ai destini del Regno, e forse anche a sé stesso, quando giunsero a sua notizia gli strepitosi avvenimenti seguiti in Parigi ne' primi giorni d'aprile e la singolar metamorfosi del primo corpo di quello Stato. Fu allora che nel dí 16 di aprile convenne in una capitolazione con il Feld Maresciallo Conte di Bellegarde, e mediante la cessione di alcune piazze ottenne una sospensione d'armi fino all'esito di una deputazione del Regno, da presentarsi alle Auguste Potenze coalizzate.29 Le sue viste palesi furono di far chiedere che il Regno fosse chiamato a parte della pace generale, proclamata all'Europa, e godesse finalmente della sua indipendenza: tanto apparve sulla sostanza della convenzione, tanto e non piú manifestò nella lettera scritta al duca di Lodi, resa poi da questo ostensibile alla commissione del Senato, e tanto assicurò ai deputati del Senato, quando a lui si presentarono in Mantova. È ben presumibile però che fosse tra i suoi desiderî che si domandasse per il suo capo la corona d'Italia. Fu almeno sicuramente questo lo sforzo dei ministri. Tra le persone piú addette ai suoi intimi consigli fu discusso sul modo di dare un carattere a tale deputazione e sulli stessi soggetti che dovessero comporla. Si sa che furono designati li generali Fontanelli e Bertoletti per l'armata, li conti Paradisi e Prina rappresentanti la nazione. Rapporto ai primi si ottenne facilmente l'adesione degli uffiziali, segno, checché si pretenda in contrario, che non aveva veramente perduto affatto il Principe il loro amore, o lo aveva ricuperato. Si decise di fare che il Senato autorizzasse i secondi, e qui si praticarono senza dubbio mezzi oscuri e subdoli. In niuno dei senatori era venuto mai meno il rispetto e l'attaccamento verso il Principe Eugenio, niuno aveva prestato fede alle voci accreditate nella piazza, e molto meno all'orgasmo dei nobili milanesi. Ma ognuno era penetrato dal sentimento de' propri doveri e da quello della rispettiva risponsabilità verso i suoi committenti, per non decidersi se non con gran ponderazione in un emergente cosí delicato e in un momento in cui l'attenzione e le congetture degli Italiani erano rivolte verso i Sovrani d'Austria e di Napoli, che quasi tutta occupavano e tenevano la penisola.30

In forza di un dispaccio del duca di Lodi, cancelliere guardasigilli della corona, fu convocato straordinariamente il Senato nel giorno 17 aprile. È rimarcabile che di un affare, a cui si pretese di attaccare un sommo mistero, se ne parlasse contemporaneamente ne' caffè, e piú nella platea del teatro della Scala, e che i soli senatori ne fossero all'oscuro, come quelli che tali luoghi non frequentavano. Fu letto un messaggio del duca di Lodi in cui, dopo aver fatto un quadro per verità molto vago della situazione del Regno, presentava al Senato un progetto di decreto per autorizzare una deputazione a chiedere a S. M. l'Imperatore d'Austria, e pel di lui organo alle Alte Potenze, la cessazione assoluta delle ostilità, l'indipendenza del Regno ed un re nella persona del Principe. Che non si macchinò, che non si disse, perché a sorpresa si adottasse la deliberazione proposta? Fermi i senatori nella loro massima, vollero che la materia si digerisse prima da una commissione di sette membri, la quale prendesse, siccome fece, i migliori schiarimenti dal duca di Lodi e riferisse. Sul rapporto della medesima fu adottata la deputazione per i due primi oggetti della cessazione delle ostilità e dell'indipendenza del Regno, esclusa la domanda del Viceré in nostro Sovrano, come diffusamente risulta dagli atti di quella seduta espressi nell'allegato num. 1 con gli analoghi documenti A, B, C. Pareva che i patrizi milanesi dovessero esser paghi del contegno dignitoso del Senato e della sua risoluzione. Se la loro volontà era quella dimostrata, che non si ricercasse il Principe in re, il Senato era stato del loro avviso. Indispensabile era la deputazione, per l'effetto della capitolazione col Feld Maresciallo Conte di Bellegarde. Sapevano tutti che a vuoto andarono le pratiche per la nomina de' conti Prina e Paradisi; sapevano che la scelta era caduta nel conte Guicciardi, uomo di Stato non secondo a veruno, il primo ed il piú acerrimo impugnatore del progetto del duca di Lodi; nel conte Luigi Castiglioni milanese, cavaliere di cui il solo nome bastava a giustificare la nomina. Si arrivò a spargere il dubbio, che le istruzioni date ai deputati dal duca di Lodi fossero divergenti dal decreto del Senato, quasi che questi fossero uomini da riceverle tali; quasi che le AA. PP. potessero ammetterle in contraddizione: tutto era artifizio e pretesto. Come i rivoluzionari erano prima de' senatori intesi del messaggio e del progetto del duca di Lodi, cosí mediante lo stesso mezzo conoscevano benissimo le istruzioni del medesimo, le quali a comune intelligenza si danno al num. 2, unitamente alla di lui credenziale per il principe di Metternich, ministro di S. M. l'Imperatore d'Austria, num. 3. La sola intenzione loro fu quella di rovesciare la macchina del governo, di figurare da popolo sovrano, di trattare in piena confidenza con i potentati della terra, di fissar essi i futuri destini del Regno, senza il concorso di tutti i rappresentanti del medesimo, che come forestieri non dovevano entrare a parte degli alti loro consigli, far circolar calunnie, assoldare gente facinorosa, insultare la rappresentanza nazionale, trascorrere rapidamente di delitto in delitto; tutto ciò doveva operarsi, onde giungere allo scopo proposto, e tutto ciò fu maturatamente macchinato nel circolo di alcune primarie famiglie, d'onde partí l'allarme disseminato ne' luoghi pubblici. Le prime sottoscrizioni del foglio che forma l'allegato al num. 5, possono spandere gran luce sull'orditura della presente catastrofe.31

Si farebbe un torto all'accortezza ed ai vasti talenti di chi presiedeva alla polizia dello Stato, se si supponesse che tante pratiche rivoluzionarie sfuggissero alla di lui vigilanza. Non si sa quindi concepire come egli o il Principe non vi provvedessero, mentre, essendo spogliata di truppe la capitale, poteva ottenersene in qualunque numero nella vicina Cremona e forse anche in Lodi. Non si spiega neppure come nel giorno venti, quando cadeva l'ordinaria seduta del Senato, si mandasse contro il solito alla custodia del palazzo, non l'ordinaria guardia, ma un picchetto non piú forte di otto o dieci coscritti, e cresce la maraviglia nell'essersi visto al portone del medesimo il capitano Marini, aiutante di piazza, che disse essere stato spedito per riparare qualche disordine che si temeva: qual riparo poteva opporre un solo uffiziale isolato, e neppur milanese?