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In faccia al destino

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Adolfo Albertazzi
In faccia al destino

PARTE PRIMA

I

Ero da pochi giorni a Valdigorgo, e già deluso nel tentativo estremo per cui mi ero trasportato da Molinella, alla casa dell'amico Moser, alle Prealpi.

Non avevo avuto la speranza che l'aria di lassù mi purificasse lo spirito; soltanto avevo pensato che la famigliarità con gente di cuore potrebbe scuotermi il cuore. Tre anni innanzi, quando combattevo i primi fieri assalti del nemico insorto in me, non avevo attinto lassù, nuove forze alla resistenza? là non avevo provato il sollievo di lunghe tregue?

Claudio Moser con animo aperto e affetto antico; Eugenia, sua moglie, con la bontà che io non sapevo paragonare se non alla bontà di mia madre; le figliole – Marcella e Ortensia – soavi e liete; il piccolo Mino, instancabile al trotto delle mie ginocchia, quante volte parlandomi nella memoria mi avevano chiamato a loro, come in porto e a rivivere!

Ma invano! Avevo fatto invano il lungo viaggio! Fortunatamente, se io ero a tal punto da non sentire più nulla e da rincrescere agli altri oltre che a me stesso, fortunatamente io avevo trovato la famiglia Moser in condizioni diverse: Claudio, sovraccarico di faccende, s'assentava interi giorni; la moglie, non era ancora in piena convalescenza d'una malattia quasi mortale; Marcella, da brava massaia diciannovenne, s'intratteneva a diriger la casa; Ortensia, assisteva la madre; e il fanciullo, prossimo ormai all'età della discrezione, preferiva, al trotto delle mie ginocchia, tamburi, pifferi e schioppi.

– Qua sei il padrone tu – mi aveva detto Moser. – Fa quel che vuoi per annoiarti più o meno, secondo la tua filosofia.

Pur troppo io non volevo nulla: soltanto restar solo. Dal dì dell'arrivo non avevo più varcato il cancello. Mi appartavo nel giardino a giacere e a sonnecchiar ignaro.

Così indifferente ero divenuto, che non mi ero accorto della differenza delle cose intorno; non avevo riconosciuto i vecchi alberi, non osservate le nuove piante e le recenti aiuole, quasi fossero per me luogo e paesaggio nuovi ma senza novità, o vecchi e sempre uguali, e sempre visti uguali.

E non per intimo impulso, ma come per inerzia, salivo ogni dì, alle ore solite, dall'inferma. Ne' suoi occhi freddamente io scorgevo un velo di rassegnazione se la fede di guarire le venisse meno; e al suo orecchio le mie parole giungevano fredde, perchè non confortavano, ma soltanto confermavano una cosa certa alla mia scienza: la guarigione. Nè a vederla così emaciata mi veniva fatto di ripensarla quale era ancora in salute, tanto bella e fiorente una volta! Quanti anni innanzi? Non più di quattordici. Allora io, ero appena laureato; essa aveva Marcella di cinque o sei anni e Ortensia piccolina. Che bellezza a vederla con la fanciulletta a lato e quell'angiolo biondo in braccio! Una bellezza materna. E come Eugenia era bella allora, io ero baldanzoso e ambizioso. Rapito nel mio sogno di scienza e di gloria, appena mi accorgevo di quel fiore di donna; e non l'invidiavo all'amico. Restavo chiuso nella mia camera quasi tutto il giorno a studiare; non mi distraeva la delizia del luogo; non mi rimproverava la cortesia della buona signora, a cui tenevo sì povera compagnia.

Talvolta, nella passeggiata avanti desinare per andar incontro a Claudio, Eugenia, come senza volere, ingenuamente, mi aveva detto di essere troppo racchiuso in me stesso, richiamando la mia attenzione alla vita esterna, ai bei tramonti, al bel paesaggio; e che soggezione era in lei se io mi inducevo a discorrere delle mie idee e dei miei studi! Mi ascoltava avvolgendomi del suo sguardo; lo sguardo che abbelliva ora Marcella. Per la via chi ci vedeva sogguardava forse malignamente: Eugenia non aveva ombra di alcuna malizia; e quando incontravamo Moser ed essa sorrideva e s'accendeva di gioia, oh allora io mi compiacevo che neppur l'ombra di un pensiero sinistro offendesse, entro di me, l'amore e la gioia di Claudio! Non avevo avuto mai, non ebbi mai per Eugenia un pensiero di profanazione; sempre ebbi per lei una devozione affettuosa e pura.

Ma ora quasi mi pareva naturale che Eugenia fosse così intristita e smunta, quasi fosse stata sempre così. A udirla narrare adagio e piano della sua malattia e delle pene de' suoi, mi pareva d'ascoltare un racconto non più doloroso; mi pareva naturale che nello sguardo di Marcella passasse l'ombra di tante angosce; naturale che Ortensia poggiasse il capo accanto al capo della madre e che le rosee guance e le guance emaciate stessero insieme un poco sul cuscino bianco, e che le labbra vive di sangue ricercassero a quando a quando, come per riscaldarla, la fronte esangue.

Finchè un giorno, mentre Ortensia usciva dalla stanza, dissi senza intenzione di recar piacere, senza intenzione alcuna:

– Sono belle, Eugenia, le vostre figliole.

La madre non negò. Affermò:

– Sono buone.

Io tacqui, parendomi naturale che la madre, non io, che pure le conoscevo, ne avvertisse la bontà e che io tacessi.

Ma quello stesso giorno, avanti desinare, Ortensia mi sorprese laggiù, sotto i tigli.

Disse scherzosa: – Riverisco! – e s'inchinò.

– Chi t'ha svelato il mio rifugio? – domandai a mezza voce. (Ubbidendo a Moser proseguivo a dar del tu alle signorine, tuttavia bambine agli occhi del padre…)

– Lo sapevo – ella rispose. Poi aggiunse franca: – E voglio saper tutto, tutto!

– Che cosa?

– La mamma lo dice da un pezzo: Sivori è mutato. Si può sapere cos'ha?

Quantunque ardita innanzi a me, Ortensia m'interrogava con un sorriso incerto; col dubbio manifesto che non le rivelerei il mio segreto, e col rammarico che neppur lei, la mia «piccola amica» d'una volta, meriterebbe tal confidenza. Dubitava d'un mistero. E io, che non sapevo che dirle:

– Sono stanco – dissi; e la guardai in modo da toglierle il sospetto del mistero.

– Stanco fin di parlare?

– Sì…; non d'ascoltare, però. Parla tu.

– Santa pazienza! Parlare? Ma di che, con lei?

Frattanto siede nell'erba e s'abbandonò non scomposta, reclinando il capo a un tronco, e chiese:

– Che debbo dirle? Su! presto!

Ma io non avevo ancora parlato ch'essa si rialzò d'un tratto a seder meglio.

E fermando al petto un grosso mazzo di margherite:

– È stanco anche dei fiori?

Non risposi.

Allora venne a pormi due margherite all'occhiello della giacca, mentre ripeteva: – Sivori non è più lui! non è più lui!

Ed io scossi le spalle, impaziente:

– Parla d'altro!

– Cosa debbo dirle? Andiamo!

– Raccontami della tua vita in città, quest'inverno. Andavi a scuola?

– A scuola, io? a diciassette anni? Ho diciassette anni!

Ne pareva meravigliata essa stessa.

– E ne sai abbastanza?

– Di matematica, sì! Oh la maestra di matematica! Per tre mesi – siamo rimaste a Milano tre mesi – tutti i giorni quella seccatura! Io non ne azzeccavo una; le somme non tornavano, le moltiplicazioni peggio che peggio! Come sarà che da me i numeri non si lasciano moltiplicare? Basta; la maestra, poveretta, scuoteva la testa come una tartaruga e sospirava: «Non ha disposizione alla matematica!» Il guaio è che diceva lo stesso la maestra di francese, madame Duret. La conosce madame Duret? No? non la conosce? – (Rideva di gran gusto) – . Immagini un uomo vestito da donna, con una sottana di color malva corta corta, una mantellina nera, un cappello di fil di ferro, il fusto s'intende, ma con il velo e i nastri sossopra che lasciavano vedere il fusto; e un naso, oh che naso! Buona però, tanto buona, Madame Vous-vous?.. Sa perchè io la chiamavo così, Madame Vous-vous? Perchè lei diceva: Bonjour, mademoiselle! E io: Bonjour, madame. Comment vous portez? Mi dimenticavo sempre, a posta, il secondo vous. E lei: portez vous! vous! Quelle étourderie!

– Eppoi?

– Eppoi cosa?

Non trovai altra domanda che intorno i divertimenti di lei, all'inverno.

Conversazioni? Ma che! non andavan da nessuno; non ricevevan nessuno. A teatro sì, qualche volta…; a opere o a commedie, di cui finsi ignorare l'argomento per non aver necessità d'interloquire e per lasciar dire a lei, chiacchierina agile e fervida. Nell'esprimere impressioni lontane e ancora sensibili essa aveva una prontezza insolita, e s'arrestava a quando a quando per esser confermata nel suo entusiasmo. Domandava: – Non è forse un bel dramma? Che bella musica, è vero?

Ma tosto io non le badai più affatto. Mentre proseguiva a discorrere, io, non so perchè, o perchè talora ella acuisse la voce al tono fanciullesco e da ciò fossi condotto a ripensarla ragazzetta, o perchè in quell'ora i suoi occhi avessero una luce più viva, o perchè la tinta rossa del tramonto mi rappresentasse, d'improvviso, un altro simile tramonto; non so perchè e come, io ebbi l'istantaneo presentimento d'un risveglio in me nel rinnovarsi d'un ricordo. La memoria, repentinamente e spontaneamente ridesta, mi ridiede in quello stato mortale una fugace coscienza di vita.

Non rammentavo un fatto che importasse, allora, alla mia esistenza; era anzi un fatto minimo che rivedevo e nel quale mi rivedevo con precisione e reintegrazione di circostanze, di azioni, di aspetti, di suoni. Con ogni senso percepii il ricordo.

E anche oggi lo riprendo e ripeto senza sforzo alcuno; in evidenza, per me, tragica, sebbene agli altri possa parere una futile rimembranza.

Un giorno d'autunno salivo al poggio dove una volta i frati del vicino convento riposavano dagli ozi della preghiera svagando l'occhio nel paesaggio intorno, ascoltando capinere e rosignoli, odorando effluvii di menta e di ginepro, bevendo aria vitale e dimenticando, paghi, che il paradiso è per dopo la morte. Ma quel giorno, a vespero, il dominio della mia solitudine era stato invaso; e da chi mi dichiararono alcune voci più alte fra il chiasso che mi giunse a mezza costa. Erano i miei amici; ragazzi e ragazze. Che facevano lassù? Quale nobile impresa? Volli sorprenderli. M'inerpicai di traverso; mi celai a spiare tra una macchia.

Ma bravi! ma bene! Non ci mancava nessuno. Le signorine Marcella Moser e Anna Melvi diricciavano castagne a colpi di pietra e parlavano sommesse; di contro, Guido Learchi, già studente di medicina, zufolava interrompendosi per sgridare, quale direttore all'opera, e finiva di comporre un forno con mattoni e sassi. Gli servivano da manuali Ortensia Moser e Pieruccio Fulgosi, affaticati a raccogliere il combustibile.

– Là!

– Nella siepe!

– Sotto al noce!

Furettavano dappertutto e per poco non mi scovavano.

Pieruccio più svelto di tutti ammucchiava foglie e fronde, che Ortensia recava a bracciate.

Guido protestava:

– Legna grossa e secca! Con questa non si fan bracie!

– Ecco! A te! prendi!

– Che uomini! Un'ora per fare un po' di fuoco! – gridava Ortensia.

E Learchi a bofonchiarla: – Meh! meh! meh!

Poi egli diede uno scapaccione a Pieruccio ordinando:

– Spicciati, tu! Altra legna! legna! dico legna!

Finchè annunciò: – Pronti! – e appiccò il fuoco. Un clamore d'applausi salutò le prime volute di fumo.

– Forza! Siete in ordine?

– Sì, ma non le bracie!

Quand'ecco Pieruccio venne da lungi con grida più alte:

– Legna grossa, signori! legna da carbone! – Si traeva dietro una panca.

– Da bruciare?

– Sei matto?!

– Bruciamola! Bruciamola!

– Non si può! Non è nostra! – protestava Marcella.

– È rotta!

– Bene! Va bene, questa!

– Bruciamola!

– No!

– Sì!

– Sì! Bruciamola!

Urtoni, strappi, scappellotti, strida.

E io piombai in mezzo alla mischia.

Allora! Dopo il breve silenzio della sorpresa:

– Eh! Chi si vede! Ben arrivato! Buona sera! – Sta bene? – Ma si accomodi! – Che cosa comanda? – Uh, che faccia!

Sostenendo io, quantunque a fatica, il cipiglio di severità, le tre signorine, raccolte insieme a braccetto per comune difesa, mi risero in faccia; mentre Guido ripeteva inchini e chiedeva:

– In che possiamo servirla?

Quieto solo lui, Pieruccio, mi attaccava un riccio nella giacca, alle spalle.

– Punto primo! – urlai (Oh in che imbroglio mi ero messo!) – Qui si è rubato!

– Nossignore! – S'inganna! – Non è vero!

– Lasciatelo dire!

– Si sono sbattuti i castagni!

– È falso! – Calunnia! – Calunnia! – Lasciatelo cantare! Ha invidia! – Si calmi…

– Questi ricci sono stati staccati dalle piante! Ho visto! Si vede!

– Uh!.. Bugia! Li abbiamo raccolti in terra!

– Tutti? – interrogavo ora chi non mentiva mai: Ortensia.

– In terra! erano in terra!

Ma Ortensia rispose:

– Due soltanto…

– E chi li ha tolti?

– Io!

Sincera fino alla sfacciataggine. Tutti, tranne Pieruccio, il quale cheto cheto proseguiva l'addobbo al mio dorso, risero, e le dissero: – Brava!

Io urlai ancora:

– Punto secondo! È proibito mangiar castagne o cotte o crude prima di desinare.

– Brrr! – Ha ragione! – Non gliene daremo nemmeno una! – Sì! una, perchè ne faccia la voglia! – Nessuna! Nessuna! – Poverino!..

Anna aggiunse: – La finisca! – ; e la timida Marcella, anche lei: – La smetta!

A cui seguì stentorea la minaccia di Guido; la minaccia studentesca, piazzaiuola, anarchica, spaventevole:

– Abbasso i poliziotti!

– Abbasso!

Che fare? Chi mi salverebbe? Solo un incidente imprevedibile. Infatti Pieruccio, compiuta l'opera sua, mi punse d'un riccio a un polpaccio, e io mi gli rivolsi contro…

– Evviva! – Parve si scoprisse un monumento. Tal gioia fu a vedermi tappezzato a quel modo, che le signorine e il monello minore fecero, a mano a mano, catena; mi rinchiusero in un cerchio; mi rigirarono cantando in coro:

È arrivato l'ambasciatore,
Ulì, ulì, ulera!
È arrivato l'ambasciatore,
Ulì, ulì, ulà!

Intanto Guido sopperiva alla bisogna.

Punf! paf! Due castagne scoppiarono: Marcella e Anna mi presero a braccio; Ortensia mi ripuliva; Pieruccio accorse e si scottò le dita.