Il sole era tramontato in mezzo a certi nuvoloni neri neri che ingombravano l'orizzonte marino, minacciando, dopo una molto bellissima giornata, una notte burrascosa. Gli ultimi riflessi dell'astro, costretti sotto quella cappa di piombo, accendevano come una striscia di fuoco lunghesso il mare, che si vedeva nereggiare in lontananza, di là da parecchi ordini di monti e colline, che sono i contrafforti dell'Apennino ligustico.
Le giornate, essendo sul finire d'autunno, riuscivano brevi; l'aria, già fresca per la stagione, si raffreddava sempre più per l'accostarsi del temporale e per il calar della notte. E già nascosto nell'ombra, sebbene fosse murato su in alto, era il castello di Roccamàla, severo edifizio tra il monastico e il feudale, siccome era dimostrato da un campanile, vecchio avanzo di chiesa, dimenticato in mezzo a torrioni e mura merlate, le quali avevano da due lati l'abisso, e un largo fosso dagli altri due, dov'era più dolce il pendìo.
Se la memoria non mi tradisce, questo castello di Roccamàla era stato da principio un convento di frati cirsterciensi, ordine il quale, fondato appena da S. Bernardo, si propagò alla lesta come una nidiata di conigli, e corse in pochi anni a popolare i paesi vicini. In Italia, segnatamente, e' furono come le cavallette d'Egitto. Dappertutto edificarono monasteri, e in parecchi luoghi (poichè allora, a quanto sembra, la novità delle fogge presiedeva eziandio alla prevalenza di questo o di quel sodalizio di frati) si allogarono in que' conventi che altri ordini più non potevano far prosperare, tanto erano andati giù nel concetto delle anime timorate.
Senonchè, i cisterciensi, o bernardoni, come erano chiamati dalle popolazioni ligustiche dal nome del fondatore, fortunatissimi altrove, nol furono del pari nel loro ricovero di Roccamàla. Nocque loro la fortezza naturale del sito e il comandar che faceva a due ottime strade (ottime, s'intende, per i tempi d'allora); laonde, corsi e ricorsi quei monti da gente strana, Roccamàla fu presa e divenne feudo di un valoroso conte, il quale non aveva altro che la sua spada, ma sapeva con quella tagliarsi dalla pezza la sua parte di tela. E intorno a Roccamàla il conte Ugo si tagliò di siffatta guisa un largo dominio, donde appariva, come tanti suoi pari, avvoltoio appollaiato sulla rupe, pronto a calare, se le discordie altrui gliene porgessero il destro, sulla marinaresca riviera. I frati, messi fuori di sella, dovettero quindi andarsene a dimorare più giù, verso il paesello che dipendeva dalla rocca, ma dove furono sempre a disagio, e intisichirono, come una pianta in luogo uggioso, sebbene il conte Ugo non li molestasse per nulla. Il fiero castellano non badava ad altro che a rafforzare e munire la sua rocca; la quale, pochi anni di poi, per una di quelle contese così facili a nascere tra vicini, sostenne valorosamente l'assedio di uno dei signori Del Carretto, e lo rimandò con Dio, conciato, lui e la sua gente, per il dì delle feste.
Ma egli non è di questo conte Ugo, capo stipite dei signori di Roccamàla, che io debbo narrar le gesta ai lettori, sebbene talfiata e' dovrà essere ricordato con distesi ragionari. Narro di forse cento trent'anni dopo di lui, quando quel forte legnaggio faceva bella testimonianza di sè in un altro conte Ugo prode e gentil cavaliere, amante delle giostre, delle cacce, delle tenzoni, dei trovadori e de' geniali convegni, per le quali cose era quasi sempre calato il ponte di Roccamàla e risuonavano le spaziosi arcate di festevoli risa e di liete canzoni.
Gaia gente, allegre mura! Il giovine conte era ricco, potente e bello come un eroe da romanzo, e felice per sovrammercato, come gli eroi da romanzo non sogliono essere.
Il papa lo aveva benedetto, sul nascere, mandando al conte Ruberto suo padre, per sì fausto evento domestico, un sacco d'indulgenze, che potevano bastare al neonato per tutto il tempo della sua vita, e avanzarne ancora un bel gruzzolo per uso della sua gente di casa.
Nella sua rocca convenivano d'ogni parte i più fedeli amici che uomo vedesse mai, innamorati dei modi suoi cortesi, liberali e magnifici; ed erano tali per nobiltà di sangue, e per alto valore e prodezze, da poter rinfrescare intorno a lui, nuovo Artù, l'onorata memoria dei cavalieri della Tavola rotonda.
Egli aveva i più bei falconi d'Europa, che gli erano stati donati da un suo zio materno, gran maestro de' cavalieri di Malta. Della qual cosa era giunta voce perfino al re di Francia, il quale, avvezzo per lo innanzi a ricevere ogni anno da Malta i migliori falconi pellegrini, e non gli parendo più che il gran maestro dell'ordine facesse il debito suo con la usata larghezza, ebbe a tenerne parola co' suoi gentiluomini. E uno di costoro gli rispose: – Sire, j'ai oui dire que le Grand Maistre a un sien neveu, de fort bonne noblesse, qu' il a en grande affection, et c'est lui qui reçoit les plus beaux faucons et les plus gentils que l'on puisse voir. – A cui il re di rimando: – M'est avis que ce jeune homme, puisque il est d'aussi bonne noblesse que vous le dites, vienne chez nous, et nous le ferons notre grand fauconnier, et l'aurons en haute estime, tel éstant notre bon plaisir. Aussi nous ne perarone pas de si nobles et gentilles bêtes, si chères à monseigneur Saint-Hubert, et gagnerons un vaillant chevalier pour notre joyeuse maison de France. —
Ma il conte Ugo non potè, siccome pur era desiderio dello zio, tenere lo invito, in modo tanto cortese a lui fatto dai reali di Francia. Di fama, di potenza e di onore, egli aveva quanto bastasse ad orrevole cavaliero del suo tempo; e poi, conte Ugo non avrebbe lasciata l'Italia per il trono del mondo se mai Domineddio glielo avesse profferto; imperocchè egli era amato dalla più bella tra le creature umane, da Giovanna di Torrespina, da colei che celebravano per leggiadria e valore quanti erano cultori della gaia scienza, e che lasciò ella stessa, a testimonianza del suo ingegno, le più graziose ballate in quella lingua provenzale, che era in fiore per tutta Italia, innanzi che l'amante della bellissima Avignonese facesse della lingua italiana l'idioma d'amore.
Per simiglianti venture il conte Ugo non saliva punto in superbia, che borioso non era, nè sciocco. Prode in armi, aveva combattuto daccanto al padre, e non ne menava alcun vanto; era misurato ne' modi, schietto, umano e gentile. Ed ognuno, ricordando come una indovina, chiamata dalla buona contessa Alda sua madre alla culla del bambino, avesse pronosticato: «tuo figlio sarà un uomo felice», ripeteva che il conte Ugo era felice davvero, e, quel che più monta, era degno di esserlo.
Ma cotesto per l'appunto faceva venire i brividi, ogni qual volta se ne parlasse, a mastro Benedicite, lo strozziere, o falconiere che dir si voglia, dei signori di Roccamàla.
E perchè mo'? Nato e cresciuto nel castello, il vecchio mastro Benedicite amava il signor suo, sto per dire più dei suoi falconi, i quali falconi egli amava più dei suoi occhi medesimi. Egli era un quid tra il servo e il maggiordomo, tra il castaldo e il comandante del presidio; era insomma il ser faccenda di casa; il vecchio arnese della rocca, che aveva libertà di parola come un pazzo. Stato particolare che si spiegherà agevolmente col dire che egli era fratello di latte del vecchio conte Ruberto; che aveva salvata la vita, o quasi, alla contessa Alda, un giorno che il suo ronzino le aveva vinta la mano, e che, nato strozziere, perchè tale era suo padre, e tale suo avolo, aveva pure studiato un po' di latino sui vecchi messali dei frati del paese, tanto da essere creduto uomo di dottrina da tutto il vicinato, e degno di intuonare il benedicite alla mensa dei suoi padroni, alla quale era ammesso, sebbene ad un desco più basso. Ora che i lettori sanno anche per qual ragione il nostro valentuomo si chiamasse mastro Benedicite, noi finiremo il bozzetto col dire che egli sapeva il mestier suo a menadito, e (poichè bisogna confessar tutto, il male come il bene) ne andava superbo assai più che non fosse consentito dalla cristiana umiltà.
E adesso che lo si conosce intus et in cute, co' suoi vizi e con le sue virtù, e non si può dubitare che non amasse il conte Ugo, come va, chiederete, che a mastro Benedicite venissero i brividi, ogni qual volta si toccasse della felicità del padrone?
Qui giace nocco, lettori amorevoli, e se vorrete tirare innanzi a leggere con quella pazienza medesima che io a scrivere, farò di chiarirvi il negozio tra breve, senza guastar l'ordine del racconto, il quale ora mi costringe a prendere una viottola di fianco. Parrà una digressione, un perditempo, e non è che una scorciatoia, per la quale faremo un viaggio e due servizi.
Il dotto strozziere se ne stava nella sua falconeria, comodo edifizio accanto alla seconda porta della rocca, dove erano tutte le generazioni di falchi e d'astori, ed ogni altro arnese attinente alla caccia. Quella nobile famiglia di bestie aveva faticato di molto nella giornata, poichè il conte di Roccamàla era andato con numerosa brigata a falconare, ed aveva cavalcato per una ventina di miglia, fino al castello di Torrespina, facendo gran caccia di uccellame e selvaggina. Il buon nome degli alati cacciatori di Malta era stato nobilmente sostenuto al cospetto di leggiadre dame e cavalieri, e mastro Benedicite raddoppiava il cibo a' suoi figliuoli, com'egli soleva chiamarli, dando loro le interiora, cuori e fegatelli di starne, lepri, ed altri volatili e quadrupedi, che erano stati feriti a morte dai rostri di quelle bestie valorose.
– Optime, fili mi! Tu non hai nessuno che possa starti a paro. Nullus tibi se conferet heros, sebbene tu abbia già i sessanta suonati. Tò, mio dolce amico, questo è per te. —
Queste parole, erano rivolte ad un bel falco randione, che mastro Benedicite s'era recato amorosamente sul pugno, offrendo alle sue allegre beccate uno spicchio di carne sanguinolenta. Era quello il beniamino dello strozziere, e degnamente rispondeva alla preferenza affettuosa di mastro Benedicite, facendo il fatto suo per modo da non toccargli neppure il sommo delle dita, e interrompendo ad ogni tratto il suo pasto (notate gran tenerezza) con un picciol grido di gioia e di gratitudine.
– E tu, che fai costì, manigoldo? – borbottò poco stante mastro Benedicite, facendo la voce tanto ruvida, quanto era stata dolce dapprima. – Metto pegno che ancora non sarà nulla a suo posto, nè lunghe, nè cappelli.
– C'è tutto, zio, ed ho anche ripulito per bene il pavimento; – rispose, senza scomporsi punto per quella infinita ruvidezza, un biondo adolescente, che era venuto allora a stringersi ai fianchi del vecchio falconiere.
– E la lezione?
– La so.
– Tanto meglio per te, se tu di' il vero, fannullone. Orvia, sentiamo un tratto… Quante sono le generazioni de' falchi? —
Il fanciullo stette un po' sopra pensiero; quindi rispose a mezza voce:
– Sono sei…
– Ah, ah! – gridò mastro Benedicite, in quella che proseguiva a dare il pasto alle sue bestie – certuni lo dicono, ma cotestoro, ragazzo mio, non sanno neanco l'abbicì della falconeria.
– Sono sette; – si provò a dire il fanciullo.
– Sette, sì certamente, sette e non sei. La prima?
– Il randione.
– Adagio, adagio a' ma' passi e non mettiamo il carro davanti a' buoi. Si va dal minore al maggiore, de minore ad majorem. Il primo legnaggio sono lanieri, che sono i più vani: molta apparenza e poca sostanza. E il secondo?
– Il secondo, son quelli chiamati pellegrini.
– Sta bene, e perchè?
– Perchè persona non può trovare il loro nido; anzi sono presi come in pellegrinaggio, e sono molto leggeri a nutrire, cortesi e di buon'aria, e valenti e arditi.
– Bene, bene! – borbottò il falconiere – e il terzo?
– Il terzo sono falconi montanini, che si nascondono dappertutto, e quando son nascosti non fuggono più; il quarto falconi gentili; il quinto…
– Non correr già a precipizio! Festina lente, ragazzo mio! Che cosa sono anzitutto i falconi gentili?
Il fanciullo era rimasto a secco. La voglia di far presto gli aveva fatto perdere il filo.
– Ma… – disse egli – i falconi gentili sono… sono…
– Sono quel che tu non sai, per quanto io vedo. E quello che tu non sai, gli è che i falconi gentili sono nobilissimi, prendono la gru, e non hanno che un male, cioè di volar troppo lungo, per modo che si bisogna averne buon cavallo per seguirli, e quassù per i nostri greppi non approderebbero. Ora al quinto, e bada a non incespicare.
– Il quinto – proseguì il nipote – son gerfalchi, li quali passano tutti gli uccelli della loro grandezza, e sono forti, fieri, ingegnosi e bene avventurati in cacciare e in prendere; il sesto è il sagro, molto grande e somigliante allo sparviero.
– All'aquila! all'aquila! – interruppe mastro Benedicite. – Vedi mo', Anselmuccio, questo è appunto un sagro; o dove ti sembra egli che rassomigli allo sparviero? Quello che tu di' è l'astore, non già il falco sagro.
– All'aquila; – soggiunse il ragazzo, risovvenendosi, – ma, degli occhi, del becco, delle ali e dell'orgoglio somigliante al gerfalco. Il settimo…
Mastro Benedicite non aveva messo a tortura il nipote, che per farlo giungere a quel settimo.
– Eccolo, il settimo, – interruppe egli con aria di trionfo – eccolo, il randione, cioè, il signore e re di tutti gli uccelli, che non è niuno che osi volare appresso di lui, nè dinanzi. Vedi, figliuol mio, tu lasci il randione contro qualsivoglia uccello munito di poderose ali, e non c'è verso di fuggirgli; cadono tutti tramortiti in tal guisa, che l'uomo li può prendere, come fossero morti. —
E ciò detto, essendo finito con la lezione il pasto delle sue bestie nobilissime, mastro Benedicite si volse da capo al beniamino randione:
– Non è egli vero, fili mi dilectissime, che voi siete uccello da cosiffatte prodezze? Or via, pigliate il cappello e buona notte. Salve tandem!
Il falcone, con la mansuetudine di tutti i suoi pari, quando siano manieri, e stati da gran pezza a scuola sotto un buon maestro d'arte aucuparia, raffermò con moti quasi soavi le palpebre, si lasciò incappellare come un membro della confraternita della Morte, e coi geti annodati ai piedi si pose chetamente sul bastone a dormire.
Ora, in quella che mastro Benedicite si metteva attorno agli altri falconi per far loro il medesimo uffizio, si affacciò sull'uscio della falconeria un famiglio.
– Ohè, mastro Benedicite, s'ha egli da alzare il ponte, questa sera?
– Che ponte mi vai tu pontando ora? – gridò stizzito il falconiere.
– Sì, il ponte, il ponte! – disse di rimando quell'altro. – Messer lo Conte e tutta la sua gente sono per andare a mensa, e credo non aspettino più altri da fuori.
– Questo sapevo; e poi?
– E poi, mastro Benedicite, io non c'entro. Se a voi piace che il ponte rimanga calato, accomodatevi pure. Voi avete da messer lo Conte ogni autorità, per far questo ed altro…
– Sì certo, e me ne vanto; – rispose lo strozziere, che parlava allora da comandante della guardia – e penso di non essere venuto meno alla fiducia di messere Ugo. Il ponte è alzato.
– È calato, – s'impuntava a dir l'altro – qui siete in errore; è calato.
– Amico, – esclamò mastro Benedicite, dopo aver bene squadrato in viso il famiglio, alla luce di una lanterna che aveva accesa durante quel po' di conversazione, – bibisti quam maxime, a quel che pare.
– Che cosa dite? io non intendo il vostro latino.
– Dico che tu t'impacci de' fatti tuoi, e non mi venga a far l'omo; dico infine che tu se' pazzo, o ubbriaco. —
Quell'altro si strinse nelle spalle, facendo con le labbra l'atto di chi alla perfine non ci ha nè sal nè pepe da metter su. E mentre il vecchio, presa la lanterna, esciva dalla falconeria per avviarsi alla porta della rocca, si fece in tal guisa a proseguire il discorso:
– Io non volevo far altro che darvi un cenno della cosa. Per me, poi, stia calato, o si alzi, non me ne importa un frullo. Ad altri, in cambio, può talentare che l'escita sia libera, e non c'è nissun male. Già, chi ha da venire a darci molestia quassù? Nemici molti, si farebbero scorgere troppo tempo prima. Pochi, avrebbero degna accoglienza. E se pure non si ha paura del diavolo… il quale del resto non ha bisogno…
– Sta zitto là, manigoldo! – gridò Benedicite, e fu ad un pelo di mettergli la palma della mano sui denti. – Tu non sai quel che ti dica, e meno ancora di quello che hai detto poc'anzi del ponte calato.
– Orbene, vedete di per voi; è alzato o calato? Erano allora per l'appunto alla porta, e i buffi dell'aria esterna s'ingolfavano rumorosamente sotto l'androne. Mastro Benedicite non rispose, che non avea tempo da schermire di lingua col famiglio, e con passo deliberato corse da un lato dell'androne a cercare un uscio socchiuso, donde usciva un po' di luce fumosa e un suon di voci avvinazzate.
– Che fate voi qui, pendagli da forca? Giuocate a zara? Avrete tempo a giuocare, quando sarete con Satanasso, che il malanno vi ci porti illico et immediate!Chi ha calato il ponte, che è stato levato pur mo' sotto i miei occhi?
– Mastro Benedicite, – rispose uno degli arcieri, alzandosi dalla panca, – noi non ci siam mossi di qui. Se il ponte era alzato, come voi dite, penso che lo sarà tuttavia.
– No, vi dico; è calato.
– Sarà qualche paggio, – entrò a dire un altro della brigata, in quella che tutti uscivano dalla camera per tener dietro allo strozziere, – sarà qualche paggio randagio, che ne fa qualcuna delle sue.
– Baie! Questi manigoldi si calano giù nel fosso dalle finestre, quando loro metta conto di uscire a far le scorribande nel vicinato. E così si fiaccasse una volta il collo, messer Fiordaliso, che ha introdotto il costume di appendersi alle scale di corda! Ma qui, vivaddio, gatta ci cova, o voi altri avete calato il ponte, ed ora che siete alticci dal vino, non ve ne ricordate più altro. —
Gli arcieri, che ben sapevano di non averci messo mano, ma che pure volevano farla finita con le sfuriate di quell'autorevole personaggio, non risposero verbo. Chi tace acconsente; e per tal guisa fu tacitamente ammesso che il ponte di Roccamàla, la sera del 29 novembre, giorno di san Saturnino, dell'anno del Signore 1284, era stato levato e calato.
Ma quel ch'era stato disfatto bisognava rifare. E già si appigliavano alle manovelle per trarre le catene, allorquando si udì dall'altro lato del fosso lo scalpito di un cavallo che risaliva galoppando il pendìo, e, subito dopo, lo squillo di un corno che domandava ospitalità al conte Ugo di Roccamàla.
– Chi diamine giunge a quest'ora? – esclamò uno degli arcieri.
– Proprio a tempo, – soggiunse un altro, – per farci risparmiar la fatica!
– E come ha fretta, il sere! E' suona alla disperata.
– Su, su, tirate, alla croce di Dio, e non mi state a far chiacchiere! – interruppe lo strozziere.
– O perchè volete voi che si alzi il ponte, ora, per calarlo da capo? E l'ospite che giunge, per dove volete che passi?
– Che ospite del malanno! Vada a farsi impiccare per la gola…
– Ma… e messer lo Conte, se giunge a risaperlo…
– Messer lo Conte… messer lo Conte… vi comando io, e pagherò io per tutti. —
E dicendo queste parole, il vecchio strozziere tremava a verghe.
– Poffarbacco! – esclamò uno degli arcieri – si direbbe che avete paura di una visita di messer Satanasso in persona. Basta, sia come vi talenta, o, per parlar latino alla vostra guisa, fiat volontas tua, mastro Benedicite. Orsù, figliuoli, alle manovelle!
– Sì, sì, alle manovelle! – ripetè lo strozziere, più morto che vivo, senza stare a piatire coll'arciere, e mettendosi all'opera egli stesso con le braccia tremanti.
– Ohè! ohè! messeri! In tal guisa si ricevono gli ospiti, dalla gente costumata?
Queste parole, accompagnate da un riso sarcastico, venivano dall'altra banda del fosso. Mastro Benedicite non poteva scorgere chi fosse, essendo egli sotto la luce della lanterna, e il nuovo capitato fermo di là dal ponte nella oscurità della notte; ma tant'è, gli parve di scorgere un paio d'occhiacci fiammeggianti, e per moto naturale si recò le dita alla fronte, per farsi il segno della croce.
– Domine salvum fac… Vade retro Satana… – borbottò egli tra i denti. – Alzate, alzate, in nome di Dio!
Intanto il riso sarcastico si faceva udire da capo, e la voce con esso.
– Ah! ah! grazie, grazie, per mia fe', mastro Benedicite! Un povero romèo è egli dunque un cane tignoso, che gli si chiudano le porte sul muso? In verità ch'io mi facevo più ospitali i signori di Roccamàla. —
Tocco nel vivo, lo strozziere si fe' qualche passo innanzi, ma senza por piede sul tavolato del ponte, e tirando intorno a sè tutti gli arcieri, perchè gli facessero buona difesa; quindi, con voce che si provava a far parere sicura, rispose:
– I signori di Roccamàla furono sempre e saranno i più ospitali cavalieri della cristianità, messer pellegrino, e cotesto abbiatevelo per fermo. Appunto in quest'ora c'è corte bandita a tutti i più riputati che portino spada e cappa in questi dintorni, e scorre il vin di Cipro, che alla mensa del serenissimo doge di Venezia non se ne bee del migliore. Ma gli ospiti del magnifico conte Ugo son persone a modo, e non hanno la vostra meschina figura, messer pellegrino, sebbene io la scorgo attraverso questa mezza oscurità.
– Ah, voi giudicate l'uomo dalla apparenza? Io dovrei pigliarvi allora per un otre, se bene vi scorgo a mia volta. Andate là, mastro Benedicite… e non vi faccia meraviglia ch'io vi chiami col vostro nome, poichè l'hanno pur mo' gridato gli uomini vostri. Andate là, ed annunziate al magnifico conte Ugo la venuta di un povero pellegrino di Roma.
– Di Roma! – ripetè con piglio d'incredulità lo strozziere, in quella che dentro di sè si raccomandava a tutti i santi del calendario.
– Ne dubitate? Ci ho gusto. L'uomo che dubita è l'uomo che pensa. Ma io ci ho di buone testimonianze a mettervi fuori, che potranno acquetare la vostra timorata coscienza. Vengo da Roma, dove ho visto il Papa e la Santa Madre Chiesa, che fanno insieme una buonissima vita. Peccato che non abbiano figliuoli! Basta, io porto qui, sulla sella del mio magro ronzino, una gerla di coroncine benedette e d'indulgenze plenarie, e poi le più succose dispense che ogni buon cristiano possa desiderare; dispense di sgravarsi senza dolore, checchè sia stato decretato in contrario; dispense di mangiare il proprio simile, quando si abbiano buoni denti, e di bere senza ubriacarsi, mettendo acqua nel vino. Che ve ne pare, mastro Benedicite? son io degno di entrare?
– Su, su, arcieri! – urlò il vecchio strozziere. – Alle catene, alle catene!
Ma sì, a persuaderli che gli tenessero bordone! Gli arcieri erano rimasti stregati dalle bizzarrie del pellegrino, e sghignazzavano ereticamente, senza badare alle furie di mastro Benedicite. Ed egli a gridare, a tempestare, a pigliarli pel collo (che la paura gli raddoppiava le forze), fino a tanto non li ebbe ridotti all'obbedienza. Ma, sebbene ci si mettessero tutti, ed egli medesimo si provasse ad aiutarli, le catene non iscorrevano punto.
– Voi non fate il debito vostro, manigoldi; tirate a voi con quanta forza avete!
– Mastro Benedicite le catene hanno la ruggine. Intanto quell'altro continuava a ridere.
– Mastro Benedicite, la ruggine è molto più cortese dama che voi non siate cavaliero. Ora, voi vedete, già venti volte, non una, avrei potuto passare, e nol fo, per non usare villania al vostro signore. Ma se egli non è malnato castellano, udrà i tre squilli di corno che si mandano alle porte della sua rocca. —
Così parlò il pellegrino di Roma, e, posto mano al corno che gli pendeva da fianco, suonò con esso tre volte.
– Misericordia! – esclamarono gli arcieri. – Questa è la tromba del giudizio universale.
Al primo squillo di corno, quel tale squillo che avea fatti rimanere sospesi con le braccia in aria gli arcieri, conte Ugo stette egli pure sospeso, con la coppa d'oro alle labbra.
– Un ospite! – esclamò egli, voltandosi alla brigata. – Sia il ben venuto a Roccamàla.
E bevuto un sorso, mandò attorno la tazza, quella tazza d'oro lavorato con la quale i suoi antenati, da Ugo il negromante, fino a Ruberto il taciturno, avevano avuto costume di far le loro libazioni ospitali.
– Messere, – disse Fiordaliso, – io mi penso che questo sconosciuto visitatore rimarrà un pezzo alla porta e morrà anche a ghiado, se aspetta che gli apra mastro Benedicite. —
Colui che parlava in tal guisa era un giovine sui vent'anni, vestito di un farsetto azzurrognolo listato di bianco e di vermiglio, e con una zazzera bionda le cui ciocche scompigliate scendevano a nascondergli mezza la fronte e le guancie. Il viso roseo e la delicatezza dei contorni lo avrebbero fatto togliere agevolmente per una leggiadra donna travestita da paggio, se certi peli vani che ombreggiavano il labbro superiore e il basso delle guance, non avessero fatto manifesto che egli avea dritto a portare il nome mascolino di Fiordaliso, col quale era chiamato a Roccamàla, e conosciuto da tutte le graziose femmine della contèa, nel giro di venticinque miglia, ed anche più oltre.
Il conte Ugo sorrise con aria affettuosa alle parole dell'adolescente.
– Che vuoi dir tu, Fiordaliso?
– Dico, messere, che con mastro Benedicite non si può uscir mai, quando s'è dentro, nè entrare, quando s'è fuori. Egli è sospettoso come una lepre, e mal per noi se gli somiglia san Pietro, o se va egli un giorno a far da portinaio in sua vece.
– Per ora, – soggiunse il Conte, – e' bisognerà che se la tolga in pace e metta mano alle chiavi. Roccamàla non è un paradiso; ma essa non è mai stata chiusa a nessun viandante che domandasse ospizio per amor di Dio, o del valoroso barone san Giorgio che l'ha in guardia. I miei antichi furono gente melanconica e contegnosa, ma a questo debito non hanno fallito mai, e non lo dimentica di certo il mio vecchio strozziere, che è il cronista della famiglia.
– Ah! gli è dunque un uomo di dottrina, il vostro Benedicite? – chiese Ansaldo di Leuca.
– Altro ci è! Non parlo dei suoi testi latini, che n'ha sempre una serqua tra i denti, parati ad uscirne fuori. Ma e' vi sa dire quando e come fu murato il castello, e poi giù giù una infilzata di storielle, che a udirne la metà v'intronerebbero il capo per un giorno e non vi lascerebbero più dormire la notte. Ma lo so ben io, che da bambino gli ero sempre sulle ginocchia e pendevo dalle sue labbra; lo stuzzicavo sempre a narrarne di nuove, e poi non c'era più verso che potessi pigliar sonno, tante erano le immagini del tempo antico, che scendevano a popolare la solitudine della mia camera. Ma questo ospite non giunge…
– Io ve l'ho detto, messere; mastro Benedicite vorrà sapere anzitutto il nome, la patria e la condizione, se scapolo o ammogliato, e Dio sa quant'altre cose di quella fatta.
– Se egli fa ciò, vuol levarmi il mio buon nome, e noi dovremo dargli una strapazzata, appena ei venga quassù. Messeri, questo vin di Cipro… Ma che diamine fa egli, quel vecchio scimunito? Ho io ad esser chiamato per cagion sua il più tristo cavaliero d'Italia?
Questa sfuriata del conte Ugo era cagionata, siccome i lettori hanno indovinato per fermo, dai tre squilli di corno che metteva il forastiere, stanco di attendere e di piatire con mastro Benedicite.
– Al nome di Dio! – esclamò Ansaldo di Leuca. – Questi è uomo di vaglia.
– E quel vecchio pazzo non se ne dà per inteso! Suvvia, Fiordaliso, scendi tu alla porta, e vedi che cos'è egli mai che ha intorpidite le gambe al nostro falconiere. —
Fiordaliso corse con quella baldanza che è propria de' giovani e che a lui era accresciuta dieci cotanti dalla amorevolezza del suo signore. Ma egli era appena sulle scale, che vide giungere ansante, trafelato, mastro Benedicite; laonde, aspettatolo sul pianerottolo, rientrò con esso lui nella sala, con una curiosità in corpo da lasciarsi indietro una dozzina di femmine. Intendiamoci bene, di femmine e non di donne, poichè tra queste e quelle, sebbene non ammessa dal vocabolario, corre una differenza grandissima.
– Orbene, mastro Benedicite, – gridò conte Ugo, appena ebbe scorto da lunge lo strozziere, – e come va che i forastieri chiedono ospitalità e non l'ottengono, a Roccamàla? —
Senonchè, fatto questo rimprovero in forma di domanda, egli vide la faccia dello strozziere, e, buono com'era, tosto raddolcì la sua voce per dirgli:
– Ma che è, Benedicite? Che cosa sono quegli occhi stralunati, e quel viso smorto?
– Egli è, messer lo Conte… – balbettò il vecchio – egli è… ho calato il ponte… cioè, l'avevo alzato e poi lo rinvenni calato… Un pellegrino, che afferma giunger da Roma… e mi pare che venga piuttosto da casa il diavolo…
– Potrebb'esser tutt'uno! – esclamò Ansaldo di Leuca.
– Sarà come voi dite, messere Ansaldo; ma io penso che questo forastiero del malanno… insomma, io so quel che mi dico…
– Sì, sì! – interruppe ridendo il conte Ugo, dopo aver fatto cenno degli occhi a Fiordaliso, il quale fu sollecito ad uscire da capo. – Ma voi avete a sapere eziandio, mastro Benedicite, che il nostro castello, anco a voler partecipare alle vostre superstizioni, non ha paura del diavolo. Qui c'è stato parecchi giorni il santissimo Bernardo di Chiaravalle, quando Roccamàla era convento del suo ordine, e la benedizione di un tanto uomo non basta ella a raffidarvi?
– Essa, con vostra licenza, messer lo Conte, non ha impedito…
– Ah, ah! vecchie storielle da raccontarsi quest'inverno accanto al fuoco. Ma dove lasciate voi, uomo di salda memoria, le benedizioni di due papi? Dove la visita del vescovo Gualberto? Macte animo, generose senex! vi dirò io, imitandovi; noi siamo armati di bolle, d'indulgenze e d'acqua santa, per ricevere anco una visita dello spirito maligno. Portae inferi… come dite voi, che io non lo ricordo più, il vostro latino?
– Non praevalebunt, messer lo Conte; e così Dio v'ascolti! – soggiunse mastro Benedicite, che, vedendosi là, al cospetto del suo signore e di tanti allegri cavalieri, incominciava a stupirsi d'avere avuto paura.
– Ben venga il diavolo, se pure è egli che giunge! – disse Ansaldo di Leuca.
– Egli è alla perfine un cavaliero di alto legnaggio, sebbene caduto in disgrazia del più possente barone del mondo, – soggiunse Enrico Corradengo, – e noi ci terremo ad onore di averlo commensale.
– Ecco un forastiero che fa parlar molto di sè, – conchiuse il conte Ugo, – e noi vedremo se la persona sua risponderà alla nostra aspettazione. Ad ogni modo, sia il benvenuto tra noi. Mastro Benedicite, aprite, vi prego, al vostro spauracchio. —
Il falconiere andò verso l'uscio della sala e la spalancò. Frattanto si udiva lo scalpiccìo dei piedi nel corridoio, e la gaia voce di Fiordaliso.
– Entrate, messere pellegrino; venite a scaldarvi e a rifocillarvi un tratto in buona compagnia. —
Allora fu veduto entrar nella sala un uomo smilzo e lungo come… dove pescherò io il paragone? come le speranze dell'autore di questo racconto.
Egli si fece innanzi, rasentando una ricca mensa, intorno alla quale erano seduti dieci o dodici convitati. La sua cappa di bigello, tutta sgualcita e rattoppata in più luoghi, il sarrocchino coperto di nicchi marini e il largo cappello che s'era lasciato ricadere dietro le spalle, facevano contrasto co' farsetti e giustacuori di velluto variopinto, con le berrette piumate, e le collane d'oro alle quali accresceva splendore la luce riflessa dei doppieri. Ma più assai che le vesti, contrastava la sua pallida faccia coi volti allegri degli ospiti di Roccamàla.
Chi era costui? Un romèo, cioè un pellegrino che veniva da Roma. Pellegrini si dicevano coloro i quali andavano a sciogliere il voto ai luoghi santi, e segnatamente al sepolcro di Cristo; romèi più propriamente coloro i quali andavano alla eterna città, per baciare il piede al Giove di bronzo, ribattezzato San Pietro, e per ottenere la benedizione del papa. Ma quello del romèo non era un mestiero, sibbene uno stato accidentale e transitorio dell'uomo; ora, che altro fosse, e a qual ceto appartenesse il nuovo venuto, non era dato d'intendere. Poteva essere un povero diavolo, che, stanco di servire gli uomini, si fosse accomodato ai servigi di Dio, od anco un barone, carico di peccati, che fosse andato a pentirsene a Roma, col cilicio alle reni e col bordone tra mani.
La cera del pellegrino non lasciava intendere se egli fosse di questa o di quell'altra specie; ma certo non era d'uomo da poco. Il viso, un tal po' allungato e scarno, mostrava que' fini contorni che non sono oggi, e per fermo non erano allora, di gente rozza e villana. Assai meno poteva indovinarsi l'età, imperocchè quel suo viso era tale da rispondere ad ogni congettura, e si poteva dargli trenta come sessant'anni; privilegio dei vecchi e dei giovani invecchiati, allorquando gli uni e gli altri abbiano membra asciutte, e carni e peli senza un colore spiccato.
Per farla finita con le dipinture, diremo ch'egli era aitante della persona, e per avventura oltre la comune degli uomini, che infine i suoi modi erano d'uomo punto impacciato nel farsi innanzi ad una nobile brigata.
Egli entrò diffatti con passo fermo e sicuro, affrontando gli sguardi curiosi; e rasentando, come ho già detto, la mensa, andò difilato verso il conte Ugo, che al suo apparire s'era cortesemente alzato da sedere, per farglisi incontro.
– Entrate, messer pellegrino; – aveva detto quest'ultimo, accompagnando le parole con atti graziosi. – Deponete il vostro bordone e il cappello, e sedete qui daccanto a me. Il nostro Fiordaliso cederà di grand'animo il suo posto al nuovo ospite che la nostra buona ventura ci manda.
– E non gli chiede nemmanco il suo nome! – borbottò fra i denti mastro Benedicite, in quella che andava a sedersi al suo posto consueto, nel basso, della tavola. – Già, egli è sempre stato così, come tutti i suoi vecchi! Suo padre, il taciturno, non apriva la bocca che cinque o sei volte all'anno, e ci volevano proprio i forastieri, per fargliele metter fuori, quelle quattro parole! —
Il pellegrino, intanto, si era seduto a fianco del conte Ugo, e dalle sue mani aveva ricevuto la coppa ospitale; ma in cambio di recarsela alle labbra, stava curiosamente a guardarla.
– Vi piace questa coppa, messer pellegrino? – ripigliò a dire il conte Ugo. – A me duole di non potervela offerire in presente, dacchè essa è la coppa dei signori di Roccamàla, la coppa di un mio famoso antenato, che portava appunto il mio nome, or sono forse cento e trent'anni. Non è egli vero, mastro Benedicite?
– Sì, messere; – rispose il vecchio, – Ugo il negromante mori nel 1150. E la coppa, narrano le cronache, fosse quella di Borman, gigante che i Liguri adorarono poscia come un dio, la quale fu donata al conte Ugo dalla fata Melusina. Il santo vescovo Gualberto voleva buttarla giù nel torrente, ma il vostro trisavo Aleramo…
– Basta, basta! – interruppe il Conte. – Ecco già un monte di parole per una coppa che non ne franca la spesa, quantunque sia d'oro. Ella ha un sol pregio, messer pellegrino; vo' dire l'amorevolezza con la quale io la presento a' miei ospiti.
– Lo so, messer lo Conte, lo so; – rispose il romèo. – Questa è la fama che di voi corre nel mondo.
Quindi, rivoltosi alla brigata, soggiunse, innanzi di recar la coppa alle labbra:
– Nobili messeri, io bevo alla vostra felicità, se pure è possibile che un uomo sia al mondo felice.
– Grazie dell'augurio, messer pellegrino; – disse Ansaldo di Leuca; – ma voi m'avete l'aria di dubitarne. O perchè non potrebbe uomo esser felice in questo mondo?
– In hac lacrymarum valle; – borbottò mastro Benedicite. – Ora vediamo che cosa gli sa risponder costui. A' suoi pari non hanno di certo a mancar le ragioni! —
Ma il pellegrino li lasciò a bocca asciutta ambedue, contentandosi a rispondere:
– Messere, a chiarirvi cotesto per bene, si vorrebbe una troppo lunga dissertazione.
– E voi sarete stanco; – entrò a dire il conte Ugo.
– Oh, non già, messer lo Conte! – rispose il pellegrino. – Vengo da Roma a piccole giornate, e non fo molta fatica. Oltre di che, il còmpito ch'io m'ho preso laggiù, mi ha consentito di giovarmi dell'opera di un ronzino; e Lutero, comunque non faccia gran mostra di membra, è un animale che sa il debito suo.
– Che nome! Lutero! – esclamò Enrico Corradengo.
– Un nome greco; – rispose il pellegrino – a Roma si studia molto il greco, oggidì.
– Gran città, quella Roma! non è egli vero, messer pellegrino?
– Sì, davvero, gran città; e chi non l'ha veduta, sia detto con vostra licenza, nobili messeri, non ha veduto nulla. E dire che di presente ella non è ancor giunta a quel tanto di grandezza che papa Leone X ha in mente!
– Leone X! – non potè rattenersi dallo interrompere mastro Benedicite. – O non è più papa Onorio IV?
– Ah! voi siete forte di cronologia, a quel che pare, mastro Benedicite! – rispose il pellegrino. – Onorio IV se ne è salito diritto al cielo, dove sta pregando per la conservazione di Santa Madre Chiesa e pel suo trionfo sui tristi che le fan guerra. Ora abbiamo pontefice il sant'uomo Leone X, munificentissimo principe, il quale dà opera a grandi e laudabili novità. Vedrete la basilica di San Pietro, quando sarà riedificata, e mi saprete dire s'ella non sarà divenuta la più gran meraviglia del mondo cattolico. —
Così dicendo, il pellegrino fece col capo il cenno di chi ha nominato una cosa sacra. Mastro Benedicite non aggiustava fede a' suoi orecchi medesimi. Quell'umile e costumato pellegrino, che parlava con tanta reverenza cristiana, era egli colui che di là dal ponte levatoio di Roccamàla gli aveva pur dianzi parlato, a lui mastro Benedicite, in sì beffarda maniera? Un uomo avveduto avrebbe, a dir vero, notate sulla faccia del pellegrino, segnatamente ai lati delle labbra, alcune rughe, nelle quali usa nascondersi l'ironia, e in certe guardature, che accompagnavano le parole, sarebbe colto in flagranti lo scherno. Ma il buon falconiere, quantunque sapesse di latino, non era uomo da intendere questi nonnulla; argomentate poi se potesse coglierli a volo! Egli era come trasognato, e già si pentiva in cuor suo di aver così male inteso, e peggio giudicato, un uomo che faceva testimonianza di tanta religione.
– E come si vive a Roma? – domandò Fiordaliso. – Chi non ha sulle spalle i gravi carichi della santa religione, non ci morrà mica di noia?
– Dio ne guardi, messere! Roma è l'Atene d'Italia. Sua Santità è un uomo co' fiocchi; vo' dire un degno vicario di Dio. Il redentore del mondo è rappresentato laggiù come si addice a così alto barone. E il Machiavelli, con la sua Mandragora! Quella è una commedia! Il papa ha già voluto udirla recitare due volte. E il Bembo! Che piacevole uomo e che latinista di vaglia! Figuratevi, nobili messeri, ch'egli ha scritto ad un amico suo, non avesse a leggere le epistole di san Paolo, per non guastarsi la buona latinità! La mercè di questo valentuomo, che è segretario ai brevi, gli oracoli del Vaticano sono espressi con una eleganza, che non fu mai la maggiore. La vergine Maria si chiama Dea Lauretana; papa Leone è assunto al pontificato jussu deorum immortalium; celebrar la messa da morto si chiama litari Diis manibus, ed altre frasche simiglianti, che capirà per bene mastro Benedicite, il quale ho udito essere molto intendente della lingua del Lazio. —
Lo strozziere, toccato nel suo debole, chinò gli occhi modestamente sul tagliere. La diffidenza, che gli era nata in petto contro il forastiero, incominciava ad andarsene in fumo.
– Voi dicevate, messer pellegrino, della basilica di San Pietro.
– Affè, sarà quella un'opera stupenda. Figlio di Lorenzo il Magnifico, Leone X non farà che cose magnifiche. Ma ci bisognan danari.
– Nulla res sine pecunia! – sentenziò Benedicite.
– Sì, veramente, e a cotesto si pensa per l'appunto ora, e chiunque aiuterà alla grand'opera avrà indulgenze a macca.
– E voi, messer pellegrino, – entrò a dire il Conte, – se ben m'appongo, ne avete in buon dato.
– Sì, messer lo Conte, ne porto attorno per cui piacciono. Vo in Monferrato; di là passerò in Lamagna, dove spero il negozio abbia a prosperare più assai che in ogni altra parte d'Europa. Ahimè, sono stato un grande scioperato fino ad ora, e mi bisogna racquistare il tempo sprecato, con qualche opera buona. Ma già questi non sono discorsi da farsi a mensa, e in compagnia di tanti orrevoli cavalieri. Proseguite, di grazia, i vostri interrotti ragionari, se pure ad un forastiero è permesso di udirli.
– Che diamine! Noi stavamo appunto per chiedere una ballata a Fiordaliso, il nostro bel paggio, che la pretende a poeta, e, in fede mia, non senza ragione.
– Mi sarà grato udire ciò che bisbigliano le Muse nell'orecchio di un sì leggiadro garzone.
– Oh, non vi aspettate grandi cose, messer pellegrino! – rispose Fiordaliso, che si era fatto rosso come una brace. – Io non ho studiato d'arte poetica, e vo strimpellando il liuto come un menestrello villereccio.
– Suvvia, Fiordaliso, non ci buttiamo giù di questa guisa! Il nostro ospite avrà forse udito più valorosi trovatori che tu non sia; ma io metto pegno che egli non rimarrà al tutto scontento dei fatti tuoi. Sentiamo dunque la tua ballata! —
Il paggio non si fece pregare più oltre, e andato a pigliare in un cantuccio il liuto, incominciò a trarne parecchi accordi, i quali volevano proprio dimostrare come il suonatore fosse stato troppo modesto, paragonandosi ad un menestrello giramondo. Quindi, giusta il costume degli antichi trovatori, non ancora perduto in que' paesi feudali, si fece a cantare in questa maniera:
– Conte Folco è prode e bello,
Esemplar de' cavalieri.
Fido albergo è il suo castello
Di dugento balestrieri.
Cento lance ei mette in guerra.
È possente e paventato;
Ma più ancora avventurato
Dell'affetto d'ogni cor.
S'è felici in sulla terra
Fin che regni in terra amor. —
– Bene, Fiordaliso, bene! – gridò Ansaldo di Leuca.
E tutti in coro ripeterono il ritornello:
S'è felici in sulla terra
Fin che regni in terra amor.
Il giovinetto proseguì, accompagnandosi cogli accordi del suo liuto:
– Sulla preda all'aure scaglia
I falcon più peregrini;
Pronti in giostra ed in battaglia
Ha cavalli saracini.
Lieto il fan di censo opimo
Le vitifere pendici;
Ma più lieto i fidi amici
Che gli fan corona ognor.
L'uom felice in terra estimo
Fin che regni in terra amor. —
– Gli amici, Ugo, tu l'hai udito, gli amici! – disse Enrico Corradengo, dopo che ebbero ripetuto il ritornello.