Ad un lembo estremo della città, verso il fiume, delle cui acque si serviva per forza motrice, siedeva la fiorente officina di lavori di ferro dei signori Giacomo Benda e comp.
Verso la strada, fiancheggiata dai viali di olmi che cingevano da ogni parte Torino, sorgeva la casa in cui abitavano la famiglia del principale ed alcuni dei primi capi-officina, de' quali due erano a parte, secondo una certa misura, nei guadagni dell'impresa.
Attraversato un cortile, nel cui mezzo eravi uno strato di erba ed alcuni alberi che nella bella stagione rallegravan la vista col verde delle loro fronde, trovavasi il vasto, oblungo, affumicato casamento in cui erano le varie officine che tutto il giorno mandavano per gli alti camini il denso fumo del coke e per le numerose e larghe finestrone l'incessante rumore del lavoro.
Alla destra di questo cortile stavano le rimesse ampie e ben costrutte, dove, insieme con i diversi carri necessari allo stabilimento pel trasporto delle merci, eranvi pure una modesta ma comoda carrozza per la famiglia, un elegante tilbury, che il ricco industriale aveva regalato al suo figliuolo avvocato, unico di maschi, ed una tromba idraulica, opportuna cautela pei casi d'incendio.
Di faccia si trovavano le scuderie, nelle quali, oltre i cavalli forti e robusti da attaccarsi ai carri di trasporto, facevano bella mostra di sè colle loro fine e svelte forme alcuni cavalli di prezzo che servivano al giovane avvocato da sella e pel tilbury.
Per ora non esamineremo la officina. Mentre noi ci intromettiamo in questi locali sono presto le quattro mattutine di una fredda notte d'inverno, in cui lenta ed abbondante fiocca sopra Torino la neve. Il casamento dei laboratorii dorme, per dir così, in una compiuta oscurità sotto la guardia di due mastini che, abbaiando ad ogni menomo rumore, girano per la neve, la quale copre il selciato del cortile. Avremo forse occasione di entrare colà dentro di poi per andarvi ad assistere ad alcune delle scene del nostro racconto.
Anche la casa di abitazione della famiglia Benda è avvolta nell'oscurità, eccetto che due fiochi raggi di luce filtrano da due finestre, trammezzo alle imposte rabbattute. Una di queste finestre è al pian terreno presso al portone, ed è quella della stanza del portinaio; l'altra è al piano superiore verso l'angolo della casa, a destra di chi vi accede.
Un giovane di belle forme avviluppato in un pastrano impellicciato viene pel viale verso la casa di cui ho detto. La sua andatura dinota in lui un forte turbamento morale. Ora cammina a passi speditissimi, come uomo cui preme giungere dov'è diretto; ora invece il suo piede si rallenta come di chi si reca in alcun luogo di troppo mala voglia; ed ora si arresta del tutto tenendo le scarpine lucide da ballo, di cui è calzato, nella fredda umidità della neve senza punto badarci. Tronche parole ed esclamazioni gli escono tratto tratto dalle labbra frementi, a dinotare come una qualche soverchia passione gli occupi l'animo; e gesti violenti, quasi di minaccia, accompagnano le sue voci interrotte.
A seconda che egli si veniva avvicinando alla casa, le esitazioni parevano crescere. Chi gli fosse stato presso avrebbe potuto udirlo ad un punto pronunziare le seguenti parole, fissando il suo sguardo sulla casa che oramai gli si mostrava distintamente, anche nello scuro di quella notte invernale, fra le roste assecchite degli alberi:
– Potessi rientrare senza che mia madre mi udisse! Con qual fronte vederla? Come avere il coraggio di darle tranquillamente il saluto ed il bacio? Essa certo mi leggerà nel viso il mio turbamento; e che cosa dirle? Povera madre mia! Se sapesse la verità!.. E se mai domani mi succedesse disgrazia!..