Federico
Manina, sua moglie
Alberto
Rosetta, sua moglie
Teresa, cameriera.
Salotto elegante. Una porta in fondo. Un'altra a destra. Su un tavolino, l'apparecchio del telefono.
(Manina è seduta, col volto fra le mani, gli occhi rossi di pianto, i capelli un po' scompigliati. Federico passeggia furiosamente.)
(prende una sedia e la scaraventa a terra. Continua a passeggiare.) Sicchè, ci separeremo!
Nè più, nè meno. Tu non devi fare altro che recarti da un avvocato, non so, da un notaio e, se lo credi opportuno, mettere in ordine i nostri affari. Del resto, io non ci tengo.
Io sì.
Tanto meglio! Separazione di beni…
E di mali. (Passeggiando ancora, prende un'altra sedia e picchia il pavimento.)
È inutile rompere le sedie.
Questa è forse casa tua? Sono tuoi questi mobili? Queste sedie sono tue?
Non vorrai dire, spero, che io sia qui come in un albergo.
Come in un albergo no, perchè io non sono l'albergatore di mia moglie; ma non c'è un gingillo qui dentro che non sia di mia proprietà.
Ti prego di non dimenticare che io t'ho portato una dote.
Ti prego di non dimenticare che questa dote basta appena per le tue toilettes e per i tuoi bonbons.
Dovrei pagare anche il tuo sarto, non è vero?
Lo sai bene che io non sono di quei mariti che si lascerebbero vestire dalle loro mogli.
Ed io non sono di quelle mogli… che spogliano i mariti!
(sedendo) E dunque, separiamoci.
Questo è assodato.
(dopo una pausa) Che diremo al mondo?
Ognuno di noi dirà quello che vorrà.
Niente affatto. Dobbiamo metterci d'accordo.