Читать онлайн
Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, sommario. v. 2

Нет отзывов
conte Cesare Balbo
Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, sommario. v. 2

LIBRO SETTIMO

ETÁ SETTIMA: DELLE PREPONDERANZE STRANIERE
(anni 1492-1814)

1. Di quest’etá in generale, ed in particolare di questo periodo primo delle preponderanze spagnuola e francese combattute [1492-1559]. – Fin dall’ultimo secolo dell’etá precedente, noi vedemmo incominciare quel travaglio di unione dei popoli, d’ingrandimento degli Stati italiani, il quale continuò lungo tutta l’ultima e durante nostra etá. E noi, salutammo siffatte riunioni con compiacimento, senza guari compiangere le forme repubblicane perdutesi in quell’opera, senza lamentare i principati sorti sulle loro rovine; perché crediamo, che anche ne’ principati possa esser libertá e felicitá; perché ai tirannici e semibarbari di que’ secoli ne succedettero di quelli civili, e che van diventando liberi; perché poi, in somma, noi teniam l’occhio fermo principalmente al bene di tutte insieme le terre italiane, e che, tenendo sempre piú impossibile la riunione totale di esse, noi stimiamo sommo bene lo sminuzzamento quanto minore, le riunioni quanto maggiori sieno possibili. Se si fosse continuata quest’opera delle unioni degli Stati senza invasioni, senza preponderanze straniere, Dio sa qual magnifico destino sarebbesi venuto ordinando fin d’allora all’Italia! Dio non volle, pur troppo; i nostri maggiori non se l’erano meritato; non avean adempiuto ai grandi doveri, alle grandi virtú nazionali; non avean badato se non ciascuno a sé, con quell’egoismo politico che è vizio e stoltezza insieme, e tanto piú quanto piú va progredendo la civiltá. Quindi, quest’etá, che fu felicemente della formazione degli Stati italiani, fu pure infelicissimamente delle invasioni e delle preponderanze straniere; e prima, delle due francese e spagnuola combattenti tra sé per sessantasette anni; poi della spagnuola pesante sola per centoquaranta; poi delle due, francese ed austriaca, contrappesanti in guerra o in pace, per centoquattordici altri. E da queste tre combinazioni diverse di preponderanze verranno poi naturalmente le tre suddivisioni di quest’ultima etá nostra. Nella quale non faccia specie se dimoreremo piú a lungo che nell’altre piú lontane. Cosí abbiam fatto, a disegno, fin da principio. Nelle storie scritte ad uso degli eruditi, si soglion cercare i particolari de’ tempi quanto piú antichi. Ma nelle storie scritte ad uso comune, popolare, giovano all’incontro tanto piú i particolari, quanto piú son di tempi vicini, simili a’ nostri, piú utili ad accennare ciò che sia da imitare, ciò che da fuggire. – E rimanendo ora nel primo de’ tre periodi detti, ci par da notare che niuno forse mai quanto quello s’assomigliò ai tempi nostri. Una delle volgarita di questi è di credere, che non somiglino a nessun altri, che non mai si sien veduti tanti e cosí grandi fatti, tante e cosí grandi novitá. Quindi poi due gravi errori, due politiche contrariamente esagerate e mediocri: di alcuni timidi, spaventati per sé, od anche candidamente per altrui, di quel moto che par loro anomalo, pericoloso, e a cui si fanno un dovere di resistere, senza eccezione né discernimento; di altri avventati e buonamente compiacentisi in ogni moto, in ogni novitá, e che si fanno un dovere di secondarle, di spingerle, senza discernimento pur essi. Non molti sanno vedere il proprio tempo qual è; non molti, che il nostro, pieno di fatti nuovi e progressivi senza dubbio, è perciò appunto simile ad altri tempi non meno pieni di tali fatti; diversi l’uno e gli altri in ciò solo, che i progressi posteriori son di lor natura pur ulteriori; ma di nuovo simili in ciò, che tra le novitá sempre le une son progressi, e le altre all’incontro arresti o regressi; e che quindi sempre ogni politica assennata debb’essere discernente, e constare delle due opere del secondare e del resistere. Ad ogni modo, se niun tempo mai fu pieno di grandi novitá, certo fu quello che siamo per correr qui dal 1492 al 1559, dalla chiamata di Carlo VIII che turbò l’Italia e la cristianitá, alla pace di Cateau-Cambrésis che bene o male le compose. – Trovata la bussola da due secoli, la polvere da guerra da uno e mezzo, la stampa da un mezzo, le lettere antiche lungo tutto quel tempo, l’astrolabio da alcuni anni, l’America nell’anno stesso onde incominciamo, la via dell’Indie per il capo di Buona Speranza due anni dopo [1494]; s’accumularono, si combinarono gli effetti di tutte queste nuove cause; ne uscí un mondo rinnovato tutto; si rinnovarono, si mescolarono tutte le nazioni; e n’uscí la cristianitá pur troppo non piú unita in una fede e una Chiesa intorno a una sedia centrale, ma una cristianitá felicemente unita, non piú intorno alla barbara monarchia universale di Carlomagno e de’ pseudo-imperatori romani, bensí in una civiltá e una coltura universali. E il mezzo adoperato a ciò dalla Provvidenza qual fu egli? Evidentemente quel ritrovo che ella diede a tutte quelle nazioni semibarbare nella nostra Italia, posseditrice da quattro secoli non solamente del primato, ma della privativa della libertá e della coltura. Le nazioni non presero, per vero dire, la libertá italiana, che non era bella, non buona, non civile, non allettante, e del resto giá semispenta; ma presero quella coltura, di che abusaron prima religiosamente, di che usaron poi politicamente a riacquistare la libertá. – E l’Italia intanto? L’Italia che aveva tutti i vantaggi della libertá, della coltura, dei commerci e delle ricchezze, ma che aveva i tre grandi svantaggi della libertá mal ordinata, del disuso nella milizia, e di una indipendenza mal compiuta; l’Italia perdette tutti que’ vantaggi suoi, tutte quelle sue operositá, e quel poco d’indipendenza; visse od anzi sopravvisse alcun tempo splendidamente in quegli uomini sorti al tempo migliore, per cader poi, quanto a politica, a un tratto; quanto al resto, a poco a poco, in un’abbiezione che, questa sí, fu anormale, forse unica nella serie de’ secoli civili cristiani. – Furono dunque questi sessantasette anni uno splendidissimo, spensieratissimo precipitare e non piú. E quindi peggio che mai resta tormentato qui lo scrittore di non aver luogo a spiegarli, a lasciarne una chiara ed adeguata impressione. Ma suppliranno i leggitori, con quel che sa ognuno di questo nostro tempo di splendore. E suppliran pure a quelle applicazioni a’ propri tempi, le quali, che dicasi, sono insomma il vero pro della storia; sapran vedere tutta la serie delle cause, degli effetti, e delle nuove cause di nostre perdizioni; l’incompiutezza antica dell’indipendenza, l’antico disordine delle libertá, l’antico difetto d’armi nazionali, gli stranieri nuovamente chiamati, sofferti, lasciati antiquarsi; e finalmente le operositá nazionali cessate, gli ozi, i vizi, le mediocritá innaturali all’Italia, accettate quasi necessitá, diventate abito, e seconda natura; e, danno e vergogna ultima a’ degeneri, il riposar in quel limo, e consolarvisi col sognar le glorie de’ maggiori.

2. Stato d’Europa e d’Italia [1492-1494]. – La Provvidenza ha tutto nelle mani, senza dubbio; ma lascia apparire alcune, e cela altre delle leggi delle opere sue; e fra le piú celate è forse quella per cui concede o nega uomini alle nazioni. Fu uno di que’ decreti male scrutabili di lei, che mentre i popoli oltremontani ed oltremarini si univano dopo lunghi travagli ciascuno in un corpo di nazione sotto principi se non grandi almeno arditi ed operosissimi, l’Italia, perduto Lorenzo il magnifico, non avesse piú se non uomini o mediocri (come giá quelli che eran succeduti a Cosimo e Francesco Sforza), o cattivi o cattivissimi. – In Inghilterra Arrigo VII, regnante dal 1485, aveva con suo maritaggio riunite le due case, distrutte le due fazioni di Lancastro e di York, che l’avevano lungamente straziata. – In Ispagna s’eran congiunte Castiglia ed Aragona fin dal 1474 con un altro maritaggio tra Isabella e Ferdinando; e questi insieme avean poi conquistata Granata, l’ultimo regno e rifugio di mori, in quel medesimo anno [1492] della morte di Lorenzo e della scoperta d’America; ondeché, non rimaneva piú disgiunto se non il piccol regno di Navarra, e tutte quelle vittorie e fortune accendevan l’animo piú inquieto che grande, ma insomma ambiziosissimo di Fernando, detto (appunto allora e per concessione del papa) il «re cattolico». – In Francia, dove Carlo VII aveva finita la guerra d’indipendenza e cacciati gl’inglesi, e Luigi XI riunite Borgogna e Provenza e i diritti de’ secondi Angioini al regno di Napoli e Sicilia, regnava il giovine Carlo VIII dal 1483; e, riunita Bretagna sposando Anna che n’era duchessa, ambiva quel retaggio dei conti di Provenza in Italia, ambiva l’imperio orientale, una gloria da Carlomagno, qualunque gloria. – Finalmente in Germania, signora nostra (di nome per vero dire oramai, ma anche i nomi son pericoli ai deboli), succedeva nel 1493 al misero Federigo III d’Austria Massimiliano prodigo, inquieto, ed egli pure ambizioso. Con tre principi come Ferdinando, Carlo VIII e Massimiliano a capo di tre quarti della cristianitá, non è meraviglia che ella si sconquassasse tutta; è piuttosto miracolo che non ne perisse. E intanto in Italia signoreggiavano, su Savoia e Piemonte, Carlo II, fanciullo d’un anno, quando succedette nel 1490; su Monferrato, Gian Francesco II pur fanciullo; su Milano, quasi fanciullo quel giovane ed incapace Gian Galeazzo, che dicemmo sotto la quasi tutela di suo zio Ludovico il moro, e che, avendo sposata nel 1489 Isabella di Napoli, n’aveva acquistata in apparenza una protezione, di fatto un nuovo pericolo, per la gelosia e la paura concepitene dal Moro. In Firenze erano succeduti alla potenza indeterminata di Lorenzo, Piero mediocrissimo che non la sapea tenere, e due fratelli minori, Giovanni, allor cardinale e che fu poi papa Leon X, e Giuliano. E sulla sedia romana, morto il Cibo nel medesimo anno fatale 1492, era succeduto Borgia, Alessandro VI, il peggior papa di questi tempi, ove ne furono pochi buoni. Signoreggiavano ne’ ducati di Ferrara e Modena gli Estensi; in quello d’Urbino, i Montefeltro; i Gonzaga in Mantova; i Bentivoglio in Bologna; i Baglioni in Perugia; i Colonna, gli Orsini ed altri signorotti, in molte terre della Chiesa. In Napoli regnava il perfido e crudele, e cosí diventato potente, ma ora vecchio Ferdinando I, che non seppe scongiurar il pericolo, che morí prima di succombervi nel 1494. Sicilia era del re cattolico. Genova, tenuta come feudo di Francia da Ludovico il moro. E Venezia, giá caduta in quella viltá e stoltezza del volersi tener neutrale ne’ pericoli comuni, isolata. E cessati, con Francesco Sforza e i Piccinini, i grandi condottieri potenti al par di principi e repubbliche, non ne rimanevan guari se non de’ piccoli, impotenti a tutto, salvo che a tener disavvezzi dall’armi i popoli della imbelle Italia.

3. Alessandro VI papa [1492-1503]. – La causa de’ nuovi guai d’Italia fu senza dubbio l’incapacitá politica e militare di lei; l’occasione poi, fu l’ambizione straniera di Carlo VIII, aiutata dall’ambizione traditrice di Ludovico il moro. Il quale richiesto da Ferdinando di lasciare il governo al nepote Gian Galeazzo, volle usurparne il ducato; e perciò fecesene dare da Massimiliano imperatore l’investitura disprezzata giá dal gran Francesco Sforza, e non data poi a nessuno dei discendenti. E per poter poi effettuare l’usurpazione, volle assicurarsi di Carlo giá minacciante, s’alleò con lui, gli promise passaggio ed aiuto. Qui non era nessuna delle scuse dell’altre chiamate; non quella, che può esser buona, di cacciare altri stranieri; nemmen quella cattiva, di resistere a un nemico interno. Qui è un cumulo di tradimenti; e quindi il Moro è il traditor piá esecrato nelle memorie italiane. Ma pur troppo non fu il solo; il cardinal Della Rovere, che fu poi papa Giulio II e fece tanto chiasso di cacciar i barbari d’Italia, spinto ora dalla rivalitá, dalla inimicizia ad Alessandro VI, anch’egli si trova tra’ chiamatori ed accompagnatori dello straniero. – Carlo scese in agosto 1494 pel Monginevra, Torino, Asti. Ivi ammalò e si fermò. Poi passò a Milano, visitò, non protesse Gian Galeazzo giá morente, e che morí pochi di appresso [20 ottobre] con voci di veleno. Cosí il Moro fu duca, e tirò fuori l’investitura imperiale. Carlo proseguí, s’appressò a Toscana per Pontremoli. Viene Pier de’ Medici spaventato, e gli dà i castelli fiorentini che difendean que’ passi, quello stesso di Pisa. Ma tornato costui a Firenze, è cacciato dalla signoria, dal popolo sdegnato [9 novembre]. Al medesimo dí, Pisa caccia i fiorentini, si libera, presente, e piú o men connivente, Carlo VIII. Questi lascia un presidio nel castello, muove a Firenze, v’entra militarmente, la lancia alla coscia, tratta un accordo colla nuova signoria; e volendolo imporre duro, gli è stracciato in faccia da Pier Capponi, che disse: – Sonate vostre trombe, noi sonerem nostre campane. – Fu il solo bell’atto di questa guerra; cosí vergognosa, del resto, che i contemporanei la disser fatta col «gesso» dei forieri i quali segnavan gli alloggi francesi di tappa in tappa. S’accomodarono tuttavia Firenze e Carlo; e questi proseguí a Roma, dove il papa chiusesi in castel Sant’ Angelo, e s’accomodò poi. Spaventato Alfonso II, il nuovo re di Napoli testé succeduto, lasciava vilmente la corona a suo figliuolo Ferdinando II [24 gennaio 1495]; e questi provava a difendere i passi, ma era vilmente disertato da’ suoi, e fuggiva da Napoli a Sicilia; e Carlo VIII entrava in quella il dí appresso [22 febbraio]. S’arrendevano, a gara di viltá, castella, cittá, province, grandi, popoli, il Regno. Tanto che tra pochi dí i francesi n’erano ad oziare e viziarsi nella disprezzata conquista. – Allora, sollevavasi tutta Italia, mezza Europa, lo Sforza traditore, perché non avea piú ad acquistare ma a difendere il ducato, or minacciatogli dalle pretensioni del duca d’Orléans discendente da una Visconti e signor d’Asti; Venezia, tornata (per poco) al sentimento de’ pericoli d’Italia; il Borgia, tornato dal suo spavento; il re cattolico per restaurare i parenti, o forse fin d’allora riaggiunger Napoli a Sicilia ed Aragona; e Massimiliano non so per quale delle sue mutevoli ambizioni. Tutti questi insieme firmavano un trattato contra Carlo [31 marzo]. Il quale cosi minacciato ripartiva da Napoli [30 maggio]; passava a Roma, schivava Firenze, passava a Pisa; e varcato Appennino, trovava a Fornovo l’esercito degli alleati italiani capitanato dal marchese di Mantova. Combattessi addí 6 luglio, molto piú forti gl’italiani. Disputasi chi vincesse; ma i francesi avean combattuto per passare, e passarono. Giunsero ad Asti, Carlo vi si fermò a corteggiar donne e trattar pace col Moro; e fattala, partí [22 ottobre] da Torino per a Francia, dove non pensò piu guari a Italia. – Tornò quindi Ferdinando II nel Regno, rientrò in Napoli [7 luglio], e guerreggiandovi poi due anni contro a’ francesi rimastivi sotto Monpensieri, se ne liberò coll’aiuto degli spagnuoli capitanati da Gonzalvo di Cordova, il conquistator di Granata, detto il «Gran capitano». Capitolarono gli ultimi francesi ad Atella, e moriva Ferdinando II poco dopo, lasciando il regno a Federigo III suo zio, fratello di Alfonso [1496]. Ed anche da Pisa si erano ritirati i francesi fin dal primo dí di quell’anno, lasciando disputarsi e guerreggiarsi tra sé pisani e fiorentini, e per gli uni o gli altri le varie potenze d’Italia, e Massimiliano re de’ romani. Il quale, invitato anch’egli dal Moro, il gran chiamator di stranieri, scese a frapporsi in tutto ciò con poca gente e pochi danari, e quindi non prese le corone solite, non fece nulla, e risalí disprezzato oltre ogni altro imperatore mostratosi in Italia. – I fiorentini tentavano intanto riordinar lor repubblica sgombra di Medici; ma eran divisi in parti, non piú nazionale o straniera, né per il papa o l’imperatore, per l’aristocrazia o la democrazia, per la repubblica o la signoria, ma pro e contro un frate domenicano, Gerolamo Savonarola. Costui, zelante, costumato, austero a sé, aspro ad altrui, in tempi corrotti, avea colle prediche politiche tratti molti a sé, vivente ancora Lorenzo. Era stato chiamato al letto di questo morente, e dicesi non l’avesse voluto assolvere, perché Lorenzo non voleva restituire la repubblica, a modo di lui il frate. Avea profetato malanni, castighi di Dio, francesi; ed or pendeva a questi che avean adempiute sue profezie. I suoi partigiani chiamaronsi «piagnoni»; i contrari, gente di mondo, gentiluomini i pií, «arrabbiati»; i medii, piú o men desiderosi de’ Medici, «bigi,» e poi «palleschi»; nomi e parti del paro ignobili. I particolari del tempo son vere commedie; il fine, tragedia barbarissima, da medio evo che ancor fiorisse. Contrario al frate riformator di costumi e disciplina ecclesiastica era Alessandro VI, naturalmente. Gli proibí di predicare. Il frate obbedí per poco; poi ricominciò, e contro al papa. Allora uscirono da sé, o fecersi uscire contra lui altri frati; prima un agostiniano, poi un francescano, Francesco di Puglia, il quale propose una di quelle stoltezze od empietá parecchie volte condannate dalla Chiesa, un giudicio di Dio: che passassero egli fra Francesco e il Savonarola tra una catasta ardente; e chi passasse illeso, quegli vincesse. Savonarola non volle, ma s’offri per lui fra Domenico suo confratello. Appuntossi il dí 7 aprile 1498; grande aspettativa, grand’apparecchio, gran concorso. Ma venuti al duello i due frati, fecero come chi vuole e disvuole, attaccaron disputa sul modo: cioè (quasi profanazione al dirne), sul Sacramento, che il domenicano volea portar con sé tra le fiamme, e il francescano non voleva. Non se ne fece altro. Il popolaccio beffato infuriò, gli «arrabbiati» si sollevarono; e al dí appresso diedero l’assalto al convento di San Marco, e fecer prigioni fra Gerolamo, fra Domenico, e un terzo, fra Silvestro. I quali poi furono in pochi dí interrogati, torturati, condannati, ed arsi in piazza [23 maggio]. – Di Savonarola chi fa un santo, chi un eresiarca precursor di Lutero, chi un eroe di libertá. Ma son sogni: i veri santi non si servon del tempio a negozi umani; i veri eretici non muoiono nel seno della Chiesa, come morí, benché perseguitato, Savonarola; e i veri eroi di libertá sono un po’ piú sodi, non si perdono in chiasso come lui. Fu un entusiasta di buon conto; e che sarebbe stato forse di buon pro, se si fosse ecclesiasticamente contentato di predicare contro alle crescenti corruttele della spensierata Italia. – Alla quale, come tale, ripullulavano le occasioni di perdizioni. Al dí appunto della festa fallita in Firenze, era morto Carlo VIII, era salito al trono di Francia Luigi XII, quel duca di Orléans che giá dicemmo pretender a Milano come discendente d’una Visconti, e che or pretese a Napoli come re di Francia, successore ai diritti degli ultimi Angioini. Se gli fosse riuscito il tutto, incominciava fin d’allora, e a pro di Francia, quella unione dei due grandi Stati italiani di settentrione e mezzodí, la quale sessant’anni dopo die’ l’Italia legata in mano a Spagna. Luigi XII non era avventato come Carlo VIII; era anzi principe prudente, destro, politico, e in Francia cosí buono che n’ebbe nome di «padre del popolo». Eppure, anch’egli ebbe le maledizioni d’Italia; tanto i migliori a casa son cattivi fuori! Non attese dapprima se non a Milano; e que’ veneziani che s’eran sollevati contro Carlo VIII, si collegaron ora con Luigi XII per il misero acquisto di Cremona e Ghiara d’Adda [trattato di Blois, 15 aprile 1499]. Chiaro è: que’ vantatissimi politici non ebber forse mai, non aveano certo piú niuna politica vera, lunga, propriamente detta, ma solamente abilitá alla giornata; quella vantata aristocrazia non aveva piú l’aristocratica virtú della costanza, ma solamente l’aristocratico istinto della propria conservazione. E legossi pure con Luigi XII Alessandro VI, per far suo infame figliuolo Cesare Borgia duca di Valenza in Francia e di Romagna in Italia. E lasciaron fare, Massimiliano distratto in Germania, e Federigo III di Napoli mal fermo nel nuovo regno. Cosí da Asti, giá sua, Luigi XII assalí il ducato; ed alle prime fazioni sbandaronsi le truppe del Moro, che fuggí in Germania; e Luigi entrò in Milano [2 ottobre 1499], e tutto il ducato con Genova furono di lui. Ma tornato esso in Francia, e riposando i francesi lasciati nella conquista, ritorna il Moro con un esercito di svizzeri e fuorusciti, e riprende Como, Milano, Parma, Pavia, Novara. Arriva La Tremoglia con un nuovo esercito di francesi e svizzeri. Svizzeri di qua, svizzeri di lá, dicesi ricevessero da lor paese ordine di non combattersi. Ad ogni modo quelli dello Sforza lasciano in mano agli altri e a La Tremoglia i lor compagni italiani, i Sanseverino lor capitani, e finalmente lo Sforza; e poi risalgono a lor monti saccheggiando per via. Cosí il Moro, traditore tradito, fu preso, tratto a Francia e tenuto poi dieci anni al castello di Loches, finché vi morí disprezzato, dimenticato. E Milano e il ducato ridiventarono francesi tranquillamente per parecchi anni. – Intanto Luigi XII aveva giá apparecchiato l’acquisto di Napoli in questo modo. Addí 11 novembre 1500, in Granata erasi firmato un trattato tra lui e Ferdinando il cattolico, parente e protettore di Federigo III, re di Napoli; ed eravisi concertato che i francesi assalirebbono il Regno, che gli spagnuoli accorrerebbero a difenderlo, e che prima d’incontrarsi, lo spartirebbono. Certo costoro eran contemporanei non del tutto indegni del Moro, di Alessandro VI e di Cesare Borgia. Effettuossi l’accordo. Nella state del 1501, entrarono per la frontiera settentrionale del Regno il duca di Nemours co’ francesi, e per le Calabrie Gonzalvo il Gran capitano, che macchiò sue glorie in quest’infamie. Federigo il misero re, tradito e ridotto agli ultimi, scelse capitolar co’ nemici vecchi anziché con gli amici traditori, e diessi in mano a’ francesi che il trassero a Torsi dove morí nel 1504. Cosí finí il primo regno indipendente di Napoli; e andò a riunirsi a Sicilia, nella servitú straniera, per due secoli e mezzo. – Intanto, e naturalmente, disputaronsi i ladroni per le spoglie. Corso appena un anno [1502], ruppesi guerra tra francesi e spagnuoli. Combattutosi variamente dapprima, furono sconfitti i francesi a Seminara e Cerignola [aprile 1503]. E sceso un altro esercito francese, fu vinto pur esso al Garigliano al fine del medesimo anno dal Gran capitano; e tutto il Regno rimase fin d’allora spagnuolo. – Nell’agosto era morto papa Borgia. La brevitá cosí sovente tormentante di questo sunto ci serve qui, dispensandoci dal dire le dissolutezze, le rapine, i tradimenti, i veleni, le crudeltá di tutta quella famiglia. Tanto piú che tutto ciò fu bensí il sommo della perversitá di quei tempi perversi, ma non ne fu mutato essenzialmente né durevolmente quasi nulla in Italia. Fu progetto di Alessandro e del figlio distrurre i signorotti, i vicari pontefici che signoreggiavano nelle cittá della Chiesa, i Colonna ed Orsini intorno a Roma, i Varani in Camerino, i Freducci in Fermo, i Trinci in Foligno, i La Rovere in Sinigaglia ed Urbino, i Baglioni in Perugia, i Vitelli in Cittá di Castello, gli Sforza in Pesaro, i Malatesta in Rimini, i Riario in Imola, gli Ordelaffi in Forlí, i Manfredi in Faenza, i Bentivoglio in Bologna e gli Estensi in Ferrara. Cesare Borgia doveva rimanerne duca di Romagna. Ma con tutte le loro male arti sofferte od aiutate dalle potenze italiane e straniere, a che riuscirono? Assassinarono signorotti, riunirono poche signorie, e non durò il ducato. E meraviglia che Machiavello ed altri di que’ tempi ammirasser costoro. Se non che, la Dio mercé, e che che si dica, anche la scienza politica è progredita d’allora in poi: il Machiavello de’ nostri tempi ha professato che le scelleratezze sogliono essere non solamente delitti, ma errori. Cosí fosse ben imparato e tenuto fermo in Italia. Dicesi che Alessandro VI istituisse la censura ecclesiastica de’ libri [1 giugno 1502]; ma ei non fece che applicarla a’ libri stampati. E il fatto sta che ella esistette sempre, ed esiste in qualunque chiesa, anche acattolica, voglia mantenere i suoi dommi. La cattiva imitazione, poi, delle censure politiche nacque molto piú tardi. Dicesi morisse Alessandro di un veleno apparecchiato a’ suoi nemici, e preso da lui e dal figliuolo che ne rimase infermo, e incapace di provvedere ai fatti suoi durante la vacanza della Sede. – La sola buona opera italiana di questo tempo, fu la guerra sostenuta da Venezia contro a’ turchi nel Friuli, in Grecia, in mare, dal 1499 al 1503, in che fecesi pace. S’allega a scusa dell’aver cosí mal provveduto Venezia in quegli anni all’indipendenza d’Italia; non serve ad ogni modo per gli anni addietro. Tutti gli italiani furono colpevoli, in somma, che la penisola libera di stranieri (e si può dir degli imperatori stessi) dieci anni addietro, fosse ora tutta occupata da essi, salvo Venezia, Toscana, e gli Stati del papa.

4. Pio III, Giulio II [1503-1513]. – Succeduti al pontificato Pio III (Piccolomini) per pochi giorni, e poi Giulio II per dieci anni, non so s’io dica che peggiorassero o migliorassero le condizioni nostre. Giulio II era quel Giuliano della Rovere, che egli pure aveva chiamati, condotti i francesi a Napoli. Fatto papa, chiamò francesi e tedeschi contra Venezia. Poi, avutone quel che voleva, si ravvide, bandí una guerra che chiamò «santa» contra francesi, bandí la cacciata de’ barbari; e per aver esso, ultimo de’ papi, fatto udir questo gran grido, il nome di lui riman glorioso e caro nelle memorie italiane. E noi siamo stanchi di severitá, noi rispettiamo le tradizioni nazionali, e cerchiam le occasioni di lodare. – Alla morte d’Alessandro molte delle cittá tenute dal Borgia si sollevarono. Giulio II, appena salito al trono, gli domandò le rimanenti; e rifiutato, lo fece prendere, gli fece firmare per forza la consegna, e lo rilasciò poi. Ed egli se n’andò a Napoli, vi fu di nuovo imprigionato da Gonsalvo e mandato a Spagna; dove fuggito di prigione, fu a Navarra, e finí poi piú degnamente che non meritava, coll’armi in mano [1507]. – Nel 1506 venne il re cattolico al regno di Napoli, e ne ritrasse il Gran capitano che l’avea conquistato, che sopravvisse poi in Ispagna in ozio e disfavore. Giulio II continuò ciò che era buono de’ disegni de’ Borgia, la riduzione de’ signorotti; e vi riuscí meglio, ridusseli quasi tutti, gli stessi Baglioni di Perugia, e i Bentivoglio di Bologna [1506]. Ma per compiere la riunione dello Stato rimanevano a riprendersi a Venezia Ravenna e Cervia usurpate fin dal secolo scorso, Faenza, Rimini e Forlimpopoli ultimamente tra il rovinar di Cesare Borgia. A ciò si volse tutto papa Giulio; aveva ogni ragione, ma proseguilla in mal modo, aggiugnendosi all’ire o piuttosto alle ambizioni di Luigi XII e di Massimiliano. Fin dal 1504 avean costoro firmato un’alleanza per dividersi gli Stati continentali di Venezia, ma non n’avean fatto nulla, finché non vi s’aggiunsero papa Giulio per riaver quelle cittá, e il re cattolico, gli Estensi e i Gonzaga per simili contese od ambizioni di vicinato. Fu firmata la famosa e brutta lega a Cambrai [10 dicembre 1508]. Primi ad assalire furono i francesi coll’armi dal Milanese; seguí il papa coll’armi e con le scomuniche. Contro ai primi stavano a capo d’un esercito di quaranta e piú mila uomini l’Alviano ed il Pitigliano, due de’ piú abili condottieri o piuttosto (perché giá non erano piú cosí indipendenti come gli antichi) capitani d’Italia. Furono vinti da Luigi XII e trenta mila francesi ad Agnadello [14 maggio 1509]; Luigi XII prese in pochi dí tutta la parte sua convenuta. Accorsero quindi tutti gli altri, e presero facilmente le loro. E allora Venezia ridotta all’estremo fu veramente magnanima, prese uno di quei partiti semplici che sono non solamente piú gloriosi sempre, ma sovente piú felici che non le destrezze. Sciolse dall’obbedienza tutti i suoi sudditi di terraferma; ed essi si difesero meglio, e, quando occupati, si sollevarono secondo le occorrenze per se stessi. E Giulio II, satisfatto di riavere sue cittá, si staccò primo dalla lega, fece sua pace addí 24 febbraio 1510; e si rivolse contra i francesi, nascostamente prima, apertamente tra breve. Per ciò chiamò nuovi stranieri, gli svizzeri; i quali, capitanati da un cardinale guerriero e vescovo di Sion, piombarono sul Milanese a mezzo quell’anno, mentre si avanzavano i papalini da Modena, e riavanzavano i veneziani da Verona. Ma i francesi stavano sulle guardie; e poco mancò non prendessero papa Giulio, che, guerriero anch’esso, stava lí vicino a Bologna, e che per la breccia entrò poco appresso alla Mirandola. E qui pure v’ha chi ammira, e vorrebbe imitazioni; non io, che credo un papa debba restar papa, ed abbia altri modi di cacciar barbari dal suo paese. Furono rotti i pontifici a Casalecchio [21 maggio 1511]; ma Giulio perdurò, s’inaspri, fece [5 ottobre] un’altra lega santa con Venezia, svizzeri, Spagna e fino Inghilterra contra Francia. Massimiliano solo rimaneva con questa, ma inutile. In tali strettezze usarono i due l’arme antica contro ai papi, convocarono un concilio a Pisa. Ma un forte esercito spagnuolo sotto al Cardona veniva in aiuto a Giulio II, ed assediava Bologna tornata nuovamente a’ Bentivogli [21 maggio 1511]; e i veneziani riprendean Brescia. Allora apparí per poco una vera meraviglia di arte e virtú militare, un predecessore de’ grandi capitani moderni, Gastone di Foix, nipote del re di Francia, giovane di ventidue anni. Il quale, appena ebbe preso il comando, che ficcatosi in mezzo ai due eserciti nemici, e piombando or sull’uno or sull’altro, addí 7 febbraio respinse gli spagnuoli da Bologna, addí 19 ruppe i veneziani e riprese Brescia, e ritornò quindi sull’esercito spagnuolo e papalino, e li sconfisse a Ravenna [11 aprile]. Ma ivi morí, immortalatosi in pochi mesi. E allora precipitarono i francesi. Massimiliano lasciò passare ventimila svizzeri che scendean alleati a’ veneziani; Spagna e Inghilterra assaliron Francia; Luigi XII richiamò il suo esercito dal Milanese; Massimiliano Sforza, figlio del Moro, fu fatto duca a Milano; in giugno si sollevò Genova e cacciò i francesi. Cosí, toltene alcune castella, furon questi cacciati di tutt’Italia. Ma eran tutt’altro che cacciati tutti i barbari. Abbondavano spagnuoli, tedeschi e svizzeri, e tiranneggiavan cosí, che, per dar loro una ricompensa delle vittorie procacciate alla lega, fu loro abbandonata una delle piu nobili cittá e potenze italiane, Firenze. – Questa fin da poco dopo la vittoria degli «arrabbiati» contro al Savonarola s’era riordinata e posata sotto l’autoritá d’un solo; e (tanto era impossibile oramai un governo piú repubblicano) sotto un Soderini, gonfaloniero a vita [1502], che avea poi retto con bontá, semplicitá, mediocritá. Machiavello era uno de’ due segretari o ministri principali di lui. Tra tutti ed a forza di trattare, barcheggiare, scivolare, eran riusciti ad ottenere che si lasciasse lor riprendere la desiderata Pisa, e l’avean presa [1509]. Ma, se non esclusivamente, eran pur sempre rimasti stretti con Francia; ed ora i vittoriosi di Francia le posero una multa per quella fedeltá. Que’ mercatanti repubblicani che aveano avute velleitá ma non volontá di ordinar armi proprie, secondo il consiglio di Machiavello, e che eran poi gretti e stretti in fatto di danari, ricusarono, indugiarono. Vengono i Medici, cioè (morto giá Piero da parecchi anni) Giuliano e il cardinal Giovanni, ed offrono pagar la multa se fosser fatti signori della cittá. Cardona accetta, varca Appennino, prende, saccheggia Prato; e i fiorentini, spaventati, si sollevano, cacciano Soderini, e accettan i Medici [settembre 1512]. Governarono insieme Giuliano e il cardinal Giovanni. Ma questi per poco; ché, morto papa Giulio addí 21 febbraio 1513, gli successe esso il cardinal Giovanni [11 marzo] con quel nome di Leone X, che, a torto od a ragione, è forse il piú noto, il piú popolare fra quelli di quanti papi furon mai.

5. Leone X [1513-1521]. – Le nature facili, liete, pompose, leggiere, trascurate od anche un po’ spensierate, sogliono piú che l’altre trovar fortuna in vita, e gloria dopo morte. Tal fu, tal sorte ebbe Leone X, del resto non gran principe politico ed ancor meno gran papa. Nato nel 1475, cresciuto tra l’eleganze, le colture, le magnificenze del palazzo Medici e della villa di Careggi; tra Ficino, Poliziano, Pico della Mirandola, Michelangelo, e una turba di minori, ma simili; cardinale a tredici anni; fuoruscitosi in sui diciannove, ma nella porpora, ed ora a Roma, ora alle corti dentro e fuori d’Italia; in colti ozi durante Alessandro VI; poi negli affari, nelle legazioni sotto Giulio II; prigione alla battaglia di Ravenna, ma in breve liberato, ed autor principale della restaurazione di sua casa in sua bella cittá; l’elezione, l’assunzione, l’incoronazione di lui furono veri trionfi. Dopo Alessandro VI, troppo scellerato per essere nemmeno stato protettor d’arti o di lettere, dopo Giulio II, fiero, iroso in queste stesse protezioni, pensi ognuno qual gioia dovesse or sorgere in quella turba di letterati ed artisti che, quasi ballerine tra guerrieri, si frammettevano allora ai feroci invasori, ai cupi politici, ed ai dolenti popoli d’Italia. Quella lieta turba non si vuol perder di memoria mai da chiunque voglia farsi un’idea adeguata di questi tempi singolarissimi. Certo in quelli di PericIe, d’Augusto, né di Ludovico XIV, non fu, o almeno non durò, niun siffatto contrasto di feste e di dolori. Qui la patria era in mano a stranieri; e il principe successor d’Alessandro III e di Giulio II pensava ai nepoti, ai Medici, a far loro Stati in Firenze ed Urbino. Qui sorgeva il sommo degli eresiarchi stati mai dopo Ario; e il pontefice pensava che fosse un frataccio peggio che il Savonarola, e che finirebbe come lui; e proseguiva in quell’abbellir Roma, in quell’edificare, e scolpire, e dipingere, e fare scrivere e rappresentare commedie che avevano scandalezzata la rozza Germania. Insomma, moralmente, politicamente e religiosamente parlando, non sarebbe troppo il dire che fu un vero baccanale di tutte le colture; e se scendessimo ai particolari di sua incoronazione, o, peggio, di ciò che fu allora scritto, rappresentato, dipinto o scolpito in Vaticano, ei parrebbe forse dimostrato a ciascuno. Ma, non avendone luogo, lasceremo che ognuno giudichi secondo le proprie informazioni della severitá del nostro giudicio. – Pochi giorni dopo l’assunzione di Leon X, Luigi XII firmò sua pace con Venezia [24 marzo 1513]; e, cosí assicurato, mandò La Tremoglia e Triulzi a riconquistare Milano contro allo Sforza. Ma vinti i francesi dagli svizzeri presso a Novara [6 giugno], ripassaron l’Alpi; e allora Leon X e gli spagnuoli si rivolsero di nuovo per lo Sforza contra Venezia, e rioccuparono quasi tutto lo Stato di terraferma. Guerreggiossi e trattossi variamente tutto l’anno appresso. Ma morto in gennaio 1514 Luigi XII, e succedutogli Francesco I, principe buono, leggero, facile, gran protettor di lettere ed arti ancor egli, non gran capitano ma gran cavaliero e guerriero, rinnovò l’alleanza con Venezia; e (guardatogli contro dagli svizzeri il passo di Susa) scese per l’Argentiera e Sestriera con un forte esercito a quel Piemonte cosí sovente attraversato, a quella Lombardia cosí sovente riconquistata. Due giorni [13 e 14 settembre] si combatté in Marignano tra’ francesi e gli svizzeri dello Sforza; vinse Francesco I; ventimila cadaveri vi giacquero; il Triulzi, stato a diciotto battaglie, disse, che l’altre eran giuochi da fanciulli, questa battaglia di giganti. Ondeché qui cessa la meraviglia che i venturieri italiani, avvezzi a non ammazzarsi, fosser vinti da tutti questi stranieri che s’ammazzavano cosí davvero. Quindi ritrassersi finalmente gli svizzeri a lor montagne, e noi fummo liberati almen di questi, che fecero l’anno appresso una pace perpetua con Francia. Intanto, ritrattisi anche gli spagnuoli, Lombardia fu di nuovo di Francia, Terraferma di Venezia, e Massimiliano Sforza lasciò il ducato per sempre, e fu a vivere pensionato in Francia, dov’era vivuto e morto prigione il Moro suo padre. E Leon X fece pace col vincitore; ed abboccatosi con lui a Bologna, v’aggiunse poi un concordato, che per secoli regolò le cose di religione di Francia. E il medesimo di che firmò quest’accordo [18 agosto 1516], investi suo nipote Lorenzo di Pier de’ Medici del ducato d’Urbino, tolto pochi mesi addietro a Francesco della Rovere, che aveva pur data l’ospitalitá a’ Medici esiliati. Morto poc’anzi [17 marzo 1516] Giuliano ultimo fratello di Leone, questo Lorenzo era oramai il piú prossimo parente di lui, e governò poi colla solita potenza indeterminata la cittá di Firenze, e come principe il ducato d’Urbino, ritoltogli dal La Rovere e restituitogli l’anno appresso. – Intanto, morto Ferdinando il cattolico re di Spagna ed Indie e Sicilia e Napoli [15 gennaio 1516], e succedutogli Carlo figlio di sua figlia, che fu primo in Ispagna e quinto in Germania e nell’imperio, questi firmava [13 agosto] in Noyon un trattato di pace con Francesco I, al quale aderí in breve pure [4 dicembre] Massimiliano. E cosí finalmente, dopo sette anni, finirono gli scompigli politici e guerrieri sollevati dalla lega di Cambrai. Salvo le cittá di Romagna e del Regno, ripresele fin da principio di quella guerra, Venezia riebbe tutti gli Stati suoi di terraferma; esausti sí, ma che dovetter rifarsi prontamente, ondeché non mi sembra valere tale scusa per quella neutralitá od indifferenza in cui ricominciò a poltrire rispetto agli affari d’Italia. Non furono le forze, furono gli spiriti di lei che si trovarono abbattuti dopo quella guerra, o piuttosto che giá erano quando ella rimase neutrale ed infingarda alla discesa di Carlo VIII, o piuttosto giá dall’antico, tante altre volte che si racchiuse in sua sicurezza delle lagune, tra’ pericoli e i guai dell’indipendenza nazionale. La repubblica di Venezia, indipendente essa, non si curò della indipendenza nazionale, non fu guari italiana mai, se non al tempo della lega lombarda; del resto, sempre strettamente, grettamente veneziana; e se le si voglia cercare una scusa od anche una gloria italiana, non le si può trovar guari a questi tempi se non quella d’averci difesi da’ turchi. Prima di questi, quella politica di lei, che tanti dicono profonda, non può non tacciarsi di leggerissima, per non aver pensato mai a nessuna impresa d’indipendenza, a cui ella sola forse poteva esser capo o centro, che ella piú che l’altre potenze italiane doveva prevedere necessaria. Cosí il languire poi, e decadere, e cadere ultimo di lei, servan d’esempio salutare a qualunque potenza italiana voglia mai isolarsi dagli interessi comuni di tutta insieme la nazione. Ad ogni modo, da quel princi pio del 1517 fino al 152l, i quattro ultimi anni di Leon X furono, relativamente, un tempo di respiro all’Italia, alla cristianitá. – Ma questo fu pure il tempo che sorse di piccoli principi quello che fu poi cosí gran danno alla Chiesa, alla cristianitá, e, politicamente parlando, all’Italia forse piú che a nessuno. Leon X bandí nel 1516 alcune indulgenze da predicarsi, e pur troppo, diciam la parola, da vendersi, o farsi o lasciarsi pagare in Germania, e il cui prodotto doveva servir all’edificazione di San Pietro. N’ebber carico i frati predicatori. Lutero, uno degli agostiniani soliti averlo, si sollevò poi contro a quelle, contro a tutte le indulgenze [3l ottobre 1517], poi contro alla curia romana, contro al papa, e finalmente contro all’infallibilitá, all’unitá, contro a questo e a quel domma, andamento solito di tutti i capi di setta. Denunciato a Roma, condannato, si sottomise; poi ritrattò la sommessione, disputò co’ legati, scrisse, riscrisse, fece discepoli, e fu ricondannato solennemente [15 giugno 1520]; ed ei solennemente bruciò la bolla [10 dicembre], assistente e gia aiutante il popolo di Wittemberga. Era incominciata quella Riforma, quella divisione della Chiesa, che non è vero (né a noi italiani può esser dubbio) introducesse nella cristianitá né la libertá politica né la filosofica, le quali avevamo noi da secoli; che non introdusse se non quella libertá del credere, la quale non può essere in una religione vera rivelata; che, del resto, preoccupò per un secolo e piú quasi esclusivamente la cristianitá, che la distrasse dalle opere migliori, che ritardò i progressi di lei in Germania, in Francia e in quel popolo britannico, dov’oggi ancora ella ritarda l’unione dell’imperio. All’Italia poi ella fu origine d’un male nuovo allora, e forse non cessato. Dalla Riforma, dal bisogno, e diciam pure dal dover de’ papi di rivolgersi contro essa in Germania, incominciò quel loro accostarsi agli imperatori, che fu cosí contrario a tutte le tradizioni, che senza tale scusa sarebbe stato contrario alla natura stessa del papato. – E ciò si vide forse fin da questi primi anni della Riforma, ultimi di Leone X. Perciocché, morto Massimiliano [19 gennaio 1519] ed elettogli a successore Carlo figlio di suo figlio, giá re di Castiglia e delle Indie, d’Aragona e delle Due Sicilie, signor di Borgogna e de’ Paesi bassi, sorse in breve gelosia, contesa e guerra tra lui e Francesco I di Francia, competitore di lui per l’imperio. Era naturale, era tradizionale, che il papa s’opponesse alla potenza imperiale, risalente col possesso unito delle Due Sicilie a ciò che era stata sotto ai due Federighi Svevi, e minacciante salire, come salí, piú su. Né Leon X o la coltissima curia romana erano uomini da ignorare o trascurare tali memorie; e si accostarono dapprima a Francesco I. Ma tra breve, fosse giá quella nuova necessità spirituale della politica pontificia, fosse ambizione di Leone, che volesse avere (per sé o per casa Medici) Parma e Piacenza tenute un tempo da Giulio II ed or da Carlo V, il fatto sta che ei s’alleò con questo [8 maggio 1521]. Da quel dí, e salvo pochissime eccezioni furono sempre imperiali, austriaci i papi, abbandonarono quella causa nazionale che avea fatti grandi come principi e come pontefici Gregorio VII, Alessandro III, i due Innocenzi III e IV principalmente, e tanti altri tra essi. E molti buoni papi furono d’allora in poi certamente; ma1 nessuno che sia potuto dirsi grande politico, nemmeno dagli scrittori tutto ecclesiastici. E Leon X incominciò subito la impolitica guerra. Riuniti gli eserciti pontificio e spagnuolo sotto Prospero Colonna e il marchese di Pescara, entrarono addí 19 novembre in Milano, ove fu posto duca Francesco Sforza ultimo figliuolo del Moro. Leon X n’udì la nuova, e morí subitamente il I dicembre seguente 1521. – Mortogli nel 1519 il nipote Lorenzo, avea riunito agli Stati della Chiesa il ducato d’Urbino. Leone era l’ultimo o penultimo discendente legittimo di Cosimo padre della patria; disputandosi se fosse legittimo o no il figliuolo dell’antico Giuliano ucciso nella congiura de’ Pazzi, Giulio or cardinale posto a governo di Firenze dopo la morte di Lorenzo, e che fu in breve papa Clemente VII. Di Leone resterebbero a narrare e disputare alcune crudeltà e perfidie contro a cardinali e signorotti. Ad ogni modo, furon poche rispetto al tempo.

6. Adriano VI, Clemente VII [1522-1534]. – Succedette Adriano VI [Florent, 9 gennaio 1522], precettor giá di Carlo V, fiammingo. ultimo papa straniero che sia stato; e santo papa che avrebbe voluto fare ciò che giá i papi tedeschi un cinquecento anni addietro, restituir la severità, la disciplina della curia romana. Ma egli non era, né aveva ad aiuto un Ildebrando; non si pose a capo dell’opinione italiana, come avean fatto que’ suoi compatrioti, e non riuscì. Bisogna vedere nel Vasari e in altre storie del tempo le disperazioni degli artisti e de’ letterati per questo che pareva loro ritorno alla barbarie. Era assente; ed intanto che giungesse, furon distrutte le opere politiche di Leon X: i La Rovere tornarono in Urbino, i Baglioni in Perugia, gli Estensi in parecchie terre lor tolte. Venne Adriano [agosto 1522], e strinsesi coll’imperatore, piú che mai signor d’Italia, posciaché i francesi erano stati sconfitti alla Bicocca [29 aprile], ed avean quindi vuotata Lombardia e Italia. Adriano intendeva, badava poco a politica; attendeva a riformar Roma, la curia. Morì ai 24 settembre 1523. Ai romani, agli artisti, ai letterati parve esser liberati. – E parve loro esser risorti, quando [18 novembre] fu eletto un nuovo Medici, il cardinal Giulio, che prese nome di Clemente VII. Arti e lettere furono riprotette, benché molto meno; per la buona ragione che Leon X vi aveva speso quanto si poteva e piú, e rimanevan poveri i successori; e per l’altra che, tra la guerra di Carlo V e Francesco I, durata tutto il pontificato d’Adriano e quasi tutto quello di Clemente, fu il tempo peggiore che toccasse in quel secolo di strazi alla straziatissima Italia. Già un nuovo esercito francese sotto Bonnivet, era ridisceso in Lombardia; e ridiscesevi un esercito tedesco sotto il Borbone, principe, contestabile e traditor di Francia. Dir le fazioni che seguirono tra questi due, e Colonna e Pescara capitani degli spagnuoli, e Giovanni de’ Medici condottiero di quelle «bande nere» che si contano per l’ultima delle compagnie di ventura, ed altri minori, e le prede e le stragi di tutti, e le pesti che vi si aggiunsero, fu quasi soverchio, e riuscì noiosissimo anche nelle storie distese e del tempo; qui sarebbe impossibile ed inutile. Qui non sono nemmen piú a notare errori particolari. Quando s’è fatto quello massimo di dar la patria a stranieri, senza nemmeno serbar in mano l’armi onde approfittar di lor divisioni, di nostre occasioni, non è piú nulla a fare o dire, che soffrire finché dura il castigo di quel sommo errore, proprio o de’ maggiori. Resta memoria d’un progetto di quella mente feconda di Machiavello, la quale, colla sua costante preoccupazione dell’indipendenza, si fa forse perdonare tanti altri errori; il progetto che s’accostasser tutti gl’italiani a Giovanni de’ Medici, alle bande nere, che eran le sole armi italiane rimanenti. Ma che? Erano armi mercenarie e poche; e poi, Giovanni era buon guerriero sì, ma non aveva date prove di grandezza militare, ed anche meno di politica; né avea per sé quell’opinione universale, che è, dopo l’armi, il primo apparecchio a farsi duce di siffatte imprese. – Insomma, i francesi si ritrasser di nuovo per Ivrea ed Aosta nel 1524; e in questa ritirata morí Baiardo, che fra cosí brutte guerre seppe, dai vinti stessi, ottener nome di «cavalier senza paura e senza rimproccio»; e che morente e compatito dal Borbone, risposegli: – Non io che moio per la patria, ma fate pietà voi che la tradite. – Borbone e Pescara fecero quindi una punta in Provenza fino a Marsiglia; ma ne tornarono in fretta contra Francesco I, scendente di nuovo. Questi pose assedio a Pavia [ottobre], e mandò un altro esercito fin nel Regno, ove si mantenne parecchi anni. Ma accorso il Pescara a Pavia, seguí [25 febbraio 1525] quella gran battaglia dove fu preso il re di Francia. Se ne consolò e consolò la nazione con quel detto (fatto famoso, come tanti altri, con un po’ d’alterazione) «esser perduto tutto fuor che l’onore». Ad ogni modo guastò questo, quando tratto prigione a Spagna, e non sapendo soffrir la noia (gran vizio talor anche a un re), firmò un trattato [14 gennaio 1526]; e liberato nol tenne, mal sofisticando sul proprio diritto di promettere in prigione, ch’ei non doveva usar se non l’aveva. – Del resto, questi eran tempi di perfidie complicate; e la liberazione di Francesco I fu aiutata da un altro tradimento fatto a un traditore italiano. Francesco Sforza e Morone suo cancelliero, oppressi in Milano da’ lor alleati spagnuoli e tedeschi, idearono liberar sé, e seco l’Italia. Buona, santa idea di nuovo; e che, se si fosse potuta eseguire con qualche ardita alzata d’armi, avrebbe fatto essi immortali e la patria finalmente felice. Ma ridusser l’impresa a una congiura. Alla quale, numerosa di necessità, avvenne ciò che è impossibile non avvenga: che tra un gran numero di uomini, gli uni traditori, gli altri almeno simulatori, non se ne trovi alcuno che simuli e tradisca la congiura stessa. Fu svelata questa (che del resto fu la sola che avesse uno scopo italiano, fra le tante congiure accennate) dalla duchessa d’Alençon, sorella di Francesco I, e dal Pescara, italiano, discendente e capitano di spagnuoli, a cui i congiurati promettevano il regno di Napoli. La prima tradì il disegno per liberar il fratello; il secondo, quando ciò seppe; e sia che fosse stato fino a quel punto traditor del suo principe, o de’ congiurati, costui arrestò il Morone ai 14 ottobre 1525, e morí un mese appresso, esecrato. – Fecesi poi, a’ 22 maggio 1526, una lega migliore, poiché aperta, tra il liberato Francesco I, Clemente VII, lo Sforza e i veneziani. Ma fu infelice del paro; l’avesser fatta al principio della guerra! ora era tardi. Lo Sforza ne rimase spoglio di Milano [24 luglio], e Roma pagò caro la leggerezza, la pretesa abilità, l’effettiva inabilità e i lussi de’ Medici. In settembre di quell’anno fu presa Roma una prima volta, e saccheggiato il Vaticano da Pompeo Colonna; e Clemente, rifuggito in castel Sant’Angelo, riescì a far patti e liberarsene. Ma l’anno appresso, il Borbone, giá vittorioso in Lombardia, in tutto il settentrione, ed a capo d’un grande esercito quasi disoccupato e non pagato, s’incammina con esso verso mezzodí; senza che si sappia, senza che sapesse egli forse qual città o provincia d’Italia destinasse a servir d’occupazione e di paga a sue vecchie e feroci bande. Scende, varca Appennino, minaccia Firenze, piomba su Roma [5 maggio 1527]. Addì 6 dà l’assalto ed è ucciso d’un’archibugiata che il vano Benvenuto Cellini dice aver tirata egli. Succedegli un tedesco francese, il Nassau-Oranges; e si continua, s’entra in Trastevere e Vaticano, si saccheggia ed ammazza, e si passa il Tevere; e in tutta Roma, peggio che mai, prede e stragi e tormenti a’ prigioni per trame riscatti e far palesar nascondigli, men da soldati arrabbiati che da assassini da macchia. S’aggiunsero i Colonna, la fame, la moria. Eserciti alleati s’appressarono, e non osarono mettersi in questo inferno; il papa s’arrese e rimase prigione, e poi fuggì. Carlo V fece le viste di piangerne da lontano, ma lasciò continuare nove mesi. Ai 17 febbraio 1528 solamente, uscirono l’Oranges e sue bande, per danari mandati da Clemente giá scampato. Intanto si sfidavano Carlo V e Francesco I; e non ne seguiva nulla di piú che in quell’altra scimmiata di lor maggiori, Pietro d’Aragona e Carlo d’Angiò. Scendea Lautrec con un esercito francese, e correa tutta Italia fino al Regno; dove guerreggiò poi coll’Oranges, e perirono egli e molti de’ suoi d’una gran morìa. Ed anche in Lombardia v’era moría e guerra tra un nuovo esercito francese sotto il Saint-Pol, e un nuovo tedesco sotto il Brunswick. Ai 28 maggio, Filippino Doria, genovese ed ammiraglio di Francia, dava una gran rotta navale all’armata imperiale nel golfo di Salerno. Ai 30 giugno, Andrea Doria, zio di Filippino ed anche ammiraglio di Francia, ne dismette il servigio; e ai 20 luglio, passa all’imperatore, a patto di lasciargli liberar la patria, e la libera addí 12 settembre, e ne rifiuta poi la signoria, la tiene in libertá, ne riman primo e gran cittadino. Finalmente, ai 20 giugno 1529, si fa pace in Barcellona tra Carlo V e Clemente VII; e in luglio s’incomincia, e addí 5 agosto si firma in Cambrai, tra Luigia di Savoia per Francesco I suo figliuolo, e Margherita d’Austria duchessa di Savoia per Carlo V, un trattato che fu detto quindi «delle dame»; per cui, fatta pace tra le due potenze strazianti Italia, rimase questa una seconda volta abbandonata tutta ad Austria. In novembre, furono insieme a Bologna papa, imperatore e Sforza; e fu restituito a questo il ducato con dure condizioni [22 novembre]; fatta pace con Venezia [23 dicembre]; fatto duca il Gonzaga, giá marchese di Mantova [25 marzo 1530]; e dal papa incoronato a re d’Italia e imperatore Carlo V [22 febbraio, 24 marzo 1530]. Questo congresso di Bologna fu quasi placito imperiale a modo de’ Carolingi. – E rifatti cosí amici imperatore e papa, rimasene abbandonata a questo la misera Firenze. Ella avea gia cacciati i governanti medicei, s’era rivendicata in libertá fin da dieci di dopo la presa di Roma [16 maggio 1527]. Ed erasi poi ordinata in repubblica meglio forse che non fosse stata mai; aveva quell’armi proprie, ordinate un vent’anni prima per consiglio di Machiavello. Fortificò allora, afforzò sue mura; ed a tale opera venne, abbandonando Roma e i lavori e l’arte, bell’esempio, Michelangelo. Peccato che tutto questo spirito militare fosse nuovo in lei! Anche qui era troppo tardi. Fu causa che non avesse capitano di nome, che non conoscesse uno de’ propri cittadini, il Ferrucci, di ciò forse capace. Così fu ridotta a cercarsi, ad assoldare un capitano forestiero, Malatesta Baglioni. Il quale poi, fosse traditor veramente, o forse ingiustamente venutone in sospetto, ad ogni modo, fu perdizione ultima di quella città, troppo a lungo rimasta imbelle. Venne contro per il papa l’Oranges, a capo di quelle stesse bande che aveano testé saccheggiata Roma. Ai 14 ottobre 1529, pose campo dinanzi a Firenze, ai 10 novembre die’ un primo assalto, e fu respinto. Ai 15 dicembre morí nel campo imperiale quel Gerolamo Morone, il congiuratore per l’indipendenza d’Italia contro all’imperatore! Addì 23 dicembre, per quella pace di Venezia che dicemmo, la misera Firenze si trovò abbandonata dalla secolare alleata. Voltosi l’assedio in blocco, i fiorentini fan due belle sortite addí 21 marzo e 5 maggio 1530. Addì 27 aprile, il Ferrucci, che teneva fuori la campagna, prende Volterra; e la difende poi contro agli imperiali, e aduna e muove un esercito di soccorso; e ai 2 agosto, a Gavinana, s’incontra coll’Oranges, e questi v’è morto; ma Ferrucci ferito, preso e finito da Maramaldo, un indegno soldato. Addí 8, il gonfaloniero vuol deporre il Baglioni, ma non è secondato dal popolo giá stanco; si divide, s’indebolisce la difesa; e addí 12 agosto, capitola la cittá. Cosí, dopo una difesa di dieci mesi, che sarebbe bella in qualunque tempo, che fu bellissima, unica in questi, cadde non indegnamente quella cittá, quella repubblica di Firenze, che vedemmo, a malgrado gli errori, la piú nobile, la piú gentile, la piú alta, la piú guelfa, la piú nazionale di tutte, all’etá de’ comuni. Ella aveva, nella sua politica tutto nazionale, imitata bene quella Roma antica che le fu proposta sovente a modello da’ propri scrittori, dal Villani fino a Machiavello. Ma che serve? ella non seppe imitare la virtú militare romana. Ella mostrò in quest’ultimo assedio, ella aveva mostrato, dugento anni prima, in quello d’Arrigo di Lucemburgo, ch’ella non mancava di tal virtú naturalmente. Ma in que’ dugent’anni tramezzo, scacciata sua aristocrazia militare, e postasi sotto a una aristocrazia tutta commerciante, sotto i Medici commerciantissimi, ella aveva neglette, sprezzate, pagate l’armi; e l’armi pagate le fecer fallo al dí dell’ultimo bisogno. Né d’allora in poi, né trecento e piú anni corsi fino ai nostri dí, si combatté mai piú per lei, né intorno a lei. Ella non esercitò, non vide nemmeno piú mai il viril gioco dell’armi; ed ella ne rimane piú disavvezza che niuna forse delle cittá cristiane, abitate dall’audace schiatta di Giapeto. – Un Valori ed altri palleschi la governaron presso ad un anno tra gli esigli e i supplizi. Addí 5 luglio 1531, venne Alessandro de’ Medici, bastardo di quel Lorenzo che era stato duca d’Urbino; e tiranneggiò con nome di principe e duca, fatto ereditario per decreto da Carlo V, e marito ad una figliuola sua bastarda. Intanto, papa Clemente dava Caterina, figliuola legittima di quel medesimo Lorenzo, a un figliuolo di Francesco I, che fu poi re Enrico II di Francia [27 ottobre 1533]; e perciò venne egli stesso a Nizza e Marsiglia. E cosí barcheggiando, ed aiutandosi di Francia ed Austria, Clemente VII avanzava sua famiglia, e doveva esserne satisfatto oramai. Morí addí 25 settembre 1534. Da cardinale e ministro di suo zio aveva avuta voce di abilitá. E se questa sta in avanzar i suoi, conservolla ed accrebbela. Parve, del resto, principe e pontefice mediocre anche a’ contemporanei, salvo che ad alcuni letterati ed artisti.

7. Paolo III [1534-1549]. – Succedette Alessandro Farnese, che prese nome di Paolo III [13 ottobre 1534], sangue d’antichi condottieri, prelato tutt’altro che incolpevole, padre di Pier Luigi ch’ei fece in breve gonfaloniere di Santa Chiesa. – Mutossi, fin da’ primi anni di lui, lo stato d’Italia per due morti. Era morto, fin dal 1533, l’ultimo de’ Paleologi marchesi di Monferrato; e pretendendo, come giá anticamente, i duchi di Savoia e i marchesi di Saluzzo alla successione, l’imperatore diedela [1536], come di feudo femminino, ai Gonzaga di Mantova, che rimasero poi cosí per piú d’un secolo, terza razza de’ marchesi di Monferrato. Morí poi [I novembre 1535] Francesco II, ultimo Sforza, senza figliuoli; e lasciò il ducato all’imperatore, che come imperatore giá il rivendicava, e l’occupò. Ma sorse Francesco I di Francia a disputarlo; e dopo sette anni di pace si riaprì la solita guerra. Fecesi questa volta meno in Lombardia che in Piemonte. Nel quale, al duca fanciullo Carlo II che dicemmo regnante nel 1494, erano succeduti Filippo II [1496], Filiberto II, detto il bello [1497], e Carlo III il buono [1504], infelici principi tutti: che avean sofferto con pazienza l’andar e venir degli eserciti francesi, tedeschi e spagnuoli. Ma or fu peggio; ché, piú forte, l’imperator duca di Milano rattenne la nuova guerra fuori del ducato, e quasi tutta in Piemonte. I francesi occuparono Savoia, Torino e mezzo Piemonte [1536]. Duca Carlo s’alleò coll’imperatore, e questi occupò il resto. Più forti gli imperiali, fecero nuovamente una punta in Provenza, ma furon respinti, e guerreggiossi di nuovo in Piemonte nel 1537. Fecesi in Nizza, nel 1538, una tregua di dieci anni, che durò appena quattro. Guerreggiossi di nuovo; e turchi e francesi, bruttamente insieme, assalirono e predarono Nizza [1543]. Poi, i francesi diedero a Ceresole una gran rotta agl’imperiali [14 aprile 1544]. Ma minacciati dappresso in Francia, facevasi pace a Crespi tra le due potenze straniere [18 settembre]; e rimanevano duca di nome Carlo III, ed occupato, parte da’ francesi, parte dagl’imperiali, il misero Piemonte: misero, ma tra quegli strazi, temperantesi fin d’allora all’armi, ad ogni fortezza. – Nuova mutazione succedeva intanto nella tiranneggiata Firenze. Alessandro, duca, non avea piú a protettore lo zio papa, ma lo suocero imperatore, e s’infangava in persecuzioni e libidini. I fuorusciti moltiplicati ricorsero all’imperatore a Napoli; il Nardi storico liberale orò lor bella causa; il Guicciardini, quella brutta del tiranno [1536]. Il quale n’ebbe, somma e non insueta fra le vergogne italiane, quella d’essere ammonito a moderazione dagli stranieri. Ma (anche in ciò non insueto) l’ammonito continuò. Tuttociò fini per una di quelle scelleratezze miste di barbarie e letteratura, che eran del tempo. Compagno, anzi mezzano del tiranno a sue sfrenatezze, era un cugino di lui, discendente da Lorenzo fratello di Cosimo padre della patria, detto pur Lorenzo o Lorenzino o Lorenzaccio, ed anche il «filosofo», perché pizzicava del letterato e del miscredente. Costui trasse il duca in sua casa, in sua camera, dove promise condurgli una bella e virtuosa gentildonna; ed assistito da Scoronconcolo, un bravo, ivi lo pugnalò e scannò [6 gennaio 1537]. Poi lasciando il cadavere nel letto con una polizza d’una citazione latina sul capo («Vincit amor patriae laudumque immensa cupido»), fuggì spaventato, come giá l’uccisor di Giuliano, a Bologna e Venezia. Questo pretendere alti fini a bassissimi misfatti è cosa volgare. Più rara (ma pur veduta in novembre 1848) ottenerne le lodi pretese; e toccò tal sorte a Lorenzino. Fu lodato in versi e in prosa, paragonato a Bruto; non mai furono sconvolte tutte le idee morali e politiche come in quel secolo. Quanto poi a restaurar la repubblica, quasi non se ne parlò; e tre dí appresso fu fatto capo e principe Cosimo de’ Medici, un altro discendente di quel medesimo fratello di Cosimo, un figlio di Giovanni dalle bande nere, un giovane di diciannove anni, quasi un Cesare Augusto in piccolo; il quale fatto duca dall’imperatore, e piú tardi granduca dal papa [1569], fu stipite di que’ secondi e minori Medici, che signoreggiaron Toscana due secoli giusti or con mediocritá ed or peggio. – E in questo medesimo anno 1537 incominciò Paolo III a far grande Pier Luigi Farnese. Fecegli un ducato di Castro e Nepi; l’anno appresso ottenne dall’ imperatore che gli facesse un marchesato di Novara; e finalmente [agosto 1545] gli fece un ducato di Parma e Piacenza. Ma costui vi tiranneggiò a modo di Alessandro in Firenze; ed a modo di lui [10 settembre 1547], finí trucidato da alcuni gentiluomini piacentini. Accorse Ferrante Gonzaga governatore di Milano per l’imperatore, e prese Piacenza. Ma in Parma fu gridato duca Ottavio figliuolo di Pier Luigi, giá duca di Camerino e che avea sposata Margherita la vedova di Alessandro de’ Medici, la bastarda di Carlo V; e contesesi a lungo con negoziati e guerre per quella successione. Anche Lucca e Genova (trascurando alcune minori) ebbero lor congiure. Perciocché io m’ingannai forse a dir etá aurea di esse quell’altra di ottanta anni addietro. Anche questa ha il suo merito, e può competere e giustificare chi ce ne dà vanto. – A Lucca, serbatasi in governo repubblicano, era gonfaloniero nel 1546 un Burlamacchi. Sognò una serie di quelle restaurazioni di libertá, che sono tanto piu difficili a farsi che non le stesse restaurazioni di principati. Con duemila uomini apparecchiati a’ suoi ordini, ideò liberar Pisa da Firenze, Firenze dal Medici, tutte le città di Toscana, e poi quelle del papa, e, chi sa? d’Italia intiera. Furono storici che anche a’ nostri di fantasticarono di ciò che sarebbe avvenuto, se fosse avvenuta la riuscita di questa congiura, che non poteva avvenire. Perciocché, insomma, ella finí come tutte le congiure che per necessità dello scopo sien numerose. Fu tradita; e l’autore preso, mandato a Milano, torturato, decollato. In Genova poi preparossi a lungo, scoppiò ai 2 gennaio 1547, Luigi Fieschi contro Andrea Doria il liberator della patria, che non l’avea voluta tiranneggiare, e contra Giannettino nipote di lui che tiranneggiava sotto l’autorita di lui. Fu trucidato Giannettino; ma morivvi anche il Fieschi, cadendo in mare; e la congiura finí coi soliti supplizi. – Moriva Francesco I di Francia nel marzo 1547; e succedutogli Enrico II suo figliuolo, il marito di Caterina de’ Medici, apparecchiava nuova guerra contra Carlo V. E volgevasi a lui Paolo III indispettito per Parma. Ma morí [novembre 1549]. I fatti parlano; non è mestier di dir qual fosse in politica; nepotista e non piú. Fu protettor d’arti e lettere anch’egli. Cresciuta intanto la gran calamitá cristiana, la Riforma, e divise dalla Chiesa mezza Germania e quasi tutta Inghilterra, era da riformati e cattolici altamente chiesto un concilio fin dal tempo di Clemente VII. Ma, tra la poca voglia che n’avea questi e il disturbo delle guerre, ei non ne fece altro. Paolo III il convocò prima a Mantova [1537], poi a Vicenza, finalmente a Trento [1542]. Ma non s’apri in effetto costí, se non addí 13 dicembre 1545; e fu trasferito poi a Bologna [11 gennaio 1547]. Morí Lutero a’ 18 febbraio 1546. Addí 27 settembre 1540, Paolo III approvò la Compagnia di Gesú, instituita giá a poco a poco da sant’Ignazio di Lojola con pensiero generoso ed adattatissimo al secolo, di servire e quasi militare per la Chiesa cattolica, per la santa Sedia, nuovamente assalite. Il pensiero disinteressato, ed ispirato dalle condizioni del secolo, fu fecondo. Ai limiti della cristianitá per dilatarla, tra le popolazioni volgentisi all’eresia per rattenerle, furono fatte opere grandi dalla Societá incipiente. Altre alzaronsi, come succede delle cose opportune, col medesimo pensiero: i teatini, i barnabiti, i somaschi. Ma le Societá di Gesú le superò tutte in operositá ed utilitá. E chi, mosso dalle moderne ire non voglia credere a me, creda al Ranke, al Macaulay ed altri scrittori acattolici, in cui sono cessate quell’ire. – Guerreggiò Venezia di questo tempo, ma per poco e senza frutto, contro ai turchi.

8. Giulio III, Marcello II, Paolo IV [1550-1559]. – Quel nepotismo dei papi La Rovere, Borgia, Medici e Farnese, che si potrebbe chiamar «nepotismo primo», o massimo, o politico, e consisteva in voler ogni papa formare un principato alla famiglia, cessò colla morte di papa Farnese. D’allora in poi i papi non fecero piú Stati politici ai nepoti, si contentarono di far loro grandi fortune private; passarono al nepotismo secondo, o minore, o privato. Naturalmente il nepotismo politico era vizio che si consumava da sé; conceduti gli Stati concedibili, non ne rimanean piú; il concedere i rimanenti diventava piú difficile, piú scandaloso, piú spogliator della Chiesa romana. Nol vollero? ovvero nol poterono i papi seguenti? Fu bontá in essi o necessitá il non farlo? Io crederei l’uno e l’altro; la necessitá buona fece la bontá, fece elegger uomini buoni. Il fatto sta, che con Paolo III finirono que’ papi della fine del secolo decimoquinto e del principio del decimosesto, che, comunque paiano piú o meno cattivi principi, furono certamente quasi tutti cattivi ed alcuni scandalosi pontefici; e che incomincia quindi una serie nuova e diversa di papi, quasi tutti o forse tutti buoni pontefici, ed anche migliori principi rispetto a nepotismo, cattivi solamente per quella che dicemmo quasi necessitá della politica austriacata. Giulio III [Del Monte, succeduto 18 febbraio 1550] fu giá men nepotista in ciò, che non si volse, per trovar luogo ai propri nepoti, contra il principato fatto dal predecessore, anzi confermò lo Stato ai Farnesi. – Succedette Marcello II [Cervino, 9 aprile 1555], papa buono e troppo poco durato, tutto inteso a terminar le guerre che impedivano le riunioni della cattolicitá, del concilio, e della cristianitá. – Succedette Paolo IV [Caraffa, 23 maggio 1555], santo papa istitutor de’ teatini, paciero, desideroso anch’egli di riunire la cattolicitá e il concilio; e nepotista, per vero dire, ne’ suoi principi, ma che io conterei volentieri tra’ papi men cattivi politici, perché napoletano, e vivo quindi al dolore di vedere il Regno diventato provincia austriacospagnuola, si volse a Francia. Ma morí addí 18 agosto 1559; e cosí pochi mesi dopo aver veduta confermata la signoria spagnuola nel Regno, in tutta Italia. – Perciocché durante tutti tre questi pontificati si combatté tra Francia ed Austria quella lunga ed infelice guerra che doveva confermar la servitú nostra. S’aprí per Parma, che Francia voleva del Farnese e l’imperatore non volea: ma s’estese poi, e si fece piú grossa in Germania, dove Francia protesse i riformati. In Italia non furon guari grandi fazioni. Siena che era stata ab antico quasi sempre imperiale e ghibellina (naturalmente, posciaché la vicina ed emula Firenze era stata guelfa), oppressa ora dagli imperiali e minacciata da Cosimo duca di Firenze, passò a’ francesi, che v’entrarono [11 agosto 1552], e ne fecero lor piazza d’arme nell’Italia media. Ma arse principalmente la guerra nell’Italia settentrionale, in Piemonte. Nemmen qui con grandi fazioni; si ridusse a quelle piccole e moltiplici che piú dell’altre rovinano un paese. Brissac, capitano francese, Gonzaga imperiale vi predarono a gara, lasciarono una memoria funestamente popolare fino a’ nostri dí. E, secondo l’uso pur de’ nostri dí, piú gravi parvero i saccheggi, le oppressioni degli imperiali alleati che de’ francesi nemici. E morí tra tutte quelle miserie il duca Carlo III in Vercelli dove s’era ritratto da un pezzo [settembre 1553]. Detto il «buono», avea regnato presso a cinquant’anni, troppo buono di fatto, debole, oppresso, infelice. Succedettegli Emmanuele Filiberto, tutto diverso, uno anch’egli di que’ principi di Savoia, o quegli forse che piú di nessuno, seppe, operando secondo i tempi, farsi grande. Figlio di principe spogliato, andò come i maggiori a guerreggiar fuor di casa; ma non a modo antiquato, alla ventura, anzi al modo nuovo regolare, e vi diventò capitano e gran capitano. – Intanto Cosimo tentava sorprendere Siena, ma non gli riusciva [27 gennaio 1554]. Veniva allora un esercito spagnuolo ad assediarla, affamarla. Si rinnovava l’esempio di Firenze. Anche Siena e i francesi che v’erano fecero una bella difesa. Ma anch’essa cadde [2 aprile 1555]; anch’essa non vide mai piú guerra intorno a sé; come Firenze, come Pisa, Toscana tutta. Ed anche in essa seguirono supplizi ed esigli, e cessò il governo repubblicano; e anch’essa fu data in breve a Cosimo duca di Firenze [19 luglio 1557]. – Intanto, essendo ormai la guerra senza risultati in Italia e Germania, facevasi, addí 5 febbraio 1556, una tregua a Cambrai. Dopo la quale, stanco d’affari, di guerre, di contese, di fortuna (perciocché questa pure stanca quando non è congiunta con qualche gran pensiero, che uno prosegua o creda proseguire a benefizio della patria, o della cristianità o del genere umano), Carlo V rinunziò l’imperio con gli Stati di Germania a Ferdinando I suo fratello; e quelli di Spagna, America, Paesi bassi, Borgogna, Sardegna, Due Sicilie e Milano, a Filippo II figliuol suo. Certo non furono le convenienze de’ popoli quelle che fecero cosí dar Lombardia a Spagna lontana, anziché ad Austria piú vicina. Ma allora e per gran tempo non furono, non sono le convenienze de’ popoli, ma quelle de’ principi, che si chiamarono e si chiamano «ragioni politiche». Durerà? Io ne dubito ormai. – Ruppesi quindi tra breve la tregua, rinnovossi la guerra tra Enrico II di Francia, e i due Austriaci Ferdinando imperatore e Filippo. Qui fu che papa Paolo IV s’accostò a Francia. E quindi un esercito francese scese sotto il duca di Guisa a cacciar gli spagnuoli dal Regno; e s’ampliò allora la guerra per tutta la penisola di nuovo. Ma facevasi molto piú grossa nelle Fiandre; ed Emmanuel Filiberto, capitano dell’esercito spagnuolo, vinceva l’esercito francese in gran battaglia a San Quintino [10 agosto 1558], e minacciava Parigi. E quindi, guerreggiatosi lá e in Italia poco altro tempo, conchiusesi finalmente, addí 3 aprile 1559, la pace a Cateau-Cambrésis. Né furono guari diverse le condizioni di questa pace da quelle della pace di Cambrai di trent’anni addietro: il Piemonte stesso, restituito al duca vittorioso, non fu del tutto sgombro di stranieri, e l’Italia rimase legata, mani e piè, Lombardia e Napoli, a casa d’Austria. E ne rimasero pur troppo piú durevoli gli effetti: per centoquarant’anni Francia non contese piú un po’ fortemente l’Italia all’emula antica; l’Italia non fiatò piú sotto all’incontestata servitù.

9. Colture di questo periodo [1492-1539]. – Noi ci scarterem quinci innanzi dal nostro uso di aspettar il fine di ogni grande etá per accennar tutta insieme la coltura di essa; accenneremo via via da sé quella d’ognuno dei periodi in cui subdividiamo questa ultima etá. E ciò faremo, perché, appressandoci a’ tempi nostri, noi pensiamo che sieno piú chiare, piú alla memoria dei leggitori le suddivisioni, e possa cosí essere loro piú grato aver tutto compiuto, politica e coltura, il cenno di ciascuna di esse. – Qui dunque in questi sessantasette anni noi vedemmo peggiorar piú che mai la politica italiana, sviata sì ne’ secoli scorsi dal sommo scopo dell’indipendenza, ma sviata almeno a quello della libertá; mentre qui all’incontro ella non ebbe piú scopo nessuno, e, salve poche eccezioni, non fu piú politica nazionale, ma provinciale, la pessima di tutte per qualunque nazione, la piú stolta per una, che ha tante comunanze di schiatte e di lingua, tante solidarietà d’interessi e di bisogni. Ma se si dicesse ciò solamente, ne rimarrebbe incompiutissima l’idea di questo periodo, di politica pessima sì, ma di coltura la piú splendida fra quante furon mai da Pericle a’ nostri dí. Del resto, noi spiegammo giá siffatto contrasto: tutti gl’impulsi eran giá dati, tutti gli uomini giá nati e piú o meno educati, quando incominciò questo periodo; impulsi ed uomini non potevano cessare a un tratto; il fior maturato al tempo piú sereno, doveva fruttificare a malgrado la tempesta. E tanto piú, che mentre venivasi distruggendo ogni indipendenza e libertá nazionale, rimase pure per qualche tempo molta libertá personale; che chi era oppresso dagli uni trovava libertá, operosità presso ad alcun altro, presso a quegli stessi stranieri, i quali (a ragione allora, e relativamente a’ nostri avi) furon detti «barbari», ma che pur ammiravano, promovevano e venivan prendendo le nostre colture. E cosi in somma sorse quello che noi chiamammo giá «baccanale», ma che qui diremo elegantissimo baccanale di coltura; un rimescolio di scelleratezze e patimenti e solazzi, per cui l’intiera Italia del Cinquecento si potrebbe paragonare alla lieta brigata novellante, cantante ed amoreggiante in mezzo alla peste del Boccaccio; se non che qui, oltre alla peste, eran pure le ripetute invasioni straniere, le guerre, i saccheggi, le stragi, i tradimenti, le pugnalate e i veleni; ed oltre ai canti e alle novelle, ogni genere di scritture e di stampe, e pitture e sculture e architetture, ogni infamia, ogni eleganza, ogni contrasto. Noi vecchi rammentiamo un tempo minore, ma simile, quello dell’ultime invasioni francesi; simili i due in que’ contrasti, e simili anche in ciò, che nell’uno e nell’altro tutte le colture erano frutti, tutti gli uomini erano figli del secolo precedente. Così non si assomiglino intieri i due secoli decimosesto e decimonono! cosí non vengano scemando via via gli splendori del secondo, come siam per veder del primo! – Se non che, la libertá nuovamente sorta in Italia, e giá radicata in Piemonte, pare assicurarci oramai da quest’ultima somiglianza. Il sole risorto della libertá non può non maturare nuovi e migliori frutti di coltura. – E tornando a quelli del Cinquecento, noi incominciamo dalle lettere, dalla storia o politica scritta, vicina alla pratica, e dallo scrittor piú vicino, Machiavello. Fu in gioventù tutto uomo di pratica, colto, non letterato. A’ ventinove anni [1498?] ebbe carico di secondo segretario della repubblica fiorentina ricostituita; e tennelo sotto il Soderini gonfaloniere fino al ritorno de’ Medici, quattordici e piú anni in tutto; andando nel frattempo a ventitré legazioni, al re di Francia, all’imperatore, al papa, al duca Valentino, e ad altri di que’ perversissimi politici. I dispacci (belli, brevi, semplicissimi del resto) che rimangon di lui lo mostrano poco diverso da coloro; non è meraviglia, né grande scandalo. Venuti i Medici, e cacciato esso dall’ufficio, accusato di congiura, imprigionato, collato, e liberato per protezione di Leon X, non sentì, o almeno non mostrò l’ira di Dante contro a’ persecutori, diventò mediceo, pallesco; ed è pur caso volgare. Desiderò rientrar in uffizio, servire il nemico del governo che aveva servito, il principato dopo la repubblica; volgarissimo. Ma negletto, fece uno scritto, un memoriale politico, che dedicò ai Medici e non pubblicò; e il libro è quello del Principe che ognuno sa, e dov’è accennato sì un grande scopo colle famose parole di Giulio II, «liberar l’Italia da’ barbari»; ma dove i mezzi son quelli de’ principi, de’ popoli, della politica d’allora, astuzie, perfidie, violenze, vendette, crudeltà; e qui la colpa diventa grave, immensa, e nella perversità e negli effetti; nella perversità, la quale è sempre le mille volte maggiore in chi scrive che in chi opera perversamente, perché non ha le scuse, gli allettamenti della pratica; negli effetti, perché a pochi uomini, grazie al cielo, è dato far mali durevoli nella pratica rinnovantesi da sé, mentre durano generazioni e generazioni i mali fatti con un libro immorale. Gran semplicità parmi poi quella disputa letteraria fatta e rifatta: qual fosse l’intenzione dell’autore? Chiare dalle parole di lui mi paion due: una personale e bassa, ingraziarsi co’ principi distruttori della repubblica da lui servita; l’altra pubblica ed alta, l’indipendenza; ma peggio che mai avvilita la prima, deturpata la seconda dagli scellerati mezzi proposti. Perciocché allora, come prima, come poi, come sempre, come ultimamente, l’indipendenza non poté, non può, non potrà mai procacciarsi con questi mezzi; anzi nemmeno con quelle destrezze, e doppiezze, ed abilità buie, e segretumi che sono il meno male della politica di Machiavello. Non si rivendica né si tiene in libertá una nazione colla furberia, vizio da servi o tiranni. Le imprese d’indipendenza son quelle fra tutte che vogliono piú unanimità; e questa, grazie al cielo, grazie a ciò che resta di divino nella natura umana, non s’ottiene mai se non colla virtù franca, chiara, pubblica, e quasi direi grossa, o sfacciata. E quindi (mi sia tollerato il dirlo di questa, che pare a molti una delle somme glorie nazionali) io non crederei che sia stato mai un libro cosí fatale ad una nazione, come il Principe all’Italia: ha guastate e guasta le imprese d’indipendenza. V’ha un’impostura, un’ipocrisia delle scelleratezze in molti che senz’essa sarebbon buoni; s’immaginano che la politica non possa esser pratica senza essere scellerata, o almeno buia; e costoro sono confermati in tal errore da quell’autorità e quel codice. E tanto piú, che piú bello è lo scopo proposto in esso; tanto piú, che Machiavello, disgustato de’ Medici, scrisse poscia molto meno scelleratamente ne’ Discorsi, nelle Storie; e tanto piú, che in tutte l’opere sue egli è poi lo scrittore, piú, o quasi solo semplice, piano, naturale, lontano dal periodar pedante; il piú elegante, in somma, e migliore di tutti gli antichi nostri prosatori, senza paragone. Del resto, il gran politico ebbe pure disgrazia fino al fine. Fu finalmente impiegato da’ Medici; ma poco prima di lor nuova caduta del 1527. Ebbe fortuna in ciò, che non sopravisse se non pochi dí [morto 22 giugno]; non ebbe tempo a mutar una o due altre volte colla fortuna. Fece un bene vero, ma non durevole; predicò, promosse, ordinò armi proprie nella imbelle sua città, e scrissene il libro Della guerra. Una vita di Machiavello, fatta virilmente, senza la trista e solita preoccupazione di difender ogni cosa, ogni uomo italiano, sarebbe una delle opere piú utili da farsi ora, per la formazione della politica patria presente ed avvenire. – Francesco Guicciardini [nato 1482] barcheggiò egli pure, servendo prima la repubblica fiorentina al tempo del Soderini, e poi i Medici a cui rimase fedele. Certo che questa era la parte men generosa; pur meno male, poteva credere fosse oramai la sola possibile a Firenze. Ma fu bruttissimo il suo servire, e con zelo, e contro a’ fuorusciti, il tiranno Alessandro. Alla morte di costui, Guicciardini fu principale nel dar il potere al duca Cosimo, giovanetto ch’ei credea governare; ma nol governò; e fu deluso cosí, anche questo politico provetto. Il fatto sta, che fin d’allora sarebbe stata piú facile sempre, e piú utile sovente, quella rettitudine la quale si vien facendo sola possibile in questa nostra civiltà e pubblicità universale. Ad ogni modo, Guicciardini si ritrasse in villa, e scrisse in un anno o poco piú quella storia de’ tempi suoi, che ha nome di prima fra le italiane; che per gravità, acutezza, informazioni e libertá merita senza dubbio gran lode; e che può biasimarsi sì come mancante di politica virtù, e indifferente tra il male e il bene, ma che non cade almeno nello sfacciato lodare e proporre il male, di Machiavello. Parmi bensì molto inferiore nello stile, in tutto il modo di scrivere, lungo, intralciato, latinizzante; se non che, essendo morto l’autore in questo lavoro [27 maggio 1540], ciò che n’abbiamo non è se non l’abbozzo di ciò a che egli l’avrebbe ridotto, se avesse avuto tempo ad esser breve e limpido; ondeché è meno a biasimare lui, che non quegli imitatori, i quali imitano qui, non solamente, come al solito, i difetti del loro autore, ma quelli di un rozzo abbozzo di lui. – Non abbiam luogo a dir degli altri storici fiorentini. Nardi [1476-1540], Nerli [1485-1556], Segni [-1558], Varchi [1502-1565], men famosi forse, men grandi che i due detti, ma piú virtuosi, piú generosi, il Varchi sopra tutti. – Il Davanzati [1529-1586], piú giovane di tutti questi, cadde in un’affettazione contraria a quella del Guicciardini e di altri cinquecentisti. Traduttor di Tacito, volle essere piú breve di lui, che è impossibile senza farsi oscuro. E cadde in quella fiorentineria giá affettata da altri, ma meno male perché almeno in cose facete. E l’una e l’altra affettazione accennavano giá quella brama di novitá, che, quando viene al fine di un gran secolo, suol produrre corruzione; erano preludi al seicentismo. Borghini si volgeva intanto alla storia antica, erudita; come si suole in tempi di servitù, di censure. Tutti questi nella sola e ferace Firenze. – E di storia e politica scrivevano intanto nell’altre parti d’Italia, Bembo [1470-1547], Paolo Giovio [1483-1552]. Giambullari [1495-1564], Costanzo [1507-1591], Adriani [1513-1579], Foglietta [1518-1581], Sigonio [1520-1584], Bonfadio [m. 1550], Ammirato [1531-1601], oltre parecchi altri minori. Grandi ricchezze storiche, come si vede, e che superano di gran lunga quanto si scriveva allora fuor d’Italia; come gli storici stranieri piú liberi e piú misti a pratica superano ora noi, pur troppo. S’aggiunsero le storie pittoriche e gli altri scritti degli artisti, genere quasi esclusivamente nostro. Benvenuto Cellini [1500-1570] e Vasari [1512-1574] sono noti a tutti; piacevolissimo il primo, ma rozzo e partecipe de’ vizi dell’etá sua; scrittore semplice e sciolto il secondo, e tutto inteso a ciò che narra e tratta, senza pretese né imitazioni pedanti (salvo in alcuni proemi che non son di lui); ondeché gli scritti suoi rimangono de’ piú eleganti di nostra lingua. E insieme con quelli di Leonardo da Vinci, sono poi un vero tesoro di tradizioni artistiche di quel secolo aureo dell’arti.