Sotto i deplorabili regni di Valeriano e di Gallieno, l'Impero fu oppresso e quasi distrutto dai Soldati, dai Tiranni e dai Barbari. Lo salvò una serie di gran Principi, che traevano un'oscura origine dalle marziali province dell'Illirico. Nel giro di quasi trenta anni Claudio, Aureliano, Probo, Diocleziano, ed i suoi colleghi trionfarono degli stranieri e de' domestici nemici dello Stato; ristabilirono la militar disciplina, la forza delle frontiere, e meritarono il glorioso titolo di Ristauratori del Mondo Romano.
La caduta di un effemminato tiranno aprì la strada ad una successione di Eroi. L'indignazione del popolo imputava a Gallieno tutte le sue calamità; e la maggior parte, invero, erano conseguenze de' suoi costumi e della indolente sua condotta nel governo. Era privo perfino del sentimento di onore, che supplisce sì spesso alla mancanza della pubblica virtù; e finchè potè godere il possesso dell'Italia, una vittoria riportata dai Barbari, la perdita di una provincia, o la ribellione di un Generale, raramente disturbò il tranquillo corso de' suoi piaceri. Finalmente un esercito considerabile, accampato sul Danubio superiore, rivestì della porpora Imperiale il suo condottiero Aureolo, che sdegnando un angusto ed infecondo regno sulle montagne della Rezia, passò le Alpi, occupò Milano, minacciò Roma, e sfidò Gallieno a disputare in campo la sovranità dell'Italia. Provocato dall'insulto l'Imperatore, ed intimorito dall'imminente pericolo, subitamente mostrò quell'ascoso vigore, che qualche volta si manifestava a traverso l'indolenza del suo carattere. Staccatosi con violenza dagli agi del palazzo, comparve armato in fronte alle sue legioni, e si avanzò ad incontrare di là dal Po il suo competitore. Il corrotto nome di Pontirolo1 conserva ancora la memoria di un ponte sull'Adda, che, durante l'azione, debbe essere stato un oggetto della maggiore importanza per ambo gli eserciti. Il Retico usurpatore, dopo aver ricevuto una totale disfatta ed una pericolosa ferita, si ritirò in Milano. Ne fu immediatamente formato l'assedio; furon le mura battute con ogni macchina dagli antichi usata; ed Aureolo, incerto della interna sua forza, e senza speranza di straniero soccorso, si presagì fin d'allora le funeste conseguenze di una inutile ribellione.
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L'ultimo suo espediente fu un tentativo di sedurre la lealtà degli assediatori. Sparse pel loro campo de' libelli, ne' quali invitava le truppe ad abbandonare un indegno Sovrano, che sacrificava al suo lusso la pubblica felicità, e le vite dei suoi più stimabili sudditi ai più leggieri sospetti. Gli artifizj di Aureolo diffusero i timori, gli scontenti tra i principali Uffiziali del suo rivale. Una cospirazione fu tramata da Eracliano Prefetto del Pretorio, da Marciano Generale di alto grado e di riputazione, e da Cecrope, che comandava un numeroso corpo di guardie dalmatine. La morte di Gallieno fu risoluta, e non ostante il lor desiderio di prima terminare l'assedio di Milano, l'estremo pericolo, che accompagnava ogni momento d'indugio, gli obbligò ad affrettare l'esecuzione del loro ardito disegno. Sull'ultim'ora della notte, mentre l'Imperatore tuttavia prolungava i piaceri della tavola, gli fu portata improvvisamente la nuova, che Aureolo, alla testa di tutte le sue forze, avea fatta dalla città una disperata sortita; Gallieno, che non mancò mai di valor personale, balzò dal suo serico letto, e senza frappor dimora per armarsi o per adunar le sue guardie, montò a cavallo, e corse veloce al luogo del supposto assalto. Circondato dai suoi dichiarati o nascosti nemici, in mezzo al tumulto notturno ricevè ben presto un colpo mortale da incerta mano. Prima di spirare, un sentimento di patriottismo, risvegliatosi nell'animo di Gallieno, lo indusse a nominare un degno successore, e l'ultima sua domanda fu che si dessero gli ornamenti imperiali a Claudio, che allora comandava un corpo staccato d'armata nelle vicinanze di Pavia. Almeno questa voce fu diligentemente propagata, e l'ordine con piacere eseguito dai congiurati, i quali avevan di già convenuto di metter Claudio sul trono. Alla prima nuova della morte dell'Imperatore, mostrarono le truppe qualche sospetto e risentimento, finchè l'uno fu dissipato, e l'altro addolcito con un donativo di venti monete d'oro ad ogni soldato. Ratificarono essi allora l'elezione, e riconobbero il merito del loro nuovo Sovrano2.
L'oscurità, che ricopriva l'origine di Claudio, benchè fosse di poi abbellita da alcune adulatrici finzioni3, manifesta abbastanza la bassezza della sua nascita. Questo solamente si può sapere, ch'egli era nativo di una delle Province confinanti col Danubio; che la sua gioventù fu consumata tra l'armi, e che il suo modesto valore meritò il favore e la confidenza di Decio. Il Senato ed il Popolo già lo consideravano come un eccellente Uffiziale, degno dei più importanti impieghi; e censurarono la disattenzione di Valeriano, che lo teneva nel posto subordinato di Tribuno. Ma distinse non molto dopo quell'Imperatore il merito di Claudio, dichiarandolo primo Generale della frontiera Illirica col comando di tutte le truppe nella Tracia, nella Mesia, nella Dacia, nella Pannonia e nella Dalmazia, collo stipendio del Prefetto dell'Egitto, con gli onori del Proconsole dell'Affrica, e con la sicura speranza del Consolato. Per le sue vittorie sopra i Goti egli meritò dal Senato l'onore di una statua, ed eccitò i gelosi timori di Gallieno. Era impossibile che un soldato stimar potesse un Sovrano così dissoluto, ed un giusto disprezzo si può difficilmente celare. Alcune imprudenti espressioni proferite da Claudio, furono officiosamente riportate a Gallieno. La risposta dell'Imperatore ad un Uffiziale di confidenza, dipinge al vivo il carattere di lui e quello dei tempi. «Niente vi è che dar mi possa un più serio disgusto che la notizia contenuta nell'ultimo vostro dispaccio4; che alcune maligne suggestioni abbiano indisposto contro noi l'animo del nostro amico e Padre Claudio. Per quella fedeltà che ci dovete, usate ogni mezzo per quietare il suo risentimento, ma conducete l'affare con secretezza; non venga questo a notizia dei soldati della Dacia; sono essi già provocati, e ciò potrebbe infiammare il loro furore. Io stesso ho mandati a lui alcuni doni; sia vostra cura ch'egli con piacere li accetti. Sopra tutto fate ch'ei non sospetti ch'io sono informato della sua imprudenza. Il timor del mio sdegno potrebbe indurlo a disperate risoluzioni»5. I doni che accompagnavano questa umile lettera, colla quale il Monarca, procurava di riconciliare a sè il malcontento suo suddito, consistevano in una considerabil somma di danaro, in abiti magnifici ed in un ricco vasellame d'oro e d'argento. Con tali arti Gallieno addolcì lo sdegno, e dissipò i timori del suo illirico Generale; ed in tutto il rimanente di quel regno fu la formidabile spada di Claudio sempre sguainata per la causa di un Sovrano da lui disprezzato. Vero è, ch'egli ricevè finalmente dai congiurati l'insanguinata porpora di Gallieno; ma egli era stato lontano dal loro campo e dai loro consigli; e benchè forse lodasse il fatto, possiamo francamente presumere, ch'egli non fosse reo di alcuna antecedente notizia6. Quando Claudio salì sul trono, era quasi nell'età di cinquantaquattr'anni.
L'assedio di Milano fu tuttavia continuato, ed Aureolo presto si avvide, che i suoi artifizj non avevano avuto altro successo che di suscitargli un più risoluto avversario. Tentò egli di aprire con Claudio un trattato di alleanza e di divisione. «Ditegli» (replicò l'intrepido Imperatore) «che se tali proposizioni fossero state fatte a Gallieno, egli forse le avrebbe pazientemente ascoltate, ed avrebbe accettato un collega disprezzabile al pari di lui7.» Questo duro rifiuto, ed un ultimo infelice sforzo obbligarono Aureole a rendersi con la città alla discrezione del vincitore. Il giudizio dell'esercito lo dichiarò degno di morte, e Claudio, dopo una debole resistenza, consentì che fosse la sentenza eseguita. Nè lo zelo dei Senatori fu meno ardente per la causa del loro nuovo Sovrano. Ratificarono forse con un sincero trasporto d'animo l'elezione di Claudio, e siccome il Predecessore si era mostrato personal nemico del loro ordine, così esercitarono sotto il velo della giustizia una severa vendetta contro gli amici o la famiglia di lui. Fu permesso al Senato di addossarsi l'odioso uffizio del castigo, e l'Imperatore si riservò il piacere ed il merito di ottener con la sua intercessione un atto di generale perdono8.
Questa ostentata clemenza mostra meno il vero carattere di Claudio di quel che il faccia una frivola circostanza, nella qual sembra ch'egli abbia obbedito ai dettami del suo cuore. Le frequenti ribellioni delle province avevano involto quasi ogni persona nel reato di tradimento, quasi ogni patrimonio nel caso di confiscazione, e Gallieno spesso mostrava la sua liberalità distribuendo tra i suoi uffiziali i beni dei sudditi. All'avvenimento di Claudio, una vecchia donna si gettò a' suoi piedi, lagnandosi che ad un Generale dell'ultimo Imperatore era stato arbitrariamente donato il di lei patrimonio. Questo Generale era Claudio stesso, che non era rimasto interamente illeso dalla corruzione dei tempi. Arrossì l'Imperatore a questo rimprovero, ma si mostrò degno della confidenza che quella avea avuta nella sua giustizia. La confessione del suo fallo fu accompagnata da una subita ed ampia restituzione9.
Nell'arduo impegno, che Claudio aveva preso di ristabilire l'Impero nel suo antico splendore, era prima necessario di ravvivare tra le sue truppe un sentimento d'ordine e di obbedienza. Con l'autorità di un veterano Comandante, rappresentò loro, che il rilassamento della disciplina avea introdotta una lunga serie di disordini, dei quali finalmente i soldati stessi provavan gli effetti; che un popolo rovinato dall'oppressione, e indolente per la disperazione, non potea più lungamente somministrare ad un numeroso esercito il mantenimento non che le spese di lusso; che il pericolo di ogni individuo era cresciuto col dispotismo dell'ordine militare, poichè i Sovrani, che tremavan sul trono, provvedevano alla loro salvezza col pronto sacrifizio di ogni suddito colpevole. L'Imperatore si estese su i mali di uno sregolato capriccio, che i soldati potean soddisfare soltanto a spese del proprio sangue; giacchè le sediziose loro elezioni eran così spesso state accompagnate dalle guerre civili, che consumavano il fiore delle legioni o sul campo di battaglia o nel crudele abuso della vittoria. Dipinse egli coi più vivi colori lo stato dell'esausto tesoro, la desolazione delle province, il disonore del nome Romano, e l'insolente trionfo dei rapaci Barbari. Contro questi Barbari adunque egli dichiarò di voler dirigere il primo sforzo delle loro armi. Regnasse pur Tetrico per qualche tempo in Occidente, e conservasse pure Zenobia il dominio dell'Oriente10; questi usurpatori erano suoi personali nemici: nè potea egli pensare a soddisfare alcun privato risentimento, finchè salvato non avesse un Impero, la cui imminente rovina avrebbe (non essendo a tempo prevenuta) oppresso e l'esercito e il popolo.
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Le varie nazioni della Germania e della Sarmazia, che combattevano sotto le gotiche insegne, avevan già raccolta un'armata più formidabile di qualunque altra che mai fosse uscita dall'Eusino. Sulle rive del Niester, uno dei gran fiumi che sboccano in quel mare, essi costruirono una flotta di duemila o veramente di seimila vascelli11, numero, che per incredibil che possa sembrare, non sarebbe stato bastante a trasportare la loro pretesa armata di trecentoventimila Barbari. Qualunque esser potesse la forza reale dei Goti, il vigore ed il successo della spedizione non furono adeguati alla grandezza dei preparativi. Nel loro passaggio pel Bosforo gl'inesperti piloti furon vinti dalla violenza della corrente; e mentre la moltitudine dei loro vascelli era ristretta in un angusto canale, molti si ruppero urtando l'uno contro l'altro o contro la terra. Fecero i Barbari alcune discese sopra varie coste dell'Europa e dell'Asia, ma l'aperto paese era stato già devastato, ed essi furono con vergogna e perdita rispinti da molte fortificate città. Si sparse nella flotta lo sbigottimento e la divisione, e molti dei loro capi fecero vela verso l'isole di Creta e di Cipro; ma il grosso dell'armata, seguitando un corso più costante, si ancorò finalmente vicino alle falde del monte Atos, ed assalì la città di Tessalonica, opulenta capitale di tutte le province della Macedonia. I loro assalti, nei quali mostravano un feroce ma sregolato valore, furono presto interrotti dal rapido avvicinarsi di Claudio, che si affrettava ad una scena d'azione degna della presenza di un Principe bellicoso, alla testa di tutte le rimanenti forze dell'Impero. Non volendo sopportar la battaglia, i Goti levarono subito il campo, abbandonarono l'assedio di Tessalonica; e lasciando le loro navi al piede del monte Atos, traversarono le colline della Macedonia, e si spinsero avanti ad assalire l'ultima difesa dell'Italia.
Abbiamo ancora una lettera originale scritta da Claudio in questa memorabile occasione al Senato ed al Popolo. «Padri coscritti (scrive l'Imperatore) sappiate che trecentoventimila Goti hanno invaso il territorio romano. Se io vinco, la vostra gratitudine ricompenserà i miei servigi. Se cado, rammentatevi che sono successor di Gallieno. L'intera Repubblica è affaticata ed esausta di forze. Combatteremo dopo Valeriano, dopo Ingenuo, Regilliano, Lolliano, Postumo, Gelso, e mille altri che un giusto disprezzo per Gallieno spinse alla sedizione. Noi manchiamo di dardi, di lance e di scudi. La forza dell'Impero, la Gallia e la Spagna sono usurpate da Tetrico, e con rossore confessiamo che gli arcieri dell'Oriente servono sotto le insegne di Zenobia. Qualunque impresa facciamo, sarà questa grande abbastanza12.» Lo stile malinconico e risoluto di questa lettera annunzia un Eroe che non cura il suo fato, conosce il pericolo, ma ricava però dai suoi propri talenti una ben fondata speranza.
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L'evento superò l'espettazione di lui e quella del Mondo. Colle più segnalate vittorie liberò l'Impero da quell'esercito di Barbari, e fu distinto dalla posterità colla gloriosa denominazione di Claudio Gotico. Le storie imperfette di una guerra irregolare13 non ci forniscono materiali bastanti per descrivere l'ordine e le circostanze delle imprese di lui; ma se ci fosse permessa una somigliante espressione, distribuir potremmo in tre atti questa memorabil tragedia. I. La decisiva battaglia fu data vicino a Naisso, città della Dardania. A principio le legioni diedero in volta, oppresse dal numero, e disanimate dalle loro sventure. Inevitabile era la rovina loro, se non avesse l'abilità dell'Imperatore preparato un opportuno soccorso. Un grosso distaccamento di soldati, uscendo dai secreti e difficili passi delle montagne, che per ordine di lui avevan occupati, assalì improvvisamente la retroguardia dei vittoriosi Goti. L'attività di Claudio profittò del favorevol momento. Rianimò egli il coraggio delle sue truppe, riordinò le lor file, ed incalzò i Barbari da ogni parte. Narrasi che fossero cinquantamila uomini uccisi nella battaglia di Naisso. Vari numerosi corpi di Barbari, coprendo la loro ritirata con una mobile fortificazione di carriaggi, si ritirarono, o piuttosto fuggirono da quel campo di strage. II. Possiamo presumere che qualche insuperabile difficoltà, forse la stanchezza, forse la disubbidienza dei vincitori, non permettesse a Claudio di compire in un giorno la distruzione dei Goti. La guerra si sparse per le province della Mesia, della Tracia e della Macedonia, e le sue operazioni si ridussero a varie mosse, e sorprese, e tumultuari combattimenti sì per mare che per terra. Quando i Romani soffrirono qualche perdita, ordinariamente ciò avvenne o per la loro codardia o per la loro temerità; ma i superiori talenti dell'Imperatore, la sua perfetta pratica dei paesi, e la giudiziosa sua scelta de' provvedimenti e degli Uffiziali, assicurarono in moltissime occasioni il buon successo delle sue armi. L'immenso bottino, frutto di tante vittorie, consisteva la maggior parte in bestiami e schiavi. Uno scelto corpo della gotica gioventù venne ricevuto nelle truppe Imperiali; fu il rimanente venduto in ischiavitù; e fu il numero delle donne prigioniere tanto considerabile, che n'ebbe ogni soldato due o tre per sua parte: circostanza dalla quale si può concludere, che gl'invasori aveano qualche disegno di stabilirsi, non meno che di saccheggiare; giacchè in una navale spedizione ancora erano accompagnati dalle loro famiglie. III. La perdita della lor flotta, che fu o presa o sommersa, aveva impedita la ritirata dei Goti. I Romani avendo formato un vasto cerchio di posti, distribuiti con arte, sostenuti con coraggio, e che si ristringevano a poco a poco verso un centro comune, forzarono i Barbari a ritirarsi nelle più inaccessibili parti del monte Emo, dove trovarono un sicuro rifugio, ma una sussistenza assai scarsa. Nel corso di un rigoroso verno, nel quale furono assediati dalle truppe dell'Imperatore, la fame e la peste, la diserzione e la spada continuamente diminuirono quella imprigionata moltitudine. Al ritorno della primavera, non comparve in arme che una feroce e disperata truppa, residuo di quell'oste possente, che si era imbarcata alla foce del Niester.
La peste, che tanti Barbari uccise, divenne finalmente fatale al lor vincitore. Dopo un breve ma glorioso regno di due anni, Claudio morì in Sirmio, in mezzo alle lagrime ed alle acclamazioni de' sudditi. Nell'ultima sua malattia convocò i principali Ministri dello Stato e dell'esercito, e in lor presenza raccomandò Aureliano, uno dei suoi Generali, come il più degno del trono, ed il più atto ad eseguir il gran disegno, ch'egli stesso avea potuto soltanto intraprendere. Le virtù di Claudio, il suo valore, l'affabilità14, la giustizia e la temperanza, il suo amor per la gloria e per la patria lo pongono nel piccol numero di quegl'Imperatori, che aggiunsero lustro alla Romana porpora. Queste virtù per altro furono celebrate con particolar zelo e compiacenza dai cortigiani Scrittori del secolo di Costantino, il quale era bisnipote di Crispo, fratello maggiore di Claudio. La voce dell'adulazione imparò presto a ripetere, che gli Dei, i quali avean così frettolosamente tolto Claudio alla terra, ricompensarono il suo merito e la sua pietà perpetuando l'Impero nella sua famiglia15.
Non ostante questi oracoli, la grandezza dei Flavj (nome che a loro piacque di assumere) fu differita per più di vent'anni, e lo stesso innalzamento di Claudio cagionò l'immediata rovina del suo fratello Quintilio, il quale non ebbe moderazione o coraggio bastante per discendere nella privata condizione, a cui lo avea condannato il patriottismo dell'ultimo Imperatore. Senza indugio o riflessione egli prese la porpora in Aquileia, dove comandava forze considerabili; e benchè il suo regno durasse diciassette giorni soltanto, egli ebbe tempo di ottenere la sanzione del Senato, e di provare una sedizion delle truppe. Appena egli seppe che la grande armata del Danubio avea conferita l'autorità Imperiale al ben conosciuto valor di Aureliano, si sentì vinto dalla gloria e dal merito del suo rivale, e facendosi aprire le vene, prudentemente si ritirò dalla ineguale contesa16.
Il general disegno di quest'opera non ci permette di minutamente riferire le azioni di ogni Imperatore dopo il suo avvenimento al trono, molto meno di rintracciare le varie fortune della sua vita privata. Osserveremo soltanto che il padre di Aureliano era un contadino del territorio di Sirmio, il quale occupava una piccola tenuta appartenente ad Aurelio, ricco Senatore. Il bellicoso suo figlio, arrolato nelle truppe come soldato comune, divenne successivamente centurione, tribuno, prefetto di una legione, ispettore del campo, generale, ovvero (come allor si chiamava) duce di una frontiera; e finalmente nella guerra Gotica esercitò l'importante uffizio di primo comandante della cavalleria. In ogni grado si distinse per l'impareggiabil valore17, per la rigida disciplina, e per una fortunata condotta. Fu egli rivestito del Consolato dall'Imperator Valeriano, che lo chiama, nel pomposo linguaggio di quel secolo, il liberatore dell'Illirico, il ristauratore della Gallia, ed il rivale degli Scipioni. Per la raccomandazione di Valeriano, un Senatore del grado e del merito più cospicuo, Ulpio Crinito, il cui sangue derivava dalla stessa sorgente di quel di Traiano, adottò il contadino della Pannonia, diedegli in matrimonio la sua figlia, e sollevò con l'ampio suo patrimonio l'onorata povertà, che Aureliano avea mantenuta inviolata18.
Il regno di Aureliano durò solamente quattr'anni e quasi nove mesi; ma ogni momento di quel corto periodo fu illustrato da qualche memorabil prodezza. Egli terminò la guerra Gotica, castigò i Germani che invadevano l'Italia, ricuperò la Gallia, la Spagna, la Britannia dalle mani di Tetrico, e distrusse la superba monarchia, che Zenobia avea nell'Oriente innalzata sulle rovine dell'afflitto Impero.
Dovè Aureliano la continua fortuna delle sue armi alla rigorosa attenzione posta agli articoli anche più minuti della disciplina. I suoi militari regolamenti sono contenuti in una lettera assai concisa ad un subalterno Uffiziale, al quale comanda di porli in vigore, se desidera di divenir tribuno, o se gli è cara la vita. Il giuoco, il bere, e le arti della divinazione erano severamente proibite. Aureliano pretendeva che i suoi soldati fossero modesti, frugali e laboriosi; che sempre si mantenesser lucenti le loro armi, aguzze le spade, pronti i vestiti e i cavalli all'immediato servizio; che vivessero nei loro quartieri con castità e sobrietà, senza danneggiare i campi di grano, senza rubare neppure una pecora, un volatile, un grappolo di uva, senza esigere dai loro ospiti nè sale, nè olio, nè legna. «La pubblica paga (continua l'Imperatore) è bastante al loro sostentamento; le ricchezze debbono ricavarsi dalle spoglie de' nemici e non dal pianto dei Provinciali19.» Un solo esempio servirà a mostrare il rigore, anzi la crudeltà di Aureliano. Un soldato avea sedotta la moglie del proprio ospite. Fu il misero colpevole legato a due alberi, che piegati a forza l'uno con l'altro, e di poi violentemente separandosi, stracciarono le di lui membra. Pochi consimili esempi impressero una salutevol costernazione. I castighi di Aureliano eran terribili, ma raramente ebbe occasione di punire due volte uno stesso delitto. La sua propria condotta dava la sanzione alle sue leggi, e le sediziose legioni temevano un Capo, che aveva imparato ad ubbidire, ed era degno di comandare.
La morte di Claudio avea rianimato il languente spirito dei Goti. Le truppe, che difendevano i passi del monte Emo e le rive del Danubio, erano state richiamate pel timore di una guerra civile, e sembra probabile, che il rimanente corpo delle Tribù Gotiche e Vandaliche, abbracciando la favorevole occasione, abbandonasse i suoi stabilimenti dell'Ucrania, attraversasse i fiumi, ed accrescesse con nuova moltitudine la devastatrice armata de' suoi concittadini. Le loro truppe, riunite, furono alfine incontrate da Aureliano, ed il sanguinoso e dubbio conflitto finì solamente col venir della notte20. Spossati per tante calamità da loro vicendevolmente date e sofferte in una guerra di vent'anni, i Goti ed i Romani acconsentirono ad un durevole ed util trattato. Fu questo premurosamente richiesto dai Barbari, e con piacere ratificato dalle legioni, al voto delle quali il prudente Aureliano commise lo scioglimento di quella importante questione. Si obbligarono i Goti a fornire agli eserciti Romani un corpo di cavalleria di duemila ausiliari, e stipularono in contraccambio una sicura e tranquilla ritirata con un regolare mandato fino al Danubio, provveduto dalla cura dell'Imperatore, ma a lor proprie spese. Fu il trattato osservato con tanta religiosità, che quando una truppa di cinquecento uomini si staccò dal campo per far delle prede, il Re, ovvero il Generale dei Barbari, domandò che fosse il colpevole condottiero preso e saettato a morte, come vittima consacrata alla santità de' loro trattati. È per altro verosimile, che la precauzione di Aureliano, il quale aveva ritenuto come ostaggi i figli e le figlie dei Gotici condottieri, contribuisse in qualche parte a questa pacifica disposizione. Egli educò i giovani all'esercizio dell'armi, e vicino alla sua propria persona; alle donzelle diede una liberale e romana educazione, e concedendole in matrimonio ad alcuni dei suoi principali Uffiziali, strinse a poco a poco le due nazioni coi più tenaci e cari legami21.
Ma la più importante condizione della pace fu piuttosto supposta che espressa nel trattato. Ritirò Aureliano le forze Romane dalla Dacia, e tacitamente abbandonò quella gran Provincia ai Goti ed ai Vandali22. Il suo maschio discernimento gli fe' conoscere i vantaggi reali, e gl'insegnò a disprezzare il disonore apparente del ristringere in tal guisa le frontiere della Monarchia. I sudditi Daci, rimossi da quelle terre lontane, ch'essi non sapean nè coltivar nè difendere, aggiunsero forza e popolazione alla parte meridionale del Danubio. Un fertile territorio, cangiato in deserto dalle replicate scorrerie dei Barbari, fu ceduto alla loro industria; ed una nuova provincia della Dacia conservò sempre la memoria delle conquiste di Traiano. Nella Dacia antica, per altro, rimase un considerabil numero di abitatori, ai quali più che un Goto Sovrano fece orrore l'esilio23. Questi degenerati Romani continuarono ad essere utili all'Impero, introducendo tra i lor vincitori le prime idee dell'agricoltura, le arti utili, ed i comodi della vita civile. Si stabilì a poco a poco una comunicazione di commercio e di lingua tra le opposte rive del Danubio; e la Dacia, divenuta indipendente, fu spesso l'argine più saldo dell'Impero contro le invasioni dei selvaggi del Settentrione. Un sentimento d'interesse legava all'alleanza di Roma questi Barbari inciviliti; ed un interesse costante si converte bene spesso in sincera ed utile amicizia. Questa mista colonia, che occupava l'antica provincia, e si era insensibilmente confusa in un popolo numeroso, riconosceva tuttavia il superior nome, o l'autorità della Gotica Tribù, e pretendeva l'immaginario onore di trarre dalla Scandinavia l'origine. Nel tempo stesso la fortunata, benchè casuale somiglianza del nome di Geti, infuse tra i creduli Goti una vana credenza, che nei tempi remoti i loro antenati, già stabiliti nelle province della Dacia, avessero ricevute le istruzioni di Zamolsi e represse le vittoriose armi di Sesostri e di Dario24.
Mentre la vigorosa e moderata condotta di Aureliano ristabiliva la frontiera dell'Illirico, gli Alemanni25 violarono le condizioni della pace o comprate da Gallieno o imposte da Claudio, ed animati dalla impaziente lor gioventù, corsero improvvisamente alle armi. Quarantamila cavalli26 e un doppio numero di fanti27 apparvero in campo. I primi oggetti della loro avarizia furono alcune poche città della Retica frontiera; ma presto crescendo col buon successo le loro speranze, sparsero gli Alemanni con rapida mossa la devastazione dalle rive del Danubio a quelle del Po28.
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L'Imperatore seppe quasi nel tempo stesso l'irruzione e la ritirata dei Barbari. Radunato un attivo corpo di truppe, marciò con silenzio e prestezza lungo l'Ercinia Foresta; e gli Alemanni, carichi delle spoglie dell'Italia, arrivarono al Danubio, non sospettando, che sull'opposta riva ed in un posto vantaggioso stesse celato un esercito Romano, disposto ad impedire il loro ritorno. Aureliano favorì la fatal confidenza dei Barbari, e lasciò che quasi metà delle lor forze passasse il fiume senza precauzione veruna. La situazione e la sorpresa loro gli procuravano una facil vittoria; e la sua ferma condotta ne accrebbe il vantaggio. Disponendo le legioni in forma di semicerchio, avanzò i due corni verso il Danubio, e volgendoli a un tratto verso il centro, circondò la retroguardia dei Germani. I Barbari smarriti, dovunque gettasser lo sguardo, vedevano con disperazione un paese deserto, un fiume rapido e profondo, ed un vittorioso ed implacabil nemico.
Ridotti a questa infelice condizione, non isdegnarono gli Alemanni di presto implorare la pace. Aureliano ricevè i loro Ambasciatori alla testa del suo campo, e con tutta la pompa marziale, che potesse mostrare la grandezza e la disciplina romana. Erano le legioni sulle armi in bene ordinate schiere ed in profondo silenzio. I principali Comandanti, distinti colle insegne del loro grado, stavano a cavallo dall'uno e dall'altro lato del trono Imperiale. Dietro al trono s'innalzavano sopra lunghe picche, coperte d'argento, le sacre immagini dell'Imperatore e de' suoi Predecessori29, le Aquile d'oro, ed i vari titoli delle legioni, a lettere d'oro scolpiti. Quando prese Aureliano il suo posto, il suo nobile portamento e la sua maestosa figura30 insegnarono ai Barbari a venerare la persona non meno che la porpora del lor vincitore. Caddero in silenzio gli ambasciatori al suolo prostesi. Fu ad essi ordinato di alzarsi e permesso di favellare. Coll'assistenza degl'interpreti estenuarono eglino la loro perfidia, ma giustificarono le loro imprese, si estesero sulle vicende della fortuna e su i vantaggi della pace, e con inopportuna confidenza richiesero un abbondante sussidio, quasi prezzo dell'alleanza, ch'essi offrivano ai Romani.
Fu la risposta dell'Imperatore aspra ed imperiosa. Trattò la loro offerta con disprezzo, e con indignazione la loro richiesta; rimproverò ai Barbari la loro ignoranza nelle arti della guerra e nelle leggi della pace, e finalmente li licenziò colla sola scelta di rendersi a discrezione, o di aspettare la maggior severità dal suo risentimento31. Aveva Aureliano restituita ai Goti una remota provincia; ma era pericoloso il fidarsi o il perdonare a que' perfidi Barbari, la cui formidabil potenza teneva l'Italia stessa in continui timori.
Pare che immediatamente dopo questo congresso, qualche improvviso evento richiedesse la presenza dell'Imperatore nella Pannonia. Lasciò egli a' suoi Generali la cura di compiere la distruzione degli Alemanni o col ferro, o col più sicuro mezzo della fame. Ma l'attiva disperazione ha spesso trionfato dell'indolente confidenza nella fortuna. Vedendo i Barbari ch'era impossibile traversare il Danubio ed il campo Romano, ruppero i posti della retroguardia, ch'erano, o più debolmente, o meno diligentemente difesi, e con incredibil prestezza, ma per diverso cammino, ritornarono verso i monti dell'Italia32. Aureliano, che riguardava la guerra come affatto finita, ricevè la mortificante notizia della fuga degli Alemanni e della devastazione da essi fatta nel territorio di Milano. Fu alle legioni ordinato di seguitare con tutta la speditezza, di cui erano capaci quei gravi corpi, la rapida fuga di un nemico, l'infanteria e la cavalleria del quale si muovevano quasi con egual celerità. Pochi giorni dopo, l'Imperatore istesso mosse al soccorso dell'Italia conducendo uno scelto corpo di ausiliari (fra i quali vi erano gli ostaggi e la cavalleria dei Vandali) e tutte le guardie Pretoriane, che avevano servito nelle guerre fatte già sul Danubio33.
Essendosi le truppe leggiere degli Alemanni sparse dalle Alpi agli Appennini, la continua vigilanza di Aureliano e dei suoi Uffiziali fu occupata in discoprire, assaltare e perseguitare i numerosi loro distaccamenti. Non ostante l'irregolarità di questa guerra, vengono menzionate tre considerabili battaglie, nelle quali le forze principali delle due armate si azzuffarono ostinatamente34. Fu vario il successo. Nel primo combattimento vicino a Piacenza, i Romani riceverono un colpo sì forte, che, secondo l'espressione di uno scrittore parzialissimo di Aureliano, si temè l'immediata ruina dell'Impero35. Gli accorti Barbari, che aveano circondati i boschi, assalirono improvvisamente le legioni nell'oscurità della sera, e (come è molto probabile) dopo la fatica e il disordine di una lunga marcia. Non poterono i Romani resistere alla furia del loro assalto, ma finalmente, dopo una terribile strage, la paziente costanza dell'Imperatore riordinò le suo truppe, e ristabilì in qualche modo l'onore delle armi sue. La seconda battaglia s'ingaggiò vicino a Fano nell'Umbria, sul terreno, che cinquecento anni avanti era stato fatale al fratello di Annibale36. Cotanto i fortunati Germani si erano avanzati lungo la via Emilia e Flaminia, con idea di saccheggiare la mal difesa padrona del Mondo! Ma Aureliano, che vigilando alla salvezza di Roma, era sempre loro alle spalle, trovò quivi il decisivo momento di dar loro una totale ed irreparabil disfatta37. Il fuggitivo residuo del loro esercito venne esterminato in una terza ed ultima battaglia vicino a Pavia; e fu l'Italia liberata dalle irruzioni degli Alemanni.
La paura è stata la prima madre della superstizione, ed ogni nuova calamità induce i tremanti mortali a scongiurar lo sdegno dei loro invisibili nemici. Benchè la migliore speranza della Repubblica fosse nel valore e nella condotta di Aureliano, pure fu tale la pubblica costernazione, quando i Barbari erano a momenti aspettati alle porte di Roma, che per decreto del Senato si consultarono i libri Sibillini. Lo stesso Imperatore, per religione o per politica, raccomandò questo salutevole provvedimento, biasimò la lentezza del Senato38, e si esibì di supplire a qualunque spesa, e di dare qualunque animale e qualunque schiavo d'ogni nazione che gli Dei richiedessero. Non ostante questa liberale offerta, non sembra che alcuna vittima umana espiasse col suo sangue i peccati del popol Romano. I libri Sibillini imposero cerimonie più miti: processioni di Sacerdoti in bianche vesti, accompagnati da un coro di giovani e di vergini; lustrazioni della città e dell'adiacente campagna, e sacrifizi la cui potente influenza impedisse ai Barbari il passo nella mistica terra, sulla quale si erano celebrati. Queste superstizioni, benchè puerili in se stesse, servirono al buon esito della guerra; e se nella decisiva battaglia di Fano, gli Alemanni sognarono di vedere un'armata di spettri, combattenti in favor d'Aureliano, egli ricevè un vero ed effettivo aiuto da questo immaginario rinforzo39.
Ma non ostante qualunque fidanza aver si potesse negl'ideali ripari, pure l'esperienza del passato e il timor del futuro, indussero i Romani a costruire fortificazioni di un genere più saldo e più sostanziale. I successori di Romolo aveano circondato i Sette Colli di Roma con un antico muro di più di tredici miglia40. Un recinto sì vasto può sembrare sproporzionato alla forza ed alla popolazione di quello Stato nascente. Ma era necessario di assicurare una vasta estensione di pascoli e di terreno dalle frequenti ed improvvise incursioni dei popoli del Lazio, perpetui nemici della Repubblica. Crescendo la Romana grandezza, si accrebbe a poco a poco la città, e la sua popolazione occupò tutto lo spazio voto, aprì le inutili mura, coprì il campo Marzio, e da ogni parte seguitò le pubbliche strade maestre con lunghi e bei sobborghi41. L'estensione delle nuove mura, erette da Aureliano e terminate sotto il regno di Probo, era magnificato dall'opinione popolare quasi a cinquanta miglia42, ma le accurate misure la ridussero intorno a ventuno43. Era questo un grande, ma tristo lavoro, giacchè i ripari della Capitale svelavano la decadenza della Monarchia. I Romani dei secoli più felici, che affidarono alle armi delle legioni la sicurezza dei campi delle frontiere44, erano ben lontani dal sospettare in alcun modo, che si dovesse mai per necessità fortificare la sede dell'Impero contro le irruzioni dei Barbari45.
La vittoria di Claudio su i Goti, e il fortunato successo di Aureliano contro gli Alemanni aveano già restituito alle armi Romane l'antica lor superiorità sopra le Barbare nazioni del Settentrione. Il punire i domestici tiranni, e riunire le smembrate parti dell'Impero era un'impresa riservata all'ultimo di questi bellicosi Imperatori. Quantunque fosse stato riconosciuto dal Senato e dal Popolo, le frontiere dell'Italia, dell'Africa, dell'Illirico e della Tracia ristringevano i confini del suo dominio. La Gallia, la Spagna e la Britannia, l'Egitto, la Siria e l'Asia minore erano tuttavia possedute da due ribelli, che soli di una lista sì numerosa, erano sino allora andati esenti dai pericoli della lor condizione; e per render compita l'ignominia Romana, due donne erano le usurpatrici di quei troni rivali.
S'era veduta nella Gallia una rapida successione di Monarchi, innalzati e caduti. La rigida virtù di Postumo non servì che ad accelerare la sua rovina. Egli dopo d'aver oppresso un competitore, ch'aveva presa in Magonza la porpora ricusò di concedere alle sue truppe il sacco di quella ribelle città; e nel settimo anno del regno suo divenne la vittima della loro delusa avarizia46. La morte di Vittorino, amico e collega di Postumo, fu prodotta la più piccola causa. Le luminose qualità47 di questo Principe erano oscurate da una licenziosa passione, ch'egli soddisfaceva con atti di violenza, senza aver quasi riguardo alle leggi della società, o a quelle ancor dell'amore48. Egli fu trucidato a Colonia da una congiura di gelosi mariti, la cui vendetta potrebbe sembrare più giustificabile, se risparmiato avessero l'innocente suo figlio. Dopo la strage di tanti Principi valorosi, è in certo modo mirabile, che una donna contenesse per lungo tempo le feroci legioni della Gallia, ed è cosa più singolare, che questa donna fosse la madre dell'infelice Vittorino. Coi suoi artifizi e colle sue ricchezze potè Vittoria collocar successivamente sul trono Mario e Tetrico, e regnare con maschio vigore sotto il nome di questi dipendenti Imperatori. La moneta di rame, di argento, e di oro si coniava in suo nome; essa prese i titoli di Augusta e di Madre degli eserciti: il suo potere finì solamente colla sua vita; ma fu questa forse accorciata dalla ingratitudine di Tetrico49.
A. D. 271
Quando ad istigazione dell'ambiziosa sua protettrice assunse Tetrico le regie insegne, egli era Governatore della tranquilla provincia dell'Aquitania, impiego convenevole al suo carattere ed alla sua educazione. Egli regnò per quattro o cinque anni sulla Gallia, sulla Spagna e sulla Britannia, schiavo e Sovrano di un licenzioso esercito, ch'egli temeva, e dal quale era sprezzato. Il valore e la fortuna di Aureliano gli aprirono finalmente la strada alla libertà. Egli si arrischiò a svelare la trista sua situazione, e scongiurò l'Imperatore di affrettarsi a soccorrere il suo infelice rivale. Questa segreta corrispondenza, se fosse giunta all'orecchie dei soldati, molto probabilmente avrebbe costato a Tetrico la vita; nè poteva egli deporre lo scettro dell'Occidente senza commettere un atto di tradimento contro se stesso. Egli finse che vi fosse apparenza di una guerra civile, condusse in campo le sue forze contro Aureliano, le ordinò nella maniera più svantaggiosa, svelò i suoi propri consigli al nemico, e con pochi scelti amici disertò sul principio dell'azione. Le ribelli legioni, benchè disordinate e sconcertate dall'inaspettato tradimento del loro Capo, si difesero però con disperato valore, finchè furono quasi tutte tagliate a pezzi in quella sanguinosa e memorabil battaglia, che seguì vicino a Chalons nella Sciampagna50. La ritirata degli ausiliari irregolari Franchi e Batavi51, che il vincitore presto costrinse o persuase a ripassare il Reno, ristabilì l'universale tranquillità, e l'autorità di Aureliano fu riconosciuta dalla muraglia d'Antonino alle colonne d'Ercole.
Fino dal regno di Claudio la Città di Autun, sola e senza soccorso, avea osato dichiararsi contro le legioni della Gallia. Dopo un assedio di setto mesi esse rovinarono e saccheggiarono quella sfortunata città già desolata dalla fame52. Lione, al contrario, avea resistito con ostinata avversione alle armi di Aureliano. Si legge il castigo di Lione53, ma non si trovano mentovate le ricompense di Autun. Tale in verità è la politica della guerra civile, ricordarsi severamente delle ingiurie, ed obbliare i più importanti servigi. La vendetta è proficua, la gratitudine è dispendiosa.
A. D. 272
Appena Aureliano si fu assicurato della persona e delle province di Tetrico, rivolse le sue armi contro Zenobia, quella celebre Regina di Palmira e dell'Oriente. L'Europa moderna ha prodotte varie femmine illustri, che hanno sostenuto con gloria il peso del regno; nè il nostro secolo è privo di sì distinti caratteri. Ma, eccettuando le dubbie imprese di Semiramide, Zenobia è forse l'unica donna, il cui genio superiore si sia sollevato dalla servile indolenza, imposta al suo sesso dal clima e dai costumi dell'Asia54. Essa vantava la sua origine dai Re Macedoni dell'Egitto, uguagliava in bellezza la sua antenata Cleopatra, e superava d'assai questa Principessa nella castità55 e nel valore. Era Zenobia stimata la più amabile e la più eroica del suo sesso. Era di carnagione bruna (giacchè parlando di una Signora queste piccole cose divengono importanti); i suoi denti erano di una bianchezza di perla, e ne' suoi grandi e neri occhi scintillava un insolito fuoco, temperato dalla più lusinghiera dolcezza. Forte ed armoniosa aveva la voce. Il suo maschio intelletto era rinvigorito ed adornato dallo studio. Non era ella ignara della lingua Latina, e possedeva con ugual perfezione il linguaggio Greco, l'Egiziano e il Siriaco. Avea disteso per suo proprio uso un Epitome della Storia Orientale, e familiarmente paragonava le bellezze di Omero e di Platone dietro la scorta del sublime Longino.
Questa perfetta donna sposò Odenato, che dalla condizione di privato s'innalzò alla Sovranità dell'Oriente. Divenne essa ben tosto amica e compagna di quest'Eroe. Negl'intervalli della guerra si dilettava Odenato estremamente della caccia; egli inseguiva con ardore le fiere dei deserti, leoni, pantere ed orsi; e l'ardor di Zenobia in quel pericoloso divertimento non era punto inferiore. Avea essa avvezzato il suo temperamento alla fatica, sdegnava l'uso di un cocchio coperto, compariva ordinariamente a cavallo in abito militare, e marciava talvolta per molte miglia a piedi alla testa delle sue truppe. I felici successi di Odenato furono attribuiti in gran parte all'incomparabile di lei prudenza e valore. Le illustri loro vittorie sopra il gran Re, che per due volte perseguitarono fino alle porte di Ctesifone, gettarono i fondamenti della comune lor fama e potenza. Le armate, ch'essi comandavano, e le Province ch'aveano salvate, non riconoscevano per Sovrani che i due lor Capi invincibili. Il Senato e il popolo Romano riverivano uno straniero, che vendicato avea il prigioniero loro Imperatore, e l'insensibil figlio di Valeriane riconobbe perfino Odenato come suo collega legittimo.
A. D. 267
Dopo una felice spedizione contro i Goti, devastatori dell'Asia, il Principe di Palmira ritornò alla Città di Emesa nella Siria. Invincibile nella guerra, fu ivi ucciso per domestico tradimento, ed il suo favorito divertimento della caccia fu la cagione, o l'occasione almeno della sua morte56. Il suo nipote Meonio pretese di lanciare il suo dardo prima di quel dello zio; e benchè avvertito del fallo, ripetè la medesima insolenza. Fu Odenato irritato come Monarca e come cacciatore: tolse egli al temerario giovane il cavallo, segno d'ignominia tra i Barbari, e lo castigò con un breve confine. Fu presto dimenticata l'offesa, ma non il castigo; e Meonio con pochi arditi congiurati in mezzo ad una gran festa assassinò il suo zio. Erode, figlio di Odenato, benchè non di Zenobia, giovane di carattere dolce ed effemminato57 fu ucciso col padre. Ma Meonio altro non ottenne con questo sanguinoso misfatto, che il piacere di vendicarsi. Ebbe appena tempo di prendere il nome di Augusto, avanti che lo sacrificasse Zenobia alla memoria del suo consorte58.
Con l'assistenza de' suoi più fidi amici essa occupò immediatamente il trono vacante, e governò per più di cinque anni coi suoi virili consigli Palmira, la Siria e l'Oriente. Colla morte di Odenato spirava quell'autorità, che il Senato avea ad esso conceduta soltanto come una personal distinzione; ma la guerriera sua Vedova, disprezzando il Senato e Gallieno, costrinse uno de' Generali Romani, mandato contro di lei, a ritirarsi nell'Europa con la perdita dell'esercito e della sua fama59. In vece di piccole passioni, che agitano così spesso un regno femminile, la salda amministrazione di Zenobia era regolata dalle più giudiziose massime di politica: se era espediente il perdonare, sapeva essa colmare il suo risentimento: se necessario era punire sapeva impor silenzio alle voci della pietà. L'esatta sua economia tacciata fu di avarizia; pure in ogni conveniente occasione si mostrava e magnifica e liberale. I vicini Stati dell'Arabia, dell'Armenia e della Persia temerono la sua inimicizia, e domandarono la sua alleanza. Ai dominj di Odenato, che si estendevano dall'Eufrate alle frontiere della Bitinia, la di lui Vedova aggiunse l'eredità de' suoi antenati, il popolato e fertil regno d'Egitto. L'Imperator Claudio riconobbe il merito di lei, e si contentò, che mentre egli continuava la guerra Gotica, ella sostenesse l'onor dell'Impero in Oriente60. La condotta però di Zenobia fu accompagnata da qualche ambiguità; e non è improbabile, che concepito avesse il disegno di erigere una Monarchia indipendente e nemica. Ella unì alle popolari maniere dei Principi Romani la splendida pompa delle Corti dell'Asia, e pretese da' suoi sudditi le medesime adorazioni, che si prestavano ai successori di Ciro. Dette essa ai suoi figli61 un'educazione Latina, e spesso li presentò alle truppe ornati della Porpora Imperiale. Riservò per se stessa il diadema col magnifico, ma incerto, titolo di Regina dell'Oriente.
A. D. 272
Quando passò Aureliano nell'Asia contro un'avversaria, cui non altro che il sesso render poteva un oggetto di disprezzo, la sua presenza ridusse all'ubbidienza la provincia della Bitinia, già vacillante per le armi e per gl'intrighi di Zenobia62. Avanzandosi alla testa delle legioni egli ricevè la sommissione di Ancira, e pel tradimento di un perfido cittadino fu ammesso in Tiana dopo un assedio ostinato. Il generoso, benchè fiero carattere di Aureliano, abbandonò il traditore al furor dei soldati: una superstiziosa venerazione lo indusse a trattar con clemenza i concittadini del filosofo Apollonio63. Rimase Antiochia deserta al suo avvicinarsi, finchè l'Imperatore con salutevoli editti richiamò i fuggitivi, ed accordò un general perdono a tutti quelli, che per necessità piuttosto che per elezione si erano impegnati al servizio della Regina di Palmira. L'inaspettata moderazione di una tal condotta riconciliò gli animi dei Sirj, e fino alle porte di Emesa i voti dei popoli secondarono il terrore delle armi Imperiali64.
Sarebbe stata Zenobia indegna della sua rinomanza, se avesse indolentemente permesso all'Imperator d'Occidente di avvicinarsi dentro le cento miglia verso la sua Capitale. Il destino dell'Oriente fu deciso in due gran battaglie, tanto simili in quasi tutte le circostanze, che possiamo appena distinguere l'una dall'altra, fuorchè osservando, che la prima seguì vicino ad Antiochia65, e la seconda vicino ad Emesa66. In ambedue, la Regina di Palmira animò gli eserciti con la sua presenza, ed affidò l'esecuzione degli ordini suoi a Zabdas, che già segnalato avea i suoi talenti militari, con la conquista dell'Egitto. Le numerose forze di Zenobia consistevano per la maggior parte in arcieri leggieri ed in cavalleria grave, tutta armata di ferro. I cavalli Mori ed Illirici di Aureliano non poterono resistere all'urto gravissimo dei loro antagonisti. Fuggirono in un vero o simulato disordine; impegnarono i Palmireni in un faticoso inseguimento; gli stancarono con varie piccole scaramucce; e finalmente sconfissero quell'impenetrabile, ma poco agil corpo di cavalleria. L'infanteria leggiera frattanto, quando vote ebbe le faretre, restando senza difesa contro un più stretto assalto, espose i nudi fianchi alle spade delle legioni. Aureliano avea scelto queste truppe veterane ch'erano ordinariamente accampate sulle rive del Danubio superiore, ed il valor delle quali era stato severamente provato nella guerra Alemannica67. Fu impossibile a Zenobia, dopo la disfatta di Emesa, di radunare una terza armata. Fino alle frontiere dell'Egitto le nazioni soggette al suo Impero si erano poste sotto l'insegna del vincitore, che mandò Probo, il più valoroso dei suoi Generali, ad impadronirsi delle province egiziane. Palmira fu l'ultimo asilo della vedova di Odenato. Ritiratasi dentro le mura della sua Capitale, fece ogni preparativo per una vigorosa resistenza, e dichiarò con l'intrepidezza di una Eroina, che l'ultimo momento del suo regno lo sarebbe ancora della sua vita.
In mezzo agli sterili deserti dell'Arabia s'innalzano alcuni pochi pezzi di coltivati terreni, quasi isole di quell'Oceano arenoso. Il nome stesso di Tadmor, o Palmira, nella lingua siriaca e nella latina denotava una moltitudine di palme, che davano ombra e verdura a quella temperata regione. Pura era l'aria; ed il suolo, irrigato da alcuni piccoli ruscelli, era capace di produrre frutti e grano. Un luogo, fornito di vantaggi tanto singolari, e situato in giusta distanza68 tra il golfo Persico ed il Mediterraneo, fu presto frequentato dalle carovane, che portavano alle nazioni Europee una considerabil porzione delle ricche merci dell'India. Palmira divenne insensibilmente una doviziosa ed indipendente città, ed unendo le Monarchie dei Romani e dei Parti cogli scambievoli vantaggi del commercio, potè conservare un'umile indipendenza, finchè alla fine dopo le vittorie di Traiano cadde quella piccola Repubblica in poter di Roma, e fiorì per più di centocinquanta anni nell'onorifico, ma subordinato grado di colonia. Durante questo pacifico periodo, se giudicar si può da poche iscrizioni rimasteci, gli opulenti Palmireni costruirono quei tempj, quei palazzi, quei portici di greca architettura, le cui rovine, sparse per l'estensione di varie miglia, hanno meritata la curiosità dei nostri viaggiatori. Parve che l'esaltazione di Odenato e di Zenobia aggiungesse nuovo splendore alla sua patria, e Palmira per un tempo stette rivale di Roma: ma fu la gara fatale, e molti secoli di prosperità furono sacrificati ad un momento di gloria69.
Nella sua marcia sull'arenoso deserto tra Emesa e Palmira fu Aureliano continuamente infestato dagli Arabi, nè potè sempre difendere il suo esercito, e specialmente il suo bagaglio da quelle volanti truppe di ladri attivi ed arditi, i quali aspettavano il momento della sorpresa, e deludevano il lento perseguire delle legioni. L'assedio di Palmira fu un oggetto assai più pericoloso ed importante, e l'Imperatore istesso, che con continuo vigore animava in persona gli assalti, venne ferito da un dardo. «Il popolo Romano» (dice Aureliano in una lettera originale) «parla con disprezzo della guerra, che io sostengo contro una donna. Egli non conosce il carattere, nè la potenza di Zenobia. È impossibile di enumerare i suoi bellici preparativi di pietre, di dardi, e di ogni sorta di armi lanciabili. Ogni parte delle mura è munita di due o tre baliste, e dalle sue macchine militari escono fuochi artificiali. Il timor del castigo l'ha armata di un disperato coraggio. Pure io confido tuttavia nelle Deità protettrici di Roma, che sono finora state favorevoli ad ogni mia impresa70». Incerto però della protezione degli Dei e dell'esito dell'assedio, Aureliano stimò più prudente consiglio di offerire articoli di una vantaggiosa capitolazione; alla Regina, un magnifico ritiro; ai Cittadini, i loro antichi privilegi. Furono rigettate ostinatamente le sue offerte, e dall'insulto fu accompagnato il rifiuto.
La costanza di Zenobia era sostenuta dalla speranza, che in breve la fame costringerebbe l'esercito Romano a ripassare il deserto; e dalla ragionevole aspettativa, che i Re dell'Oriente, e specialmente il Monarca Persiano, si armerebbero in difesa della loro più naturale alleata. Ma la fortuna e la perseveranza di Aureliano superarono ogni ostacolo. La morte di Sapore, che accadde verso quel tempo71, divise i Consigli della Persia, ed i piccoli soccorsi, co' quali si tentò di sollevare Palmira, furono facilmente intercetti o dalle armi, o dalla liberalità dell'Imperatore. Da ogni parte della Siria, una regolar successione di convogli arrivava sicuramente al campo, che fu aumentato pel ritorno di Probo colle vittoriose sue truppe dalla conquista dell'Egitto. Allora fu che Zenobia risolvè di fuggire. Montò essa sul più veloce de' suoi dromedari72, ed era ormai giunta alle rive dell'Eufrate, quasi sessanta miglia da Palmira, quando fu sopraggiunta dai cavalli leggieri di Aureliano, che l'inseguivano, e presa e ricondotta indietro cattiva ai piedi dell'Imperatore. Subito dopo si arrese la sua Capitale, e fu trattata con inaspettata dolcezza. Le armi, i cavalli e i cammelli, con un immenso tesoro di oro, di argento, di seta e di pietre preziose, tutto fu dato al vincitore, che lasciando solamente una guarnigione di seicento arcieri, ritornò ad Emesa, ed impiegò qualche tempo in distribuire e premj e castighi nel fine di una guerra sì memorabile, la quale restituiva all'ubbidienza di Roma quelle Province, che fino dalla prigionia di Valeriano se n'eran sottratte.
Quando la Regina della Siria fu condotta alla presenza di Aureliano, questi le domandò fieramente, come avesse preteso di armarsi contro gl'Imperatori di Roma? La risposta di Zenobia fu una prudente mescolanza di rispetto e di fermezza. «Perché io sdegnava di riguardare un Aureolo, ed un Gallieno come Imperatori Romani. Riconosco voi solo per mio vincitore e Sovrano73». Ma siccome la fortezza nelle femmine è comunemente artificiale, così rare volte è stabile e consistente. Il coraggio di Zenobia la abbandonò nell'ora del cimento, ella tremò ai rabbiosi clamori de' soldati, che alto chiedevan l'immediata sua morte, obbliò la generosa disperazione di Cleopatra, che si era proposta per suo modello, ed ignominiosamente comprò la vita col sacrifizio della sua fama e dei suoi amici. Ai loro consigli, che governavano la debolezza del suo sesso, essa imputò la colpa dell'ostinata sua resistenza, e sopra le loro teste cader fece la vendetta del crudele Aureliano. La fama di Longino, che fu incluso tra le numerose, e forse innocenti vittime del di lei timore, sopravviverà a quella della Regina, che lo tradì, o del tiranno che lo condannò. La dottrina e l'ingegno erano incapaci di muovere un feroce ed ignorante soldato, ma aveano servito ad elevare ed armonizzare l'animo di Longino. Senza mandare un gemito, seguì egli tranquillamente il carnefice, compiangendo la sua infelice Sovrana, e consolando gli afflitti suoi amici74.
Nel ritornare dalla conquista dell'Oriente, avea Aureliano già attraversato lo Stretto che divide l'Europa dall'Asia, quando fu irritato dalla notizia che i cittadini di Palmira aveano trucidato il Governatore e la guarnigione da esso ivi lasciata, ed inalberata di nuovo l'insegna della ribellione. Senza deliberare un momento egli volse un'altra volta la faccia verso la Siria. Antiochia fu spaventata dalla rapida di lui marcia, e la misera città di Palmira provò l'irresistibile peso del suo risentimento. Abbiamo una lettera di Aureliano medesimo, nella quale egli confessa75, che i vecchi, le donne, i fanciulli e gli agricoltori furono involti in quella terribile esecuzione, la quale avrebbe dovuto ristringersi ai soli armati ribelli; e benchè il suo principale interesse sembri diretto al ristauramento di un tempio del Sole, egli mostra qualche compassione pel rimanente dei Palmireni, ai quali concede la permissione di rifabbricare ed abitare la loro città. Ma è più facile distruggere che ristaurare. La sede del commercio, delle arti, e di Zenobia, divenne a poco a poco un'oscura città, una Fortezza di niun conto, e finalmente un miserabil villaggio. Gli attuali cittadini di Palmira, consistenti in trenta o quaranta famiglie, hanno eretto le fangose loro capanne dentro lo spazioso recinto di un magnifico Tempio.
Un'altra ed ultima fatica si preparava all'instancabile Aureliano, di opprimer cioè un pericoloso, benchè oscuro ribelle, che, durante la sollevazion di Palmira, era insorto sulle rive del Nilo. Fermo, amico ed alleato, com'egli stesso superbamente s'intitolava, di Odenato e Zenobia, altro non era che un ricco mercante dell'Egitto. Nel corso del suo commercio nell'India, egli avea stretto amicizia coi Saraceni e coi Blemmi, la cui situazione sull'una e l'altra costa del mar Rosso porgeva loro una facile introduzione nell'Egitto superiore. Egli infiammò gli Egiziani con la speranza della libertà; ed alla testa di quella furiosa moltitudine entrò a forza nella città di Alessandria, dove prese la Porpora Imperiale, fece batter moneta, pubblicò editti, e levò un'armata, che com'egli vanamente vantavasi, potea mantenere col solo profitto del commercio della carta. Tali truppe furono una debol difesa contro Aureliano; e sembra quasi inutile di riferire che Fermo fu sconfitto, preso, tormentato e posto a morte. Poteva allora Aureliano rallegrarsi col Senato, col popolo e con sè stesso, che in poco più di tre anni avea restituito la pace e l'ordine universale al mondo Romano76.
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Dalla fondazione di Roma in poi, niun Generale avea più degnamente di Aureliano meritato un trionfo; nè mai trionfo alcuno fu celebrato con maggior fasto e magnificenza77. Cominciava la pompa con venti elefanti, quattro tigri reali e più di dugento de' più curiosi animali di ogni clima del Settentrione, dell'Oriente e del Mezzogiorno. Erano questi seguitati da milleseicento gladiatori, destinati al crudel divertimento dell'anfiteatro. Le ricchezze dell'Asia, le armi e le insegne di tante vinte nazioni, e la magnifica argenteria e guardaroba della Regina della Siria eran disposte in esatta simmetria o con artificioso disordine. Gli Ambasciatori delle più lontane parti della terra, dell'Etiopia, dell'Arabia, della Persia, della Battriana, dell'India e della China, tutti riguardevoli per i loro ricchi o singolari vestimenti, mostravano la fama e la potenza del Romano Imperatore, che espose parimente alla pubblica vista i doni da lui ricevuti, e particolarmente un gran numero di corone d'oro, offerte dalle riconoscenti città. Le vittorie di Aureliano erano attestate dal lungo treno di schiavi Goti, Vandali, Sarmati, Alemanni, Franchi, Galli, Sirj ed Egizj, che lor malgrado ne seguitavano il trionfo. Ogni popolo era distinto colla sua particolare iscrizione, ed il titolo di Amazzoni fu dato a dieci marziali Eroine della nazione Gotica, che prese furon con le armi in mano78. Ma tutti gli occhi, senza curare la moltitudine dei prigionieri, erano fissi sull'Imperator Tetrico, e sulla Regina dell'Oriente. Il primo, insieme col suo figliuolo da lui creato Augusto, portava delle bracche all'uso dei Galli79, una tunica gialla ed una veste di porpora. La bella Zenobia era avvinta da ceppi d'oro; una schiava sosteneva l'aurea catena, che circondava il di lei collo, ed ella quasi sveniva sotto l'intollerabil peso dei gioielli. Essa precedeva a piedi il magnifico cocchio, sul quale aveva sperato una volta di entrare nelle porte di Roma. Era questo seguito da due altri cocchi, ancor più magnifici, di Odenato e del Monarca Persiano. Il carro trionfale di Aureliano (avea questo per l'avanti servito ad un Re Goto) era tirato in quella memorabile occasione o da quattro cervi o da quattro elefanti80. I più illustri fra i Senatori, il popolo e l'esercito chiudevano la processione solenne. Una sincera gioia, la maraviglia e la gratitudine aumentavano le acclamazioni della moltitudine; ma la soddisfazione dei Senatori era amareggiata della comparsa di Tetrico; nè poterono impedire un mormorio, in vedere che il superbo Imperatore esponesse così alla pubblica ignominia la persona di un Romano e di un Magistrato81.
Ma benchè, nel trattamento de' suoi infelici rivali, soddisfacesse Aureliano la propria superbia, mostrò per essi tuttavia una generosa clemenza, raramente esercitata dagli antichi vincitori. I Principi, che con infelice successo aveano difeso il lor trono, o la lor libertà, erano sovente strangolati in prigione, subito che la pompa trionfale saliva sul Campidoglio. A questi usurpatori, la cui disfatta gli avea convinti del delitto di tradimento, fu permesso di passare la vita nell'opulenza, ed in un onorevol riposo. L'Imperatore regalò a Zenobia una bellissima villa a Tibure ovvero Tivoli, lontana quasi venti miglia dalla Capitale; la Regina della Siria divenne a poco a poco una Matrona Romana; le figliuole di lei si maritarono con persone di famiglie nobili, e la sua discendenza non era ancora estinta nel quinto secolo82. Tetrico ed il suo figliuolo furono ristabiliti nel loro grado e nei loro beni. Eressero sul Monte Celio un magnifico palazzo, ed appena fu terminato, invitarono a cena Aureliano. Fu egli al suo ingresso dilettevolmente sorpreso da un quadro rappresentante la loro singolare istoria. Erano essi dipinti, prima in atto di offrire all'Imperatore una corona civica e lo scettro della Gallia, e di poi in atto di ricever dalle mani di lui gli ornamenti della Dignità Senatoria. Ebbe quindi il padre il governo della Lucania83, ed Aureliano, che presto ammesse il deposto Monarca alla sua amicizia e conversazione, familiarmente gli domandò, se non era più desiderabile l'amministrare una Provincia dell'Italia, che il regnare di là dall'Alpi? Il figliuolo continuò lungamente ad essere un rispettabil membro del Senato; nè vi fu alcuno tra la Nobiltà Romana più stimato da Aureliano, e dai successori di lui84.
La pompa del trionfo di Aureliano fu così lunga e sì varia, che quantunque cominciasse all'alba, pure la lenta maestà della processione non salì sul Campidoglio prima dell'ora nona; ed era ormai sera quando tornò l'Imperatore al palazzo. La festa fu allungata con teatrali rappresentanze, i giuochi del Circo, la caccia delle fiere, i combattimenti dei gladiatori, e le battaglie navali. Furono all'esercito ed al popolo distribuiti liberali donativi; e varie istituzioni, o grate o utili alla città, contribuirono a perpetuare la gloria di Aureliano. Una considerabil porzione delle sue spoglie Orientali fu consacrata agli Dei di Roma; il Campidoglio, ed ogni altro tempio rilucevano per le offerte della sua fastosa pietà; e il solo tempio del Sole ricevè quasi quindicimila libbre di oro85. Quest'ultimo era d'una magnifica struttura, eretto dall'Imperatore sulla falda del Monte Quirinale, e dedicato, subito dopo il trionfo, a quel Nume, che Aureliano adorava come padre della sua vita e delle sue fortune. La madre di lui era stata una sacerdotessa inferiore in una cappella del Sole: una particolar devozione al Dio della Luce era un sentimento imbevuto, fin dall'infanzia, dal fortunato Agricoltore; ed ogni passo della sua elevazione, ogni vittoria del suo regno avvalorava la superstizione con la gratitudine86.
Le armi di Aureliano aveano vinto gli stranieri e i domestici nemici della Repubblica. Siamo assicurati, che con il suo salutevol rigore, i misfatti e le fazioni, le male arti e la perniciosa connivenza, fecondi germogli di un debole ed oppressivo governo, furono estirpati da tutto il mondo Romano87. Ma se riflettiamo attentamente quanto più pronto è il progresso della corruzione, che la guarigione di essa, e se rammentiamo che il numero degli anni, abbandonati ai pubblici disordini, superava quello dei mesi destinati al marzial regno di Aureliano, dobbiam confessare che non bastavano pochi corti intervalli di pace per l'arduo lavoro di una riforma. Il suo tentativo, perfino di ristabilire la bontà della moneta, fu traversato da una formidabile sollevazione. Si scopre l'angustia dell'Imperatore in una delle sue private lettere. «Certamente» (dic'egli) «gli Dei han decretato che la mia vita sia una guerra continua. Una sedizione dentro le mura ha fatto nascere appunto adesso una guerra civile molto seria. Gli artefici della zecca, ad istigazione di Felicissimo, schiavo a cui ho affidato un impiego nelle Finanze, si mossero a ribellione. Son finalmente sedati: ma caddero uccisi nei conflitto settemila dei miei soldati, di quelle truppe, che stanno ordinariamente a quartiere nella Dacia, ed accampate lungo il Danubio88.» Altri Scrittori, i quali confermano il medesimo fatto, aggiungono altresì che questo accadde subito dopo il trionfo di Aureliano; che la decisiva zuffa seguì sul Monte Celio; che i lavoranti della zecca aveano adulterata la moneta; che l'Imperatore ristabilì la pubblica fede, col dare moneta buona in cambio della cattiva, cui il popolo fu obbligato di portar al tesoro89.
Potremmo contentarci di riferire questo straordinario fatto, ma non possiamo dissimulare quanto nella presente sua forma ci sembra insussistente e incredibile; La deteriorazione della moneta è, per vero dire, convenientissima all'amministrazione di Gallieno, nè improbabile sembra che gli strumenti della corruzione paventassero l'inflessibil giustizia di Aureliano. Ma la colpa, come il profitto, dovea restringersi a pochi, nè facile è il concepire con quali arti potevano armare un popolo da loro offeso, contro un Monarca da loro tradito. Dovrebbe naturalmente aspettarsi che questi traditori incorressero la pubblica detestazione, come i delatori e gli altri ministri della oppressione; e che la riforma della moneta fosse un'azione ugualmente popolare che la distruzione di quegli antichi conti, che furono per ordine dell'Imperatore bruciati nel Foro di Traiano90. In un secolo, nel quale i principj del commercio erano così imperfettamente conosciuti, il fine più desiderabile potea forse ottenersi con mezzi rigorosi e imprudenti; ma un passeggiero gravame di tal natura può appena eccitare e mantenere una seria guerra civile. Il rinnovamento di tasse insopportabili, imposte o su i terreni o su i generi necessari alla vita, può finalmente concitare quelli che o non vogliono o non possono abbandonare la patria. Ma il caso è molto diverso in ogni operazione, che per qualsivoglia mezzo ristabilisce il giusto valore della moneta. Il male passeggiero è presto dimenticato per l'utile permanente, lo scapito va diviso fra molti; e se pochi opulenti individui soffrono una sensibil diminuzione di ricchezze, perdono insieme con queste quel grado di peso e d'importanza, che traevano dal possedimento delle medesime. In qualunque maniera volesse Aureliano nascondere la vera causa della ribellione, la sua riforma della moneta poteva fornire solamente un debol pretesto ad un già potente e malcontento partito. Roma, benchè priva della libertà, era lacerata dalle fazioni. Il popolo, per cui l'Imperatore, plebeo egli stesso, sempre professava una particolar tenerezza, viveva in continue dissensioni col Senato, coll'Ordine Equestre, e coi Pretoriani91. Niente meno che la ferma, benchè segreta congiura di questi ordini, dell'autorità del primo, dell'opulenza del secondo, e delle armi dei terzi, avrebbe potuto spiegare una forza bastante per contendere in battaglia con le veterane legioni del Danubio, che sotto la condotta di un Sovrano guerriero aveano compita la conquista dell'Oriente e dell'Occidente.
Qualunque fosse il motivo o l'oggetto di questa sollevazione, imputata con tanto poca probabilità ai lavoranti della zecca, Aureliano usò della sua vittoria con implacabil rigore92. Egli era naturalmente di temperamento severo. Le fibre di un contadino o d'un soldato non cedeano facilmente alle impressioni della pietà, ed egli potea senza commuoversi sostenere la vista dei tormenti e della morte. Allevato dalla prima sua gioventù nell'esercizio delle armi, egli valutava troppo poco la vita di un cittadino, castigava con militari esecuzioni le più leggiere offese, e portava la rigida disciplina del campo nella civile amministrazione delle leggi. Il suo amore della giustizia divenne sovente una cieca e furiosa passione; ed ogni volta ch'egli credè in pericolo la pubblica o la propria salvezza, non ebbe riguardo alle regole delle prove, ed alla proporzion delle pene. La non meritata ribellione, con la quale i Romani ricompensavano i di lui servigi, esacerbò l'altero suo animo. Le più nobili famiglie della Capitale furono involte nella colpa o nel sospetto di quella oscura cospirazione. Un precipitoso spirito di vendetta affrettò la sanguinosa persecuzione, e divenne fatale ad uno dei nipoti dell'Imperatore medesimo. Gli esecutori (per adoprare l'espressione di un contemporaneo Poeta) erano stanchi, i prigionieri affollati dentro le carceri, e l'infelice Senato deplorava la morte o l'assenza dei suoi membri più riguardevoli93. Nè la superbia di Aureliano fu meno dannosa della sua crudeltà per quella assemblea. Non conoscendo o non soffrendo il freno delle civili instituzioni, sdegnò di dovere la sua autorità ad alcun altro titolo che a quello della spada, e governò col diritto di conquista un Impero da lui salvato e soggiogato94.
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Osservò uno dei più sagaci Principi di Roma, che i talenti del suo predecessore Aureliano erano più atti al comando di un esercito che al governo di un Impero95. Conoscendo il carattere nel quale la natura e l'esperienza lo avean renduto eccellente, escì in campo di nuovo, pochi mesi dopo il suo trionfo. Era espediente di occupare gli animi inquieti delle legioni in qualche guerra straniera, ed il persiano Monarca, esultando nella vergogna di Valeriano, insultava tuttavia impunemente l'offesa maestà di Roma. Alla testa di un esercito, meno formidabile pel suo numero che per la disciplina e pel valore, si avanzò Aureliano fino allo Stretto, che divide l'Europa dall'Asia. Egli colà provò che il più assoluto potere è una debol difesa contro gli effetti della disperazione. Avea minacciato uno dei suoi segretari, accusato di estorsione; e già si sapeva che di rado egli minacciava invano. L'ultima speranza, che rimase al colpevole, fu di avvolgere alcuni dei principali Uffiziali dell'esercito nel suo pericolo, o almeno ne' suoi timori. Artificiosamente contraffacendo lo scritto del suo Sovrano, mostrò loro in una lunga e sanguinosa lista i loro nomi consacrati alla morte. Senza sospettare o esaminare la frode, eglino risolverono di assicurar le loro vite con l'uccisione dell'Imperatore. Nella sua marcia, tra Bisanzio ed Eraclea, fu Aureliano improvvisamente assalito dai congiurati, l'impiego dei quali dava loro il diritto di circondare la persona di lui; e dopo una breve resistenza cadde per le mani di Mucapore, Generale ch'egli avea sempre amato e riputato fedele. Egli morì pianto dall'esercito, detestato dal Senato, ma universalmente riconosciuto come un Principe guerriero e fortunato, e come il salutevole, benchè severo, riformatore di un degenerato impero96.
La condizione degl'Imperatori Romani era tanto infelice, che qualunque si fosse la loro condotta, incontravano ordinariamente il medesimo fato. La vita dissoluta o virtuosa, severa o indulgente, indolente o gloriosa, menava egualmente ad un intempestivo sepolcro; e quasi ogni regno finisce con la stessa disgustosa ripetizione di tradimenti e di stragi. La morte di Aureliano, per altro, è considerabile per le straordinarie sue conseguenze. Le legioni ammirarono, piansero, e vendicarono il vittorioso lor condottiere. L'artifizio del perfido di lui segretario fu discoperto e punito. I cospiratori delusi seguirono le funerali esequie del loro oltraggiato Sovrano con sincero, o ben simulato pentimento, e si sottomisero all'unanime risoluzione dell'ordine militare, la quale fu significata con la seguente lettera. «I valorosi e felici eserciti al Senato ed al Popolo di Roma. Il delitto di un solo e il fallo di molti ci hanno privato dell'ultimo Imperatore Aureliano. Compiacetevi, venerabili Signori e Padri, di collocarlo nel numero degli Dei, e d'indicarci quel successore, che voi giudicherete degno della Porpora Imperiale. Niuno di quelli, che, o per colpa o per caso, hanno contribuito alla nostra perdita, regnerà mai sopra di noi97.» I Senatori Romani udirono senza sorpresa, che un altro Imperatore era stato assassinato nel suo campo; si rallegrarono internamente della caduta di Aureliano; ma la modesta e rispettosa lettera delle legioni, quando fu dal Console comunicata alla piena assemblea, riempì tutti della più grata sorpresa. Essi liberamente largirono alla memoria del loro estinto Sovrano quegli onori, che il timore e forse la stima avrebbero estorti. Renderono alle fedeli armate della Repubblica, che conservavano un sentimento sì giusto della legittima autorità del Senato nella scelta d'un Imperatore, quei ringraziamenti, che la gratitudine potea inspirare. Ma non ostante questo invito sì lusinghiero, i più savj dell'assemblea evitarono di esporre al capriccio di una moltitudine armata la lor salvezza e la lor dignità. La forza delle legioni era, per vero dire, un pegno della loro sincerità, perchè quelli che possono comandare, di rado sono ridotti alla necessità d'infingere; ma poteva egli naturalmente sperarsi, che un improvviso pentimento correggesse l'inveterato costume d'interi ottant'anni? Se fossero ricaduti i soldati nelle loro solite sedizioni, la loro insolenza poteva disonorare la maestà del Senato, e divenir fatale alla scelta di lui. Simili motivi dettarono un decreto, col quale l'elezione del nuovo Imperatore si rimetteva ai suffragi dell'ordine militare.
La contesa, che quindi nacque, è uno dei più attestati, ma meno verisimili, eventi della storia del Genere Umano98. Le truppe, quasi fossero stanche di esercitare la lor forza, fecero nuovamente le loro istanze al Senato, perchè rivestisse della Porpora Imperiale uno del suo proprio corpo. Il Senato persistè sempre nel suo rifiuto, e l'esercito nella sua richiesta. La proposizione fu almen per tre volte scambievolmente offerta e ricusata, e mentre l'ostinata modestia di ciascheduna delle due parti era risoluta di ricevere un Sovrano dalle mani dell'altra, passarono insensibilmente otto mesi: mirabil periodo di tranquilla anarchia, durante il quale il mondo Romano rimase senza un sovrano, senza un usurpatore, e senza pure una sedizione. I Generali ed i Magistrati eletti da Aureliano continuarono ad esercitare le ordinarie loro funzioni, e si osserva che un Proconsole dell'Asia fu la sola riguardevol persona, rimossa dalla sua carica in tutto il corso dell'interregno.
Un quasi simile, ma molto meno autentico, avvenimento si suppone accaduto dopo la morte di Romolo, nella vita e nel carattere del quale si ritrova qualche somiglianza con Aureliano. Il trono restò vacante per dodici mesi, sino all'elezione di un filosofo Sabino; e la pubblica tranquillità si mantenne nel modo istesso, per l'unione dei diversi ordini dello Stato. Ma nei tempi di Numa e di Romolo, l'autorità dei Patrizj teneva a freno le armi del popolo; e facilmente si conservava in una società virtuosa e ristretta la bilancia della libertà99. L'Impero Romano nella sua declinazione, molto diverso dalla sua infanzia, si trovava in tutte quelle circostanze, che potevano allontanare da un interregno la speranza dell'ubbidienza e dell'armonia; e queste circostanze erano una Capitale immensa e tumultuosa, una vasta estensione di dominio, la servile eguaglianza del dispotismo, un'armata di quattrocentomila mercenari, e l'esperienza delle frequenti rivoluzioni. Ma non ostanti tutti questi incentivi, la disciplina e la memoria di Aureliano contennero tuttavia la sediziosa indole delle truppe, non meno che la dannosa ambizione de' lor condottieri. Il fiore delle legioni rimase accampato sulle rive del Bosforo, e l'insegna Imperiale mettea rispetto ai meno potenti campi di Roma e delle Province. L'ordine militare parve animato da un generoso benchè passeggiero entusiasmo; ed è credibile che i pochi veri patriotti coltivassero la rinascente amicizia tra l'esercito ed il Senato, come l'unico espediente capace di ristabilir la Repubblica nella sua primiera bellezza e nell'antico vigore.
Ai venticinque di Settembre, quasi otto mesi dopo l'uccisione di Aureliano, il Console adunò il Senato, e riferì l'incerta e pericolosa situazione dell'Impero. Insinuò leggiermente, che la precaria fedeltà dei soldati dipendeva da un solo istante e dal minimo accidente; ma rappresentò con la più convincente eloquenza i vari pericoli che seguitar potevano ogni ulterior dilazione nella scelta di un Imperatore. Si erano, diceva egli, già ricevute notizie, che i Germani aveano passato il Reno, ed occupate alcune delle più forti e più opulente città della Gallia. L'ambizione del Monarca Persiano teneva l'Oriente in continui timori: l'Egitto, l'Affrica e l'Illirico erano esposti all'armi straniere e domestiche, e la Siria incostante avrebbe fin preferito lo scettro di una femmina alla santità delle leggi Romane. Rivoltosi quindi il Console a Tacito, il primo tra i Senatori100, richiese il parere di lui sull'importante oggetto di un candidato degno del trono vacante.
Se il merito personale è da preferirsi ad una casuale grandezza, stimeremo l'origine di Tacito più nobile veramente di quella dei Re. Vantava egli la sua discendenza da quello Storico filosofico, i cui scritti istruiranno ancora le ultime generazioni degli uomini101. Il Senatore Tacito era nell'età di settantacinque anni102. Le ricchezze e gli onori adornavano il lungo corso della innocente sua vita. Avea due volte occupata la dignità consolare103, e godeva con eleganza e sobrietà l'ampio suo patrimonio fra i quattro e i sei milioni di zecchini104. L'esempio di tanti Principi da lui o stimati o sofferti, dalle vane follie di Elagabalo fino all'utile rigore di Aureliano, lo aveano ammaestrato a valutar giustamente i doveri, i pericoli, e le tentazioni di quel sublime lor grado. All'assiduo studio del suo immortale antenato egli doveva la conoscenza della Romana costituzione e dell'umana natura. La voce del popolo avea già nominato Tacito come il cittadino più degno dell'Impero105. Giunto ai suoi orecchi questo ingrato rumore, lo indusse a ritirarsi in una delle sue ville nella Campania. Avea egli passato a Baia due mesi in una tranquillità deliziosa, quando con ripugnanza ubbidì ai comandi del Console di riprendere l'onorevol suo posto nel Senato, e di assistere co' suoi consigli la Repubblica in tale importante occasione.
Si alzò Tacito per parlare, quando da ogni lato dell'assemblea fu salutato coi nomi di Augusto e d'Imperatore. «Tacito Augusto, gli Dei ti conservino: noi ti eleggiamo per nostro Sovrano, affidando alla tua cura la Repubblica, e il Mondo. Accetta l'Impero dall'autorità del Senato. Esso è dovuto al tuo grado, alla tua condotta, ai tuoi costumi.» Calmato appena il tumulto delle acclamazioni, Tacito tentò di evitare il pericoloso onore, e di esprimere la sua sorpresa, che si eleggesse un uomo vecchio ed infermo per succedere al marzial vigore di Aureliano. «Sono elleno membra queste, Padri coscritti, atte a sostener il peso dell'armi, o ad eseguire gli esercizi del campo? La varietà dei climi, e le asprezze della vita militare presto opprimerebbero un debol temperamento, che si mantien solamente col più delicato riguardo. Bastano appena l'esauste mie forze a soddisfare ai doveri di Senatore: quanto insufficienti sarebbero per le ardue fatiche della guerra e del governo! Potete voi sperare che le legioni rispettino un debol vecchio, che ha passati i suoi giorni all'ombra della pace e del ritiro? Vorreste voi ch'io dovessi una volta piangere la favorevole opinion del Senato?106»
La ripugnanza di Tacito, che forse era ingenua, fu combattuta dalla affettuosa ostinazione del Senato. Cinquecento voci ripeterono unite con eloquente confusione, che i Principi più grandi di Roma, Numa, Traiano, Adriano, e gli Antonini, erano ascesi al trono in età molto avanzata, che l'oggetto della loro scelta era lo spirito, non il corpo, il Sovrano, non il soldato, e solamente esigevano da lui, che con la sua prudenza regolasse il valore delle legioni. Queste pressanti e tumultuose istanze furono secondate da un più regolar discorso di Mezio Falconio, che accanto a Tacito sedeva tra i Consolari. Egli rammentò all'assemblea i mali, che Roma avea sofferti dai vizi degl'indocili e capricciosi giovani Principi, si congratulò col Senato per l'elezione di un virtuoso e sperimentato Senatore, e con maschia, ma forse interessata, libertà esortò Tacito a rammentarsi i motivi del suo innalzamento, ed a scegliersi un successore non nella sua propria famiglia, ma nella Repubblica. Fu il discorso di Falconio avvalorato da una generale acclamazione. L'eletto Imperatore si sottomise all'autorità della sua patria, e ricevè il volontario omaggio de' suoi compagni. La condotta del Senato fu confermata dal consenso del Popolo Romano e dei Pretoriani107.
Il governo di Tacito non fu diverso dalla passata sua vita e da' suoi principj. Creatura riconoscente del Senato, egli considerò quel Concilio della Nazione come autore delle leggi, e sè medesimo come soggetto all'autorità di quelle108. Procurò di saldare le molte ferite, che l'orgoglio Imperiale, la discordia civile e la violenza militare aveano portate alla costituzione, e di ristabilire almeno l'immagine dell'antica Repubblica, com'era stata conservata dalla politica di Augusto, e dalle virtù di Traiano e degli Antonini. Non sarà inutile di enumerare alcune delle più importanti prerogative, che parve aver ricuperate il Senato per l'elezione di Tacito109. I. Di affidare ad uno dei suoi membri, sotto il titolo d'Imperatore, il general comando degli eserciti, ed il governo delle Province di frontiera. II. Di fissare la lista o, come allor si chiamava, il Collegio dei Consoli. Questi erano dodici, che, succedentisi a due a due per ogni bimestre, rappresentavano per tutto l'anno la dignità di quell'antica magistratura. Esercitava il Senato nella scelta dei Consoli la sua autorità con una libertà così indipendente, che non ebbe alcun riguardo ad una irregolar istanza dell'Imperatore pel suo fratello Floriano. «Il Senato» (esclamò Tacito con un nobil trasporto da cittadino) «conosce il carattere di quel Principe, ch'egli ha scelto.» III. Di destinare i Proconsoli ed i Presidenti delle Province, e di conferire a tutti i Magistrati la loro civile giurisdizione. IV. Di ricever gli appelli per l'uffizio intermedio del Prefetto della Città da tutti i tribunali dell'Impero. V. Di dar forza e validità coi suoi decreti agli editti Imperiali ch'esso approvava. VI. A questi diversi rami di autorità si può aggiungere qualche sopraintendenza alle finanze, giacchè anche sotto la severa dominazion di Aureliano aveva il Senato la facoltà d'impiegare in altr'uso una parte dell'entrate, destinate al servizio pubblico110.
Furono immediatamente spedite lettere circolari a tutte le principali città dell'Impero, Treveri, Milano, Aquileia, Tessalonica, Corinto, Atene, Antiochia, Alessandria, e Cartagine, per esigere la loro ubbidienza, ed informarle della felice rivoluzione, che avea restituita al Senato Romano l'antica sua dignità. Due di queste lettere si conservano ancora. Abbiamo altresì due ben singolari frammenti della privata corrispondenza dei Senatori in questa occasione. Mostrano la più eccessiva gioia, e le più illimitate speranze. «Ponete giù la vostra indolenza» (così scrive uno dei Senatori al suo amico) «ed uscite dal vostro ritiro di Baia e di Pozzuolo. Restituitevi alla Città ed al Senato. Roma fiorisce, e tutta insieme fiorisce la Repubblica. Grazie al romano esercito, veramente Romano, abbiam finalmente ricuperata la nostra giusta autorità, lo scopo di tutti i nostri desiderj. Noi riceviamo gli appelli, destiniamo i Proconsoli, facciamo gl'Imperatori; forse ancora noi li potremo tenere in freno: all'uomo saggio una parola è bastante.111» Restarono per altro sconcertate ben presto queste alte speranze, nè di fatto era possibile, che le armate, e le province lungamente ubbidissero all'imbelle ed effeminata nobiltà romana. Al più leggiero urto rimase atterrato il mal sostenuto edifizio della loro ambizione e del loro potere. La spirante autorità del Senato mandò una subita luce, balenò per un momento, e si estinse per sempre.
Ma tutto ciò ch'era accaduto in Roma, non sarebbe stato che una rappresentazione teatrale, se non veniva ratificato dalla forza più reale delle legioni. Lasciando godere ai Senatori il loro fantasma di libertà e di ambizione, andò Tacito al campo di Tracia, ed ivi fu dal Prefetto del Pretorio presentato alle truppe adunate, come il Principe da loro richiesto, e dal Senato concesso. Appena tacque il Prefetto, che l'Imperatore parlò ai soldati con eloquenza e con dignità. Soddisfece alla loro avarizia con una liberale distribuzion di danaro, sotto nome di paga e di donativo. Egli acquistò la stima loro con un'animosa dichiarazione che sebbene la sua età lo rendesse inabile alle imprese militari, pure i suoi consigli non sarebbero indegni di un Generale Romano, del successore del valoroso Aureliano112.
Nel tempo che quest'Imperatore faceva preparativi per una seconda spedizione in Oriente, egli aveva trattato con gli Alani, popoli della Scizia, i quali avevano piantate le loro tende nelle vicinanze della Palude Meotide. Quei Barbari, allettati con promesse di doni e di sussidj, si erano obbligati d'invadere la Persia con un numeroso corpo di cavalleria leggiera. Furono essi fedeli al loro impegno; ma quando giunsero alla frontiera Romana, era già morto Aureliano, il progetto della guerra Persiana era almeno sospeso, ed i Generali, che, durante l'interregno, esercitavano un incerto potere, non erano preparati nè a riceverli, nè ad arrestarli. Provocati da un tal contegno, ch'essi riguardavano come perfido e vile, ricorsero gli Alani al loro proprio valore per avere e paga e vendetta; e marciando con la solita celerità dei Tartari, presto si sparsero per le Province del Ponto, della Cappadocia, della Cilicia, e della Galazia. Le legioni, che dalle opposta rive del Bosforo potevan quasi discernere le fiamme delle città e dei villaggi, stimolavan con impazienza il lor Generale a condurle contro quegli invasori. Tacito si diportò convenientemente alla sua età ed alla sua posizione. Mostrò chiaramente ai Barbari la fedeltà e la potenza dell'Impero. Gran parte degli Alani, pacificati dalla puntuale soddisfazione degl'impegni, che avea con essi contratti Aureliano, renderono il loro bottino ed i prigionieri, e quietamente si ritirarono nei loro deserti di là dal Fasi. Agli altri, che ricusarono la pace, fece il Romano Imperatore in persona con buon successo la guerra. Secondato da un esercito di valorosi ed esperti veterani, ei liberò in poche settimane le Province dell'Asia dal terrore della invasion degli Sciti113.
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Ma la gloria e la vita di Tacito furono di poca durata. Trasportato nel colmo del verno dalla dolce solitudine della Campania ai piedi del monte Caucaso, fu egli oppresso dagl'insoliti travagli di una vita militare. Le cure dell'animo aggravarono le fatiche del corpo. L'entusiasmo della pubblica virtù avea per un tempo sedate le feroci ed interessate passioni dei soldati. Scoppiarono queste ben presto con raddoppiata violenza, ed infuriarono nel campo e nella tenda perfino del vecchio Imperatore. Il suo dolce e moderato carattere non serviva che ad inspirare disprezzo, ed egli era continuamente tormentato dalle fazioni, che sedar non poteva, e da richieste impossibili a soddisfarsi. Non ostanti le lusinghiere speranze che Tacito avea concepite di rimediare ai pubblici disordini, egli fu presto convinto, che la sfrenatezza dell'esercito deprezzava il debol ritegno delle leggi; e il dolore di veder volti in male i suoi disegni, unito all'altre angustie, affrettò gli ultimi suoi momenti. Si dubita se i soldati imbrattassero le loro mani nel sangue di questo innocente Principe114; ma è certo però, che la loro insolenza cagionò la morte di lui. Egli spirò a Tiana nella Cappadocia, dopo un regno di soli sei mesi e quasi venti giorni115.
Tacito avea chiusi appena gli occhi, che il suo fratello Floriano si mostrò indegno del trono colla frettolosa usurpazione della Porpora, senza aspettare l'approvazion del Senato. Il rispetto per la Romana costituzione, che tuttavia influiva nelle armate o nelle Province, era abbastanza forte per disporle a biasimare la precipitosa ambizione di Floriano, ma non per incitarle ad opporvisi. Sarebbe il disgusto svanito in vani susurri, se il General dell'Oriente, l'eroico Probo, non si fosse arditamente dichiarato vendicator del Senato. Era per altro sempre la contesa ineguale, nè potea il più abile Generale alla testa delle effemminate truppe dell'Egitto e della Siria, combattere con alcuna speranza di vittoria, contro le legioni dell'Europa, che con irresistibil valore sembravano sostenere il fratello di Tacito. Ma la fortuna e l'attività di Probo superarono ogni ostacolo. I robusti veterani del suo rivale, avvezzi ai climi più freddi, illanguidivano e venivano meno agli eccessivi calori della Cilicia, dove l'aria nella state era molto malsana. Le frequenti diserzioni diminuivano il loro numero: i passi delle montagne erano debolmente difesi. Tarso aprì le sue porte, ed i soldati di Floriano, dopo avergli lasciato godere per tre mesi il titolo Imperiale, liberarono l'Impero da una guerra civile col facile sacrifizio di un Principe da loro sprezzato116.
Le continue rivoluzioni del trono aveano sì bene sbandita ogni idea di ereditario diritto, che la famiglia di un Imperatore sfortunato era incapace di eccitare la gelosia dei suoi successori. Fu ai figli di Tacito e di Floriano permesso di scendere allo stato privato, e di restar confusi nella generale massa del popolo. La loro povertà veramente servì d'un'altra difesa alla loro innocenza. Quando fu Tacito eletto dal Senato, egli consacrò al pubblico servizio l'ampio suo patrimonio117, atto di speciosa generosità in apparenza, ma che evidentemente svelava la sua intenzione di trasmettere l'Impero ai suoi discendenti. L'unica consolazione del loro caduto stato fu la memoria di una passeggiera grandezza, e la lontana speranza, figlia di una profezia lusinghiera, che sorgerebbe dopo mille anni dalla stirpe di Tacito un Monarca protettor del Senato, ristauratore di Roma, e conquistatore di tutta la terra118.
I contadini dell'Illirico, che già dato aveano al cadente Impero e Claudio e Aureliano, poterono con egual diritto gloriarsi dell'innalzamento di Probo119. Quasi venti anni avanti, l'Imperator Valeriano, con la solita sua penetrazione, avea conosciuto il nascente merito di quel giovane soldato, al quale conferì il posto di Tribuno molto innanzi all'età prescritta dalle regole militari. Il Tribuno giustificò ben presto la di lui scelta con una vittoria sopra un gran corpo di Sarmati, nella quale salvò la vita ad uno stretto parente di Valeriano, e meritò di ricevere dalle mani dell'Imperatore le collane, i monili, le lance e le insegne, la corona murale e la civica, e tutte le onorevoli ricompense destinate dall'antica Roma ad un fortunato valore. La terza legione, e quindi la decima furono affidate al comando di Probo, che ad ogni passo della sua promozione si mostrò superiore al posto ch'egli occupava. L'Affrica ed il Ponto, il Reno, il Danubio, l'Eufrate ed il Nilo gli porsero a vicenda le più luminose occasioni di mostrare il suo valor personale e la sua scienza nell'arte della guerra. A lui fu debitore Aureliano della conquista dell'Egitto, e molto più per l'onesto coraggio, col quale si oppose sovente alla crudeltà del suo Sovrano. Tacito, che desiderava di supplire alla sua propria mancanza di militari talenti con l'abilità de' suoi Generali, lo nominò primo Comandante di tutte le Orientali Province col quintuplo della solita paga, colla promessa del Consolato, e colla speranza del trionfo. Quando Probo salì sul Trono Imperiale era nell'età di quasi120 quarantaquattr'anni, nel pieno possesso della sua gloria, dell'amor dell'esercito, e di un maturo vigore di corpo e di spirito.
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Il riconosciuto suo merito ed il buon successo delle sue armi contro Floriano, lo lasciarono senza un nemico, o senza un competitore. Pure, se creder si debbono le sue proprie proteste, ben lungi dal desiderare l'Impero, egli lo aveva accettato con sincerissima ripugnanza. «Ma non è più in mio potere (dice Probo in una sua privata lettera) di deporre un titolo così invidiato e pericoloso. Mi è forza di continuare a rappresentare il carattere, di cui mi hanno rivestito i soldati121.» La rispettosa sua lettera al Senato mostrava i sentimenti, o almeno il linguaggio di un cittadino Romano. «Quando voi eleggeste, o Padri coscritti, uno del vostro Ordine per succedere all'Imperatore Aureliano, operaste secondo la vostra giustizia e la vostra prudenza. Imperocchè voi siete i Sovrani legittimi del mondo, ed il potere, trasmessovi dai vostri antenati, passerà nella vostra posterità. Felice Floriano! Se invece di usurpar la porpora del suo fratello, come una privata eredità, egli avesse aspettato che la vostra maestà si fosse determinata in favore o di lui, o di alcun'altra persona. I prudenti soldati hanno punita la temerità di lui, ed a me hanno offerto il titolo di Augusto. Ma io sottopongo alla vostra clemenza i miei diritti ed i meriti miei122.» Quando fu letta dal Console questa rispettosa lettera, non poterono i Senatori nascondere il loro contento, che Probo condescendesse a domandare così umilmente uno scettro che già possedeva. Celebrarono essi con la più viva gratitudine le virtù, le imprese, e soprattutto la moderazione di lui. Fu immediatamente fatto un decreto, senza pure un voto contrario, per ratificare l'elezione degli eserciti d'Oriente e per conferire al lor capo tutti i diversi rami della Imperial Dignità, i nomi di Cesare e di Augusto, il titolo di Padre della Patria, il diritto di fare al Senato in un giorno tre diverse proposizioni123, l'uffizio di Pontefice Massimo, la potestà tribunizia e l'autorità proconsolare; formula d'investitura, che benchè sembrasse moltiplicare l'autorità dell'Imperatore, non faceva ch'esprimere la costituzione dell'antica Repubblica. Corrispose tutto il Regno di Probo alla sua bella aurora. Fu rilasciata al Senato la civile amministrazione dell'Impero. Il fido suo Generale sostenne l'onore dell'armi Romane, e spesso pose ai piedi di quell'assemblea corone d'oro e barbarici trofei, frutti delle sue numerose vittorie124. Pure, mentr'egli contentava la vanità dei Senatori, ne deve in secreto aver disprezzata l'indolenza e la debolezza. Benchè potessero ad ogni momento abolire il disonorevole editto di Gallieno, i superbi successori degli Scipioni pazientemente soffrirono di essere esclusi da tutti gl'impieghi militari. Conobbero ben presto, che chi ricusa la spada, deve ancora rinunziare allo scettro.
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La forza di Aureliano avea per ogni parte oppressi i nemici di Roma. Parve che dopo la morte di lui risuscitassero più fieri e più numerosi. Furono essi vinti di nuovo dalla vigorosa attività di Probo, che nel corto regno di quasi sei anni125 agguagliò la fama degli antichi Eroi, e ristabilì la pace e l'ordine in ogni Provincia del Mondo Romano. Così saldamente assicurò la pericolosa frontiera della Rezia, che la lasciò senza il sospetto neppur di un nemico. Egli abbattè l'erranti forze delle Tribù de' Sarmati, e col terror delle armi sue costrinse que' Barbari a desistere dalle rapine. Chiesero ardentemente i Goti l'alleanza di un Imperatore così bellicoso126. Egli assalì gl'Isaurici nelle loro montagne, assediò e prese vari de' loro più forti castelli127, e si lusingò di aver soggiogato per sempre un domestico nemico, la cui indipendenza portava così profonde ferite alla maestà dell'Impero. I torbidi, eccitati nel superiore Egitto dell'usurpator Fermo, non eran mai stati perfettamente sedati, e le città di Tolemaide e di Copto, sostenute dall'alleanza dei Blemmi, mantenevano tuttavia una ribellione oscura. Il castigo di queste e de' loro ausiliari selvaggi del Mezzogiorno si dice che spaventasse la Corte di Persia128, ed il Gran Re supplicò invano per ottenere l'amicizia di Probo. La maggior parte delle imprese, che ne illustrarono il regno, debbonsi al valor personale, ed alla condotta dell'Imperatore, talchè lo Scrittore della vita di lui manifesta qualche maraviglia, come in sì breve tempo potesse un sol uomo esser presente a tante guerre lontane. Egli affidò le altre imprese alla cura de' suoi Generali, la giudiziosa scelta de' quali forma una parte considerabile della sua gloria. Caro, Diocleziano, Massimiano, Costanzo, Galerio, Asclepiodoto, Annibaliano, ed un numero di altri Capi, i quali di poi occuparono o sostennero il trono, furono educati nell'armi, e nella severa scuola di Aureliano e di Probo129.
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Ma il più importante servigio, che Probo rendesse alla Repubblica, fu di aver liberata la Gallia, e ricuperate settanta floride città oppresse dai Barbari della Germania, i quali dopo la morte di Aureliano aveano impunemente desolata quella vasta Provincia130. Tra la varia moltitudine di quei feroci invasori si possono con qualche chiarezza distinguere tre grandi armate, o piuttosto nazioni successivamente vinte dal valore di Probo. Egli rispinse i Franchi nelle loro paludi; circostanza dimostrativa, dalla quale possiamo inferire, che la confederazione, conosciuta sotto il generoso nome di liberi, già occupava il basso paese marittimo diviso e quasi coperto dalle stagnanti acque del Reno; e che diverse Tribù dei Frisi e dei Batavi si erano unite alla loro alleanza. Egli vinse i Borgognoni, considerabil nazione della razza dei Vandali. Erano essi andati vagando in traccia di bottino dalle rive dell'Oder a quelle della Senna. Si stimarono assai felici di comprare con la restituzione di tutte le loro prede la permissione di un sicuro ritorno. Tentarono essi di eludere quell'articolo del trattato. Il loro castigo fu immediato e terribile131. Ma di tutti gl'invasori della Gallia, i più formidabili erano i Ligj, nazione lontana, che possedeva un vasto dominio sulle frontiere della Polonia e della Slesia132. Tra questi gli Arj tenevano il primo posto pel loro numero e per la loro fierezza. «Gli Arj» (così sono essi descritti dall'energia di Tacito) procurano di accrescere con l'arte e colle circostanze del tempo il natural terrore della loro fierezza. Neri sono gli scudi loro, e tinti di nero i lor corpi. Scelgono per combattere l'ora più oscura della notte. Il lor esercito si avanza coperto quasi da un'ombra funerea133; e trova di rado un nemico capace di sostenere un sì strano aspetto ed infernale. Gli occhi sono i primi di tutti i sensi ad esser vinti in battaglia134.» Pure le armi e la disciplina dei Romani facilmente sconfissero quegli orridi spettri. I Ligj furon disfatti in un generale combattimento, e Sennone, il più rinomato dei loro capi, cadde vivo nelle mani di Probo. Questo prudente Imperatore non volendo ridurre un popolo coraggioso alla disperazione, gli accordò una capitolazione onorevole, e gli permise di ritornar sicuramente al suo nativo paese. Ma le perdite, che i Ligj soffersero nella marcia, nella battaglia e nella ritirata abbatterono il potere della nazione; nè il nome loro si trova più ripetuto nella storia della Germania o dell'Impero. Si racconta che la liberazione della Gallia costasse la vita a quattrocentomila degl'invasori; impresa faticosa per li Romani, e dispendiosa per l'Imperatore, che donò una moneta d'oro per ogni Barbaro ucciso135. Ma siccome la fama de' guerrieri si fabbrica sopra la distruzione dell'uman genere, si può naturalmente sospettare che quel sì sanguinoso calcolo fosse moltiplicato dall'avarizia dei soldati, ed accettato senza alcun severo esame dalla liberale vanità di Probo.
Dopo la spedizione di Massimino, i Generali Romani aveano limitata la loro ambizione ad una guerra difensiva contro le nazioni della Germania, che perpetuamente tribolavano le frontiere dell'Impero. Il più ardito Probo proseguì le sue vittorie, passò il Reno, e portò le sue invincibili aquile sulle rive dell'Elba e del Necker. Era egli pienamente convinto, che niente poteva indurre l'animo dei Barbari alla pace, se non provavano nel proprio lor paese le calamità della guerra. La Germania spossata dal cattivo successo dell'ultima emigrazione, rimase sbigottita alla presenza di Probo. Nove de' più considerabili Principi si portarono al di lui campo, e se gli gettarono ai piedi. Accettarono umilmente i Germani le condizioni che piacque di dettare al vincitore. Volle egli una esatta restituzione delle spoglie e dei prigionieri levati alle Province; ed obbligò i loro magistrati a punire i predatori più ostinati, che pretendevano di ritenere qualche parte del bottino. Un considerabil tributo di grano, di armenti e di cavalli, sole ricchezze dei Barbari, fu riservato per l'uso delle guarnigioni, che Probo stabilì sulle frontiere del lor territorio. Avea egli altresì qualche pensiero di costringere i Germani ad abbandonare l'esercizio delle armi, ed a rimettere le loro contese e la loro sicurezza alla giustizia ed alla potenza di Roma. Per eseguire questi salutevoli progetti era indispensabilmente necessaria la residenza perpetua di un Governatore Imperiale, sostenuto da numerosa armata. Probo pertanto credè più espediente di differire l'esecuzione di un disegno sì grande, ch'era per vero dire di utilità più apparente che solida136. Riducendo la Germania alla condizione di Provincia, avrebbero i Romani con fatiche e spese immense acquistato soltanto un circondario più esteso da potersi difendere contro i più feroci o più attivi Barbari della Scizia.
In vece di ridurre i bellicosi Germani allo stato di sudditi, Probo si contentò dell'umile espediente d'innalzare un baluardo contro le loro incursioni. Il paese, che forma adesso il circolo della Svevia, era stato lasciato deserto nel secolo di Augusto per l'emigrazione degli antichi suoi abitatori137. La fertilità del suolo presto vi trasse una nuova colonia dalle adiacenti province della Gallia. Varie trame di venturieri di un rapace carattere e di disperate fortune, occuparono quella incerta possessione, e riconobbero col pagamento della decima la maestà dell'Impero138. Per proteggere questi nuovi sudditi, fu a poco a poco tirata una linea di guarnigioni, che dovea servir di frontiera dal Reno al Danubio. Verso il regno di Adriano, quando cominciò a praticarsi quella maniera di difese, furono queste guarnigioni tra loro connesse, e coperte da una forte trinciera di alberi e di palizzate. In vece di quel rozzo baluardo, vi costruì l'Imperator Probo un muro di pietra di considerabile altezza, e fortificato con torri a convenienti distanze. Dalle vicinanze di Newstadt e di Ratisbona sul Danubio si stendeva a traverso i monti, le valli, i fiumi e le paludi fino a Wimpfen sul Necker, e terminava finalmente sulle rive del Reno, dopo un tortuoso corso di quasi dugento miglia139. Questa importante barriera, congiungendo i due gran fiumi, che difendevano le province dell'Europa, pareva occupare lo spazio voto, pel quale poteano i Barbari, e specialmente gli Alemanni, penetrare con la maggior facilità nel cuor dell'Impero. Ma l'esperienza del mondo, dalla China alla Britannia, ha mostrato inutile il tentativo di fortificare un esteso tratto di paese140. Un attivo nemico che può scegliere e variare i punti di attacco, dee finalmente scoprire un luogo debole, e profittare d'un momento d'innavvertenza. La forza non meno che l'attenzione dei difensori è divisa; e tali son gli effetti di un cieco terrore sulle truppe più salde, che una linea rotta in un sol posto è quasi in un istante tutta abbandonata. Il destino del muro eretto da Probo può confermare l'osservazion generale. Pochi anni dopo la morte di lui, esso fu rovesciato dagli Alemanni. Le sparse rovine, universalmente attribuite alla potenza del Demonio, servono adesso soltanto ad eccitare la maraviglia del contadino della Svevia.
Tra le utili condizioni di pace, imposte da Probo alle vinte nazioni della Germania, vi era l'obbligazione di somministrare all'esercito Romano sedicimila uomini, scelti dalla gioventù più valorosa e robusta. L'Imperatore li disperse per tutte le Province, e distribuì questo pericoloso rinforzo in piccole bande, ciascuna di cinquanta o sessanta uomini fra le truppe nazionali; procurando giudiziosamente che fosse sensibile, ma non visibile l'aiuto, che la Repubblica traeva dai Barbari141. Era questo divenuto ormai necessario. I molli abitatori dell'Italia e delle Province interne non potevano più sostenere il peso delle armi. Le robuste nazioni situate sulle frontiere del Reno e del Danubio davano ancora animi e corpi adattati alle fatiche del campo; ma una continua serie di guerre avea a poco a poco diminuito il lor numero. La rarità dei matrimonj, o la rovina dell'agricoltura, s'opponevano ai principj della popolazione, e distruggevano non solo la forza delle generazioni presenti, ma toglievano la speranza ancora delle future. La sapienza di Probo abbracciò il vasto ed utile disegno di ripopolare l'esauste frontiere con nuove colonie di Barbari schiavi o fuggitivi, ai quali egli diede e terreno e bestiami, ed istrumenti di agricoltura, ed ogni incoraggiamento che potesse impegnarli ad allevare una razza di soldati pel servizio della Repubblica. Egli trasferì un considerabil corpo di Vandali nella Britannia, e probabilmente nella Provincia di Cambridge142. L'impossibilità della fuga fece che si adattassero alla loro situazione, e nelle susseguenti turbolenze di quell'isola si mostrarono fedelissimi sudditi dello Stato143. Un gran numero di Franchi e di Gepidi fu stabilito sulle rive del Danubio e del Reno. Centomila Bastarni, cacciati dalla lor patria, accettarono allegramente uno stabilimento nella Tracia, e presto contrassero i costumi ed i sentimenti di sudditi romani144. Ma troppo spesso furono deluse le speranze di Probo. L'impazienza e la pigrizia dei Barbari mal poteano sopportare le lente fatiche dell'agricoltura. Il loro indomabile spirito di libertà sollevandosi contro il dispotismo, li eccitò a precipitose ribellioni, ugualmente fatali ad essi, che alle Province145; nè poterono questi artificiali rinforzi, benchè replicati dai successivi Imperatori, rendere all'importante frontiera della Gallia e dell'Illirico l'antico suo nativo vigore.
Di tutti i Barbari, che abbandonarono i nuovi loro stabilimenti, e disturbarono la pubblica tranquillità, un piccolissimo numero ritornò al suo nativo paese. Poterono per breve tempo vagare armati per l'Impero; ma furono al fine sicuramente distrutti dalla potenza di un Imperator bellicoso. La fortunata temerità di una truppa di Franchi fu accompagnata da conseguenze sì memorabili da non doversi passare in silenzio. Probo gli avea stabiliti sulle coste del Ponto, colla mira di rinforzare quella frontiera contro lo irruzioni degli Alani. Una flotta, che fissa stava nei porti dell'Eusino, cadde nelle mani dei Franchi; ed essi risolverono di cercare una strada per mari incogniti dalla foce del Fasi a quella del Reno. Fuggirono essi facilmente a traverso il Bosforo e l'Ellesponto, ed incrociando lungo il Mediterraneo, la loro sete di vendetta e di rapina con frequenti sbarchi su i lidi dell'Asia, della Grecia o dell'Affrica, che non sospettavano una incursione. La ricca città di Siracusa, nel cui porto erano state una volta calate a fondo le flotte di Atene e Cartagine, fu saccheggiata da un pugno di Barbari, che trucidarono la maggior parte de' tremanti abitatori. Dalle isole della Sicilia si avanzarono i Franchi alle Colonne di Ercole, e fidandosi all'Oceano costeggiarono la Spagna e la Gallia, e dirigendo trionfanti il loro corso pel canale Britannico, terminarono finalmente il sorprendente loro viaggio, approdando sicuri ai lidi della Batavia o della Frisia146. L'esempio del loro felice successo, insegnando ai loro concittadini a concepire i vantaggi, e a disprezzare i pericoli del mare, additò al loro spirito intraprendente una nuova strada alla ricchezza e alla gloria.
Non ostante la vigilanza e l'attività di Probo, era quasi impossibile ch'egli potesse nel tempo stesso contenere nell'ubbidienza ogni parte del suo tanto esteso dominio. I Barbari, che ruppero le loro catene, presa aveano la favorevole occasione di una guerra domestica. Quando mosse l'Imperatore al soccorso della Gallia, affidò a Saturnino il comando dell'Oriente. Questo Generale, uomo di merito e di esperienza, fu indotto a ribellarsi dalla lontananza del suo Sovrano, dalla leggierezza degli Alessandrini, dalle premurose istanze degli amici, e dai suoi propri timori; ma dal primo momento della sua elevazione non mantenne mai alcuna speranza di conservarsi l'Impero, oppure la vita. «Ah!» diss'egli, «la Repubblica ha perduto un util suddito, e la temerità di un momento ha distrutto i servigi di molt'anni. Voi non conoscete (egli continuò) le angustie del sovrano potere; sta sempre sospesa sul nostro capo una spada; paventiamo le stesse nostre guardie, e diffidiamo dei nostri compagni. Non è più in nostro arbitrio l'operare o stare in riposo, nè vi è età, carattere, o condotta veruna, che ci metta al coperto della censura dell'invidia. Innalzandomi in tal guisa al trono, condannato mi avete a una vita angustiosa, e ad un fine immaturo. L'unica consolazione che mi resta, è la sicurezza che non caderò solo147.» Ma come la prima parte della sua predizione fu verificata dalla vittoria, così fu la seconda smentita dalla clemenza di Probo. Questo buon Principe tentò persino di salvare l'infelice Saturnino dal furor dei soldati. Avea egli più di una volta pregato l'usurpatore istesso a riporre qualche fiducia nella clemenza di un Sovrano, il quale tanto stimava il carattere di lui, che avea punito, qual maligno delatore, il primo che riferì l'improbabil nuova della sua ribellione148. Avrebbe forse Saturnino accettata la generosa offerta, se non fosse stato ritenuto dall'ostinata diffidenza dei suoi aderenti. Il loro delitto era più grave, e le loro speranze più ardenti di quelle dello sperimentato lor condottiere.
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Era appena nell'Oriente estinta la ribellione di Saturnino, che si suscitarono nuove turbolenze nell'Occidente, per la sollevazione di Bonoso e di Proculo nella Gallia. Il maggior merito di questi due Uffiziali era la prodezza dell'uno nelle battaglie di Bacco, dell'altro in quelle di Venere149; non mancava però nè l'uno nè l'altro di coraggio e di capacità, ed ambi sostennero con onore l'augusto carattere che il timor del castigo gli aveva impegnati ad assumere, finchè cederono in ultimo al genio superiore di Probo. Egli usò della vittoria con la solita sua moderazione, e risparmiò i beni non men che le vite delle innocenti loro famiglie150.
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Aveano ormai le armi di Probo oppressi tutti gli stranieri e domestici nemici dello Stato. Il suo dolce, ma fermo governo assicurava il ristabilimento della pubblica tranquillità; nè vi era rimasto nelle province un barbaro nemico, un tiranno o un masnadiere pur anco, che risvegliasse la memoria dei passati disordini. Tempo era che l'Imperatore rivedesse Roma, e celebrasse la propria sua gloria e l'universale felicità. Il trionfo, dovuto al valore di Probo, fu regolato con una magnificenza conveniente alla sua fortuna, ed il popolo, che avea sì di recente ammirati i trofei di Aureliano, rimase con eguale piacere attonito alla vista di quelli dell'Eroe successore151. Non possiamo in questa occasione tralasciare di riferire il coraggio di circa ottanta gladiatori, riservati con quasi seicento altri per l'inumano spettacolo dell'anfiteatro. Sdegnando essi di spargere il sangue per dilettare la moltitudine, uccisero i loro custodi, ruppero la loro prigione, ed empirono le contrade di Roma di sangue e di confusione. Dopo una ostinata resistenza furono superati, e tagliati a pezzi dalle truppe regolari; ma ottennero almeno una morte onorevole, e la soddisfazione di una giusta vendetta152.
La militar disciplina, che regnava nei campi di Probo, era meno crudele di quella di Aureliano, ma non men rigida ed esatta. Il secondo puniva le irregolarità dei soldati con inflessibile severità; il primo le preveniva, occupando le legioni in continue ed utili fatiche. Quando Probo comandava nell'Egitto, fece molte opere considerabili per lo splendore e per l'utile di quel ricco paese. La navigazione del Nilo, così importante a Roma medesima, fu migliorata; e tempj, ponti, portici e palazzi furono costruiti dalle mani de' soldati, che servivano a vicenda come architetti, come ingegneri e come operai153. Vien riferito di Annibale, che per preservare le sue truppe dalle pericolose tentazioni dell'ozio, le avea obbligate a fare vaste piantazioni di ulivi lungo la costa dell'Affrica154. Per un simil principio, Probo esercitò le sue legioni a coprire di ricche vigne le colline della Gallia e della Pannonia, e ci vengono descritti due considerabili terreni, che furono interamente lavorati o piantati dalle braccia dei soldati155. Uno di questi, conosciuto sotto il nome di Monte Almo, era situato vicino a Sirmio, paese nativo di Probo, per cui egli sempre conservò un affetto parziale, e la cui gratitudine procurò d'assicurarsi, convertendo in terreno lavorabile un vasto ed insalubre tratto di suol paludoso. Un esercito così impiegato componeva forse la più utile e la più coraggiosa porzione dei sudditi Romani.
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Ma nel proseguimento di un disegno favorito i migliori degli uomini, soddisfatti della rettitudine delle loro intenzioni, sono soggetti ad obbliare i limiti della moderazione; e Probo istesso non consultò abbastanza la pazienza e la disposizione dei feroci suoi legionari156. Sembra che solamente una vita piacevole ed oziosa possa compensare i pericoli della professione militare; ma se i doveri del soldato sono continuamente aggravati dalle fatiche dell'agricoltore, egli caderà finalmente sotto l'intollerabil peso, o lo scuoterà con isdegno. Si pretende che l'imprudenza di Probo provocasse lo scontento delle sue truppe. Più attento agl'interessi del Genere Umano che a quelli dell'esercito, egli manifestò la vana speranza di presto abolire, collo stabilimento della pace universale, la necessità delle truppe permanenti e mercenarie157. Questa poco misurata espressione gli divenne fatale. In uno dei più caldi giorni di estate, mentre egli severamente affrettava l'insalubre lavoro di seccare le paludi di Sirmio, i soldati, impazienti della fatica, gettaron via subitamente i loro strumenti, afferraron l'armi, e proruppero in una furiosa sollevazione. L'Imperatore, conoscendo il suo pericolo, si rifuggì in un'alta torre, eretta a fine di osservare il progresso di quel lavoro158. Fu la torre in un momento forzata, e mille spade in un punto immerse furono in seno all'infelice Probo. Appena saziato, cessò il furor delle truppe. Deplorarono allora la funesta loro temerità, obbliarono la severità dell'Imperatore che avean trucidato, e si affrettarono a perpetuare con un onorifico monumento la memoria delle virtù e delle vittorie di lui159.
Quando ebbero le legioni soddisfatto al loro dolore e pentimento per la morte di Probo, con unanime consenso dichiararono Caro Prefetto del Pretorio, come il più degno del trono imperiale. Ogni circostanza relativa a questo Principe comparisce d'una varia ed incerta natura. Ei si gloriava del titolo di cittadino Romano, ed affettava di paragonare la purità del suo sangue colla straniera e perfino barbara origine dei precedenti Imperatori, ma i più curiosi indagatori fra i suoi contemporanei, ben lungi dall'ammettere questa pretensione, hanno variamente dedotta l'origine di lui, o quella dei suoi genitori, dall'Illirico, dalla Gallia o dall'Affrica160. Benchè soldato, egli ebbe una culta educazione; e benchè Senatore, gli fu conferita la prima dignità dell'esercito; ed in un secolo, in cui le professioni civile e militare cominciarono ad essere stabilmente separate l'una dall'altra, esse furono unite nella persona di Caro. Non ostante la severa giustizia da lui esercitata contro gli assassini di Probo, al favore e alla stima del quale egli era altamente obbligato, non potè evitare il sospetto di esser complice di un misfatto, da cui ricavò il principale vantaggio. Egli godeva (almeno avanti il suo innalzamento) la riputazione d'uomo abile e virtuoso161; ma l'austero suo naturale si cangiò insensibilmente in fastidioso e crudele, e gl'imperfetti Scrittori della sua vita non sanno se devono porlo nel numero dei Tiranni di Roma162. Quando Caro prese la porpora, era nell'età di circa sessant'anni, ed i due suoi figli Carino e Numeriano erano ormai giunti alla virilità163.
L'autorità del Senato morì con Probo, nè i soldati dimostrarono il loro pentimento con quel rispettoso riguardo per la potenza civile, che aveano palesato dopo l'infelice morte di Aureliano. Fu l'elezione di Caro decisa senza aspettare l'approvazione del Senato; ed il nuovo Imperatore si contentò di notificare con una fredda ed altiera lettera, ch'era salito sul trono vacante164. Una condotta tanto opposta a quella dell'amabile suo predecessore, non recò alcun favorevol presagio del nuovo Regno, ed i Romani, privi di potere e di libertà, usarono del privilegio rimasto loro di mormorare165. Non si mancò per altro di congratularsi con lui e di adularlo; e possiam tuttavia leggere con piacere e disprezzo un'egloga, che fu composta per l'avvenimento dell'Imperator Caro. Due pastori per evitare il calore del mezzogiorno si ritirano nella grotta di Fauno. Sulla scorza d'un ombroso faggio vedono alcuni freschi caratteri. La rustica Deità avea descritta in versi profetici la felicità promessa all'Impero sotto il Regno di sì gran Principe. Fauno saluta l'Eroe, che ricevendo sulle sue spalle il cadente peso del mondo Romano, estinguerà le guerre e le fazioni, e farà risorgere l'innocenza e la tranquillità del secol d'oro166.
È più che probabile che queste eleganti inezie non giungessero mai alle orecchie di un Generale veterano, che con il consenso delle legioni si preparava ad eseguire il lungamente sospeso disegno della guerra Persiana. Avanti la sua partenza per questa remota spedizione, Caro conferì ai due suoi figli, Carino, e Numeriano, il titolo di Cesare, e rivestendo il primo di una quasi ugual porzione d'imperial potere, ordinò al giovane Principe di prima sedare alcune perturbazioni insorte nella Gallia, e di poi stabilire la sua residenza in Roma, ed assumere il governo delle Province Occidentali167. Fu la salvezza dell'Illirico assicurata con una memorabil disfatta dei Sarmati. Sedicimila di quei Barbari restarono sul campo di battaglia, e montò a ventimila il numero dei prigionieri. Il vecchio Imperatore, animato dalla fama e dall'aspetto della vittoria, continuò la sua marcia di mezzo verno per le campagne della Tracia e dell'Asia Minore, ed arrivò finalmente col suo più giovane figliuolo Numeriano ai confini della Monarchia Persiana. Là accampato sulla cima di un'alta montagna, mostrò alle truppe l'opulenza ed il lusso dei nemici che andavano ad assalire.
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Il successore di Artaserse, Varane o Bahram, benchè avesse soggiogati i Segesti, una delle più bellicose nazioni dell'Asia superiore168, fu atterrito dalla venuta dei Romani, e procurò di arrestarli con un trattato di pace. I suoi ambasciatori entrarono nel campo verso il cader del Sole, mentre le truppe si ristoravano con un pasto frugale. I Persiani manifestarono il loro desiderio di essere introdotti alla presenza dell'Imperator Romano. Furono essi finalmente condotti dinanzi ad un soldato assiso sull'erba. Un pezzo di lardo vieto, e pochi secchi piselli componean la cena di quello. Un rozzo manto di porpora era l'unico indizio della sua dignità. Si fece l'abboccamento collo stesso disprezzo della cortigiana eleganza. Caro levandosi un berretto, che portava per nascondere la sua calvezza, assicurò gli Ambasciatori, che se il loro Sovrano non avesse riconosciuta la superiorità di Roma, egli avrebbe subitamente ridotta la Persia così nuda di alberi, come era la testa sua di capelli169. Malgrado le tracce di una studiata ostentazione possiamo da questa scena conoscere i costumi di Caro, e la severa semplicità, che i marziali successori di Gallieno aveano già ristabilita nei campi Romani. I ministri del gran Re tremarono e si ritirarono.
Non furono senza effetto le minacce di Caro. Egli devastò la Mesopotamia, tagliò a pezzi tutto quello, che si oppose al suo passaggio, s'impadronì delle grandi Città di Seleucia e di Tesifonte (che sembra essersi rese senza resistenza) e portò le armi sue vittoriose di là dal Tigri170. Egli avea preso il favorevol momento per una invasione. I Consigli Persiani erano divisi dalle fazioni domestiche, e la maggior parte delle lor forze era ritenuta sulle frontiere dell'India. Roma e l'Oriente ricevean con trasporto le nuove di vantaggi così rilevanti. L'adulazione e la speranza dipingevano coi più vivi colori la caduta della Persia,171 la conquista dell'Arabia, la soggezione dell'Egitto, ed una durevole sicurezza dalle incursioni degli Sciti. Ma il Regno di Caro era destinato a dimostrare la vanità delle predizioni. Queste appena pubblicate, furono deluse dalla morte di lui; avvenimento accompagnato da tali ambigue circostanze, che non può riferirsi meglio che con una lettera del Segretario di esso al Prefetto della Città. «Caro (dic'egli), nostro dilettissimo Imperatore, era dalla malattia confinato nel letto, quando scoppiò sul campo una furiosa tempesta. Le tenebre, che coprivano il cielo, erano così dense, che ne impedivano il vederci l'un l'altro, ed i continui lampi dei fulmini ci toglievano la cognizione di tutto ciò che seguiva nella general confusione. Immediatamente dopo un violentissimo scoppio di tuono, udimmo un grido improvviso ch'era morto l'Imperatore; e subito videsi che i suoi Cortigiani aveano in un trasporto di dolore messo fuoco alla tenda Reale; circostanza per cui si disse che Caro fu ucciso dal fulmine. Ma per quanto possiamo investigar la verità, la sua morte fu il naturale effetto della sua malattia172.»
La vacanza del trono non produsse sconcerto veruno. L'ambizione dei Generali fu repressa dai loro vicendevoli timori, ed il giovane Numeriano, ed il suo fratello assente, Carino, furono di comun consenso riconosciuti Imperatori di Roma. Il Pubblico sperava che il successore di Caro seguitasse le vestigia del padre, e senza lasciar che i Persiani si riavessero dalla loro costernazione, entrasse colla spada alla mano nei palazzi di Susa e di Ecbatana173. Ma le legioni, benchè numerose e disciplinate, furono atterrite dalla più vile superstizione. Non ostanti tutti gli artifizi posti in uso per nascondere qual fosse stata la morte dell'ultimo Imperatore, fu impossibile di distruggere l'opinione della moltitudine, ed è insuperabile la forza della opinione. I luoghi o le persone colpite dal fulmine erano riguardate dagli antichi con religioso orrore, come singolarmente consacrate all'ira del cielo174. Fu allora rammentato un oracolo, che indicava il fiume Tigri, come il confine fatale delle armi Romane. Le truppe, atterrite dal destino di Caro e dal lor proprio pericolo, altamente gridarono al giovane Numeriano, che ubbidisse al voler degli Dei, e le conducesse fuori di quell'infausto teatro di guerra. Non seppe il debole Imperatore vincere l'ostinato lor pregiudizio, ed i Persiani videro con stupore l'improvvisa ritirata di un vittorioso nemico175.
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La nuova della misteriosa morte dell'ultimo Imperatore fu presto portata dalle frontiere della Persia a Roma; ed il Senato non meno che le Province si congratularono co' figliuoli di Caro del loro avvenimento al trono. Mancava per altro a questi giovani fortunati quella nota superiorità o di nascita o di merito, che sola può render facile il possesso di un trono, come se fosse naturale. Nati ed educati in condizione privata, furono per l'elezione del padre innalzati in un momento alla dignità di Principi; e la morte di lui, seguita quasi sedici mesi dopo, lasciò ad essi l'inaspettata eredità di un vasto Impero. Si richiedeva una virtù e prudenza non ordinaria per sostener con moderazione questo rapido innalzamento; e Carino, il maggiore de' fratelli, era più che all'ordinario privo di queste due qualità. Aveva egli nella guerra della Gallia mostrato qualche grado di valor personale176, ma dal momento del suo arrivo in Roma si abbandonò al lusso della Capitale, ed all'abuso della sua fortuna. Egli era effemminato e ad un tempo crudele; dedito al piacere, ma privo di buon gusto; e benchè vano all'estremo, non curante della pubblica stima. Nel corso di pochi mesi successivamente sposò o ripudiò nove mogli, molto delle quali lasciò gravide; e nonostante questa incostanza, autorizzata dalle leggi, trovò tempo di soddisfare tanti irregolari appetiti, che disonorò se stesso e le più nobili famiglie di Roma. Egli riguardava con odio implacabile tutti coloro, che potean rammentarsi l'antica sua oscurità, o censurare la sua presente condotta. Condannò all'esilio o alla morte gli amici ed i consiglieri, che il padre gli avea posti attorno per guidare l'inesperta sua giovinezza; e perseguitò colla più vile vendetta i suoi condiscepoli e compagni, che non aveano abbastanza rispettata la nascosta maestà dell'Imperatore. Coi Senatori, Carino affettava un superbo e regio contegno, frequentemente dichiarando che aveva idea di distribuire i loro beni alla plebaglia di Roma. Dalla feccia della medesima scelse i suoi favoriti, e fino i suoi ministri. Il palazzo e la tavola stessa Imperiale era piena di musici, di ballerini, di donne prostituite, e di tutto il vario corteggio del vizio e della follìa. Ad uno dei suoi Portieri177 affidò il governo della Città. Al Prefetto del Pretorio, da lui messo a morte, Carino sostituì uno de' ministri de' suoi più vili piaceri. Un altro, che possedeva l'istesso, o ancora un più infame diritto al favore di lui, fu rivestito del Consolato. Un Segretario di confidenza, che avea acquistata la rara abilità di contraffare lo scritto, liberò l'indolente Imperatore, col consenso di lui, dal molesto dovere di segnare il suo nome.
Quando l'Imperator Caro cominciò la guerra di Persia, fu indotto da motivi di affetto, non meno che di politica, ad assicurare la sorte della sua famiglia, lasciando nelle mani del suo maggior figliuolo le armate e le Province dell'Occidente. La notizia, ch'egli ricevè ben tosto della condotta di Carino, lo ricolmò di vergogna e di dolore; nè avea egli celata la sua risoluzione di soddisfare la Repubblica con un severo atto di giustizia, o di adottare in luogo di un indegno figliuolo, il valoroso e virtuoso Costanzo, ch'era allora Governatore della Dalmazia. Ma l'innalzamento di questo fu per un tempo differito, ed appena che la morte di un Padre ebbe liberato Carino dal freno del timore o del rispetto, egli mostrò ai Romani le stravaganze di Elagabalo, accompagnate dalla crudeltà di Domiziano178.
Il solo merito del Regno di Carino, che la storia possa ricordare, e la poesia celebrare, fu l'insolito splendore, col quale in nome suo e del fratello egli festeggiò i giuochi Romani del teatro, del circo e dell'anfiteatro. Più di venti anni dopo, quando i cortigiani di Diocleziano rappresentavano al loro frugal Sovrano lo splendore e la popolarità del magnifico suo predecessore, egli confessò, che il regno di Carino era veramente stato un regno di piacere179. Ma il Popolo Romano godeva con sorpresa e con trasporto di questa vana prodigalità, che la prudenza di Diocleziano poteva giustamente disprezzare. I più vecchi cittadini, rammentandosi gli spettacoli dei tempi andati, la pompa trionfale di Probo o di Aureliano, ed i giuochi secolari dell'Imperatore Filippo, confessavano che tutti erano oscurati dalla superiore magnificenza di Carino180.
Gli spettacoli pertanto di Carino non possono esser meglio illustrati che coll'osservazione di alcune particolarità, che la storia si è degnata di riferire, concernenti quelli dei suoi predecessori. Se ci limitiamo solamente alla caccia delle fiere, benchè criticar si possa la vanità dell'idea o la crudeltà dell'esecuzione, siamo costretti a confessare, che nè avanti nè dopo il tempo dei Romani tant'arte o spesa non è mai stata profusa pe' divertimenti del popolo181. D'ordine di Probo fu trapiantata nel mezzo del circo una considerabil quantità di grand'alberi, svelti dalle radici. Fu questa spaziosa e ombrosa foresta immediatamente ripiena di mille struzzi, di mille cervi, di mille daini e di mille cignali; e tutta questa varietà di selvaggiume fu abbandonata allo sfrenato impeto della moltitudine. La tragedia del giorno susseguente consistè nella strage di cento leoni, di cento leonesse, di dugento leopardi e di trecento orsi182. Gli animali raccolti e preparati dal più giovane Gordiano pel suo trionfo, e che il suo successore fece vedere nei giuochi secolari, erano meno ragguardevoli pel loro numero, che per la loro singolarità. Venti zebre mostrarono le loro eleganti forme e le belle liste del lor mantello agli occhi del Popolo Romano183. Dieci alci ed altrettante giraffe, i più alti e i più mansueti animali, ch'errino per le pianure della Sarmazia e dell'Etiopia, fecero un bel contrasto con trenta jene affricane, e dieci tigri dell'India, le più implacabili belve della Zona torrida. Nel rinoceronte, nell'ippopotamo del Nilo184 ed in una maestosa truppa di trentadue elefanti185 si ammirò l'innocente forza, di cui la natura ha dotato i più grandi tra i quadrupedi. Mentre la plebe guardava con attonita maraviglia quella splendida mostra, il naturalista potea invero osservare la figura e la proprietà di tante specie diverse, trasportate da ogni parte dell'antico mondo nell'anfiteatro di Roma. Ma questo accidental benefizio, che la scienza ricavar potea dalla follìa, non è certamente bastante a giustificare un così smoderato abuso delle pubbliche ricchezze. Si trova per altro un solo esempio nella prima guerra Punica, in cui il Senato combinò saggiamente questo divertimento della moltitudine coll'interesse dello Stato. Un numero considerabile di elefanti fu preso nella disfatta dell'armata Cartaginese, e condotto per uso del circo da pochi schiavi armati soltanto di dardi spuntati186. Servì quest'utile spettacolo ad imprimere nell'animo del soldato Romano un giusto disprezzo per quegli enormi animali, ed egli più non ne paventò l'incontro nelle battaglie.
La caccia o la mostra delle fiere era regolata con una magnificenza conveniente ad un popolo, che s'intitolava padrone del mondo; ed era l'edifizio, destinato a questo divertimento, una prova non meno evidente della romana grandezza. La posterità ammira e lungamente ammirerà i magnifici avanzi dell'anfiteatro di Tito, che tanto bene meritò il titolo di Colossale187. Era questo un edifizio di figura ellittica, lungo cinquecentosessantaquattro piedi, e largo quattrocentosessantasette, fabbricato sopra ottanta archi, e che si ergeva con quattro successivi ordini di architettura all'altezza di centoquaranta piedi188. Questo edificio era al di fuori incrostato di marmo, e adorno di statue. Il recinto di quella vasta concavità era ripieno e circondato da sessanta o ottanta ordini di sedili parimente di marmo coperti di cuscini, e capaci di contenere comodamente più di ottantamila spettatori189. Da sessantaquattro vomitatorj (giacchè con questo adattato vocabolo erano distinte le porte) usciva l'immensa moltitudine; e gli ingressi, i corridori, e le scale erano con tal disegno disposte, che qualunque persona dell'ordine o Senatorio o Equestre o Plebeo, giungeva al suo destinato luogo senza disturbo o confusione190. Niente era stato omesso di ciò che in qualche modo potesse servire al comodo, ed al piacere degli spettatori. Li difendea dal Sole e dall'acqua un'ampia tenda, che si tirava, richiedendolo il bisogno, sopra i loro capi. Veniva continuamente rinfrescata l'aria dai getti delle fontane, e profusamente impregnata del grato odore di aromati. Nel centro dell'edifizio, l'arena, o il teatro, era coperto della più fina sabbia, e prendea successivamente le più diverse forme. Ora poteva sorgere dalla terra come il giardino dell'Esperidi, e dopo era rotto in rupi e caverne simili a quelle della Tracia. I sotterranei canali conducevano una quantità inesauribile di acqua; e quel che un momento avanti sembrava un piano ben livellato, poteva improvvisamente cangiarsi in un vasto lago coperto di armate navi, e ripieno dei mostri dell'Oceano191. Nella decorazione di queste scene gl'Imperatori Romani facevano pompa delle loro ricchezze e della lor liberalità, e noi leggiamo che in diverse occasioni tutti gli ornamenti dell'anfiteatro erano o di argento o di oro o di ambra192. Il poeta, che descrive i giuochi di Carino, sotto il carattere di un pastore tratto alla Capitale dalla fama della loro magnificenza, afferma che le reti destinate, come per difesa, contro le fiere, erano di filo d'oro; che i portici erano dorati; e che il balteo o cerchio, che divideva i diversi ordini degli spettatori gli uni dagli altri, era adornato con un prezioso mosaico di bellissime pietre193.
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In mezzo a questa splendida pompa l'Imperatore Carino, sicuro della sua fortuna, godeva delle acclamazioni del popolo, dell'adulazione dei cortigiani e dei canti dei poeti, che in mancanza di un merito più essenziale, eran ridotti a celebrare le grazie divine della persona di lui194. Nell'ora stessa, ma in distanza di novecento miglia da Roma, il suo fratello rendeva lo spirito; ed una subita rivoluzione facea passare nelle mani di uno straniero lo scettro della famiglia di Caro195.
I Figli di Caro non si videro mai fra loro dopo la morte del padre. Le disposizioni, ch'esigeva la loro nuova posizione, erano probabilmente differite fino al ritorno del minor fratello a Roma, dov'era destinato un trionfo ai giovani Imperatori pel glorioso esito della guerra Persiana196. È incerto se avessero idea di divider tra loro il governo, o le province dell'Impero; ma è molto inverisimile che la loro unione dovesse lungamente durare. La gelosia della sovranità sarebbe stata infiammata dalla diversità dei caratteri. Carino era indegno di vivere anche nei tempi più corrotti; Numeriano meritava di regnare in un secolo più felice. Le affabili sue maniere e le sue mansuete virtù gli procacciarono, appena furono conosciute, il rispetto e gli affetti del Pubblico. Egli possedeva le belle doti di poeta e di oratore, che illustrano e adornano la più umile o la più elevata condizione. La sua eloquenza, benchè applaudita dal Senato, era formata più sul modello dei moderni declamatori, che su quello di Cicerone; ma in un secolo molto lontano dall'esser privo del merito poetico, egli ne disputò la palma coi più celebri suoi contemporanei, e rimase tuttavia amico dei suoi rivali; circostanza che dimostra o la bontà del suo cuore, o la superiorità del suo ingegno.197 Ma erano i talenti di Numeriano di un genere più contemplativo che attivo, quando l'innalzamento del padre lo estrasse a forza dall'ombra del suo ritiro; nè il suo carattere, nè i suoi studi lo avean renduto atto a comandare gli eserciti. La sua complessione fu rovinata dalle fatiche della guerra Persiana; ed egli avea contratto pel calore del clima198 una debolezza tale negli occhi, che fu costretto, nel corso di una lunga ritirata, a confinarsi nella solitudine; e nell'oscurità di una tenda o di una lettiga. L'amministrazione di tutti gli affari e militari e civili fu conferita ad Arrio Apro, Prefetto del Pretorio, che alla potenza dell'importante sua carica univa l'onore di esser suocero di Numeriano. Era strettamente guardato il padiglione Imperiale dai suoi più fedeli aderenti, e per molti giorni Apro diede all'armata i supposti ordini dell'invisibile Sovrano199.
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Non erano scorsi ancora otto mesi dalla morte di Caro, quando l'esercito Romano, ritornando a lunghe giornate dalle rive del Tigri, arrivò a quelle del Bosforo Tracio. Le legioni fecero alto a Calcedonia nell'Asia, mentre la Corte passava sopra Eraclea sulla costa Europea della Propontide200. Ma si sparse improvvisamente nel campo, prima con segreti bisbigli e finalmente con alti clamori, la voce della morte dell'Imperatore, e della presunzione del suo ambizioso ministro, ch'esercitava tuttavia il potere sovrano in nome di un principe estinto. Non potè l'impazienza dei soldati sopportare più lungamente uno stato d'incertezza. Con insolente curiosità entrarono a forza nella Tenda Imperiale, e vi ritrovarono soltanto il cadavere di Numeriano201. La continua decadenza della salute di lui avrebbe potuto indurli a crederne naturale la morte; ma l'averla celata fu riguardato come una prova di delitto, e le provvisioni, prese da Apro per assicurare la propria elezione, divennero la cagione immediata della sua rovina. Pure, nel trasporto ancora della lor rabbia e del loro dolore, tennero le truppe una regolare condotta, che prova quanto sodamente era stata ristabilita la disciplina dei guerrieri successori di Gallieno. Fu intimata una generale assemblea dell'esercito da tenersi in Calcedonia, dove Apro fu condotto tra i ceppi come prigioniero e delinquente. Fu eretto in mezzo al campo un vuoto tribunale, ed i Generali ed i Tribuni tennero un gran consiglio di guerra. Essi annunziarono ben presto alla moltitudine, che la scelta loro era caduta sopra Diocleziano, comandante delle guardie domestiche, o sia del corpo, come il soggetto più capace di vendicare il loro amato Imperatore, e di succedergli. Dipendeva la futura sorte del Candidato dal caso, o dalla condotta di quel momento. Conoscendo Diocleziano che il grado, ch'egli avea occupato, lo esponeva a qualche sospetto, montò sul tribunale, ed alzando gli occhi al Sole, fece una solenne protesta sulla propria innocenza dinanzi a quel Nume, che tutto vede202. Prendendo di poi i modi di Sovrano o di Giudice, comandò che Apro, incatenato, fosse condotto a piè del tribunale. «Costui (diss'egli) è l'assassino di Numeriano»; e senza dargli tempo di entrare in una pericolosa giustificazione, snudò il ferro, e l'immerse in seno all'infelice Prefetto. Un'accusa sostenuta da una prova così decisiva, fu ammessa senza contraddizione, e le legioni riconobbero con ripetute acclamazioni la giustizia e l'autorità dell'Imperator Diocleziano203.
Prima di entrare nel memorabil regno di questo Principe, sarà conveniente cosa il punire e tor di mezzo l'indegno fratello di Numeriano. Carino aveva armi e ricchezze bastanti a sostenere il suo legittimo diritto all'Impero. Ma i suoi vizi personali preponderavano tutti i vantaggi della nascita e dell'attual situazione. I più fedeli ministri del padre disprezzavano l'incapacità, e paventavano la crudele arroganza del figliuolo. Eran gli affetti del popolo impegnati in favore del rivale, ed il Senato istesso inclinava a preferire un usurpatore a un tiranno. Gli artifizi di Diocleziano infiammarono la generale scontentezza, e fu il verno consumato in segreti intrighi, ed in aperti preparativi per una guerra civile. S'incontrarono a primavera le forze dell'Oriente e dell'Occidente nelle pianure di Margo, piccola città della Mesia, nelle vicinanze del Danubio204. Le truppe tornate così recentemente dalla guerra Persiana, aveano acquistata la loro gloria a spese della loro salute e del lor numero, nè erano esse in istato di contrastare con l'inesausto vigore delle legioni Europee. Furono rotte le loro file, e per un momento Diocleziano disperò della porpora e della vita. Ma perdè Carino in un punto, per l'infedeltà de' suoi uffiziali, il vantaggio riportato dal valore de' suoi soldati. Un Tribuno, di cui egli avea sedotta la moglie, prese l'opportunità di vendicarsi, e con un colpo solo spense la discordia civile col sangue dell'adultero205.
Come fu il regno di Diocleziano più illustre di quello di qualunque suo predecessore, così fu la sua nascita più vile e più oscura. L'efficace ragione del merito e della forza avea spesso superate le immaginarie prerogative della nobiltà; ma si era tuttavia mantenuta una distinta linea di separazione tra i liberi e tra gli schiavi. I genitori di Diocleziano erano stati schiavi nella casa di Anulino Senatore Romano; e Diocleziano medesimo non aveva altro nome che quello derivatogli da una piccola città della Dalmazia, donde sua madre traeva l'origine206. È per altro probabile che il padre di lui ottenesse la libertà della famiglia, e che egli presto acquistasse l'uffizio di scrivano, esercitato comunemente da quelli della sua condizione207. I favorevoli oracoli, o piuttosto la consapevolezza di un eminente merito, spinsero l'ambizioso suo figliuolo a seguitare la professione delle armi e le speranze della fortuna; e sarebbe cosa estremamente curiosa l'osservare la serie degli artifizi e degli accidenti, che lo condussero finalmente all'adempimento di quegli oracoli, ed a mostrare al mondo il suo merito. Fu Diocleziano successivamente promosso al governo della Mesia; alla dignità di Console, ed all'importante comando delle guardie del palazzo. Egli fece conoscere i suoi talenti nella guerra Persiana; e dopo la morte di Numeriano, lo schiavo fu, per confessione e giudizio de' suoi rivali, dichiarato il più degno del trono Imperiale. La malizia di un religioso zelo, mentre taccia la selvaggia ferocia del suo collega Massimiano, ha affettato di gettare sospetti sul personal coraggio dell'Imperator Diocleziano208. Non è però facile il persuaderci della codardia di un soldato di fortuna, che si conciliò e conservò la stima delle legioni, ed il favore di tanti Principi bellicosi. Contuttociò la calunnia è sagace abbastanza per iscoprire, ed attaccare la parte più debole. Il valore di Diocleziano si trovò sempre proporzionato al suo dovere o alle circostanze; ma non sembra che egli avesse il prode, e generoso spirito di un Eroe, che avido di pericoli e di gloria sdegna l'artifizio, e arditamente pretende di assoggettarsi gli uguali. Erano i suoi talenti più utili che illustri; una mente vigorosa e perfezionata dall'esperienza e dallo studio degli uomini; destrezza ed applicazione negli affari; una giudiziosa mescolanza di liberalità e di economia, di dolcezza e di rigore; una profonda dissimulazione sotto la maschera di militar franchezza; costanza nel seguitare i suoi disegni; flessibilità nel variarne i mezzi; e sopra tutto la grand'arte di sottomettere le sue passioni, e quelle ancora degli altri, all'interesse della propria ambizione, e di colorire l'ambizione istessa coi più speciosi pretesti della giustizia e del pubblico bene. Può Diocleziano, al pari di Augusto, considerarsi come il fondatore di un nuovo Impero. Simile al figliuolo adottivo di Cesare, egli si distinse, più come politico che come guerriero; nè mai questi due Principi impiegarono la forza, dovunque poterono ottenere l'intento colla politica.
La vittoria di Diocleziano fu riguardevole per la sua singolare dolcezza. Un popolo avvezzo ad applaudire alla clemenza del vincitore, quando i soliti castighi di morte, di esilio, e di confiscazione venivano inflitti con qualche grado di moderatezza e di equità, vide col più gradito stupore una guerra civile, le cui fiamme rimasero estinte nel campo della battaglia. Diocleziano ammise alla sua confidenza Aristobolo, principal ministro della famiglia di Caro, rispettò le vite, i beni, e le dignità dei suoi nemici, e conservò pur anche nei loro respettivi posti la maggior parte delle creature di Carino209. Non è improbabile che motivi di prudenza avvalorassero l'umanità dell'artificioso Dalmatino; molte di quelle creature aveano comprato il favore di lui con segreti tradimenti, e nell'altre egli pregiò la grata lor fedeltà per un infelice Sovrano. Il giudizioso discernimento di Aureliano, di Probo, e di Caro avea collocati nei vari dipartimenti dello Stato e dell'esercito Uffiziali di un merito riconosciuto, l'allontanamento dei quali avrebbe nociuto al pubblico servigio, senza giovare all'interesse del successore. Tal condotta, per altro, presentava al Mondo Romano la più bella apparenza del nuovo Regno e l'Imperatore affettò di confermare questa favorevole prevenzione, dichiarandosi che tra tutte le virtù dei suoi predecessori, l'umana filosofia di Marco Antonino era quella che egli più ambiva d'imitare210.
La prima azione considerabile del suo Regno sembrò una prova evidente della sua sincerità e moderazione. Ad esempio di Marco si scelse un Collega nella persona di Massimiano, a cui conferì prima il titolo di Cesare, e di poi quello di Augusto211. Ma i motivi della sua condotta, egualmente che quelli della sua scelta, erano ben diversi da quelli del suo ammirato predecessore. Accordando ad un giovane dissoluto gli onori della porpora, avea Marco Antonino soddisfatto a un debito di privata gratitudine, a spese veramente della pubblica felicità. Diocleziano, associando in un tempo di pubblico pericolo alle fatiche del governo un amico ed un compagno nell'armi, provvide alla difesa dell'Oriente e dell'Occidente. Massimiano era nato agricoltore, e come Aureliano, nel territorio di Sirmio. Incolto era nelle lettere212, e sprezzatore delle leggi; e la rozzezza del suo aspetto o dei suoi modi scopriva nel più alto stato di fortuna la bassezza della sua estrazione. Era la guerra la sola arte da lui professata. In un lungo corso di servigio militare egli si era segnalato sopra ogni frontiera dell'Impero; e benchè fossero i suoi talenti guerrieri più propri per l'ubbidienza che pel comando; e benchè forse mai non acquistasse l'abilità di un Generale sperimentato, fu però capace col valore, colla costanza, e coll'esperienza di eseguire le più difficili imprese. Nè meno utili furono i vizi di Massimiano al suo benefattore. Insensibile alla pietà, e senza timore delle conseguenze, egli era il pronto strumento di ogni atto di crudeltà, che la politica di quel Principe artificioso poteva suggerire e discolparsene insieme. Appena che si era offerto alla prudenza o alla vendetta un sanguinoso sacrifizio, Diocleziano coll'opportuna sua intercessione salvava il piccolo resto, che non avea mai disegnato di punire, riprendeva dolcemente la severità del suo austero collega, e godeva del paragone di un secolo d'oro con un secol di ferro, che veniva generalmente applicato alle loro opposte massime di governo. Non ostante la differenza dei loro caratteri, conservarono i due Imperatori sul trono quell'amicizia da loro già contratta in una condizione privata. Il superbo e turbolento spirito di Massimiano, tanto fatale dipoi a lui stesso ed alla pubblica pace, era avvezzo a rispettare il genio di Diocleziano, e riconosceva la superiorità della ragione sulla brutale violenza213. Per un motivo o di orgoglio o di superstizione, i due Imperatori presero i titoli, uno di Giovio e l'altro di Erculio. Mentre il moto del Mondo (tale era il linguaggio de' lor venali oratori) era regolato dalla sapienza di Giove che tutto vede, l'invincibil braccio di Ercole purgava la terra dai tiranni e dai mostri214.
Ma l'onnipotenza di Giovio e di Erculio era incapace di sostenere il peso del pubblico governo. La prudenza di Diocleziano conobbe, che l'Impero, assalito per ogni parte dai Barbari, richiedeva in ogni parte la presenza di un grande esercito e di un Imperatore. Con questa mira si risolvè di dividere un'altra volta il suo pesante potere, e di conferire a due Generali di merito riconosciuto una egual parte della Sovrana autorità, col titolo inferiore di Cesari215
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Pons Aureoli, tredici miglia distante da Bergamo, e trentadue da Milano. Vedi Cluver. Italia antic. tom. I. p. 245. Nel 1703 seguì vicino a questo luogo l'ostinata battaglia di Cassano tra i Francesi e gli Austriaci. L'eccellente relazione del Cavalier Folard, che vi era presente, dà una distintissima idea del terreno. Vedi il Polibio di Folard, tom. III, p. 223, 248.
Sulla morte di Gallieno vedi Trebellio Pollione nella Stor. Aug. p. 181. Zosimo, l. 1. p. 37. Zonara, l. XII, p. 634. Eutropio, IX. 11. Aurelio Vittore in Epitom. Vittore in Caesarib. Io gli ho confrontati, ed ho fatt'uso di tutti, ma ho principalmente seguitato Aurelio Vittore, il quale par che abbia avute le memorie migliori.
Alcuni molto capricciosamente lo supponevan bastardo del più giovane dei Gordiani. Altri profittavano della Provincia della Dardania per dedurre l'origine di lui da Dardano, e dagli antichi re di Troia.
Notoria, dispaccio periodico e ministeriale, che gl'Imperatori ricevevano dai Frumentarj o sieno Agenti sparsi per le Province. Parleremo di questi più sotto.
Stor. Aug. p. 208. Gallieno descrive l'argenteria, le vesti ec. come amatore e intendente di queste magnifiche bagatelle.
Giuliano (Orazione I. p. 6) afferma che Claudio acquistò l'Impero in una maniera legittima ed anzi sacra. Ma noi possiam diffidare della parzialità di un congiunto.
Stor. Aug. p. 203. Sonovi alcune piccole differenze riguardo alle circostanze dell'ultima disfatta e morte di Aureolo.
Aurelio Vittore in Gallieno. Il popolo altamente chiedeva la condanna di Gallieno. Il Senato decretò che i suoi parenti e domestici fossero precipitati dalle scale Gemonie. Ad un colpevol ministro delle pubbliche entrate furon cavati gli occhi, mentre era sotto l'esame.
Zonara l. XII. p. 137.
Zonara in questa occasione fa menzione di Postumo; ma i registri del Senato (Stor. Aug. p. 203) provano che Tetrico era già Imperatore delle Province occidentali.
La Storia Augusta fa menzione del minor numero e Zonara del maggiore; la vivace fantasia di Montesquieu l'indusse a preferire quest'ultimo.
Trebell. Pollione nella Stor. Aug. p. 204.
Stor. Aug, in Claud. Aurelian. e Prob. Zosimo, l. 1. p. 38, 42 Zonara, l. XII. p. 638. Aurel. Vittore in Epitom. Vittor. Junior. in Caesarib. Eutrop. IX 11. Euseb. in Chron.
Secondo Zonara (l. XII. p. 638.) Claudio avanti la sua morte lo rivestì della porpora; ma questo fatto singolare vien piuttosto contraddetto che confermato dagli Scrittori.
Vedi la vita di Claudio scritta da Pollione, e le orazion di Mamertino, Eumenio e Giuliano. Vedi parimente i Cesari di Giuliano p. 313. In Giuliano non era adulazione, ma superstizione e vanità.
Zosimo, l. I p. 42. Pollione (Stor. Aug. p. 207) gli accorda alcune virtù, e dice che fu, come Pertinace, ucciso dagli sfrenati soldati. Secondo Dexippo, egli morì di malattia.
Teoclio (come vien citato nella Stor. Aug. p. 211) afferma che in un giorno egli uccise con le sue proprie mani quarantotto Sarmati, ed in diverse susseguenti battaglie novecento cinquanta. Questo eroico valore fu ammirato dai soldati, e celebrato nelle rozze loro canzoni, l'intercalare delle quali era mille, mille, mille, occidit.
Acolio (appresso la Stor. Aug. p. 213) descrive la cerimonia della adozione come fu celebrata in Bisanzio alla presenza dell'Imperatore e de' suoi principali Ministri.
Stor. Aug. p. 211. Questa laconica lettera è veramente lavoro di un soldato; è piena di frasi e di voci militari, alcune delle quali non possono intendersi senza difficoltà. Ferramenta Samiata sono bene spiegati da Salmasio. La prima di queste voci significa ogni arme offensiva, ed è opposta ad Arma, arme difensiva. L'ultimo significa bene affilate e bene appuntate.
Zosimo l. I. p. 45.
Dexippo (nell'Excerpta Legat. p. 12) riferisce tutto il trattato sotto il nome dei Vandali. Aureliano maritò una delle Dame Gote al suo Generale Borioso, ch'era capace di bevere coi Goti e scoprire i loro segreti. Stor. Aug. p. 147.
Stor. Aug. p. 222. Eutrop. IX. 15. Sesto Rufo. c. 9 Lattanzio de mortibus Persecutorum, c. 9.
I Valacchi conservano ancora molte tracce della lingua Latina, e si sono sempre gloriati di discendere dai Romani. Sono circondati dai Barbari, ma non mescolati con essi. Vedi una Memoria del Sig. D'Anville sulla Dacia antica nell'Accademia delle iscrizioni, tom. XXX.
Vedi il primo Capitolo di Giornandes. I Vandali però (c. 22) conservarono una certa indipendenza tra i fiumi Marisia e Crissia (Maros e Keres) che sboccano nel Tibisco.
Dexippo, p. 7, 22. Zosimo l. I. p. 43. Vopisco in Aureliano nella Stor. Aug. Per quanto questi Storici differiscano nei nomi (Alemanni, Jutungi e Marcomanni) egli è evidente che indicano la stessa nazione e la stessa guerra, ma conviene usar molta cura nel conciliarli e spiegarli.
Cantoclaro, con la solita sua accuratezza, preferisce di tradurre trecentomila: la sua versione ripugna ugualmente al senso e alla grammatica.
Possiamo osservare come un esempio di cattivo gusto, che Dexippo applica all'infanteria leggera degli Alemanni i termini tecnici, propri solamente della Greca falange.
In Dexippo si legge adesso Rhodanus. Il Sig. di Valois molto giudiziosamente cambia la parola in Eridanus.
L'Imperatore Claudio era certamente in quel numero; ma non sappiamo fin dove si estendesse questo segno di rispetto: se fino a Cesare ed Augusto, deve aver prodotto un superbo formidabile spettacolo quella lunga serie di padroni del mondo.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 210.
Dexippo mette in lor bocca una prolissa orazione, degna di un Greco sofista.
Stor. Aug. p. 215.
Dexippo p. 12.
Vittore Juniore in Aureliano.
Vopisco nelle Stor. Aug. p. 216.
Il piccol fiume o piuttosto torrente del Metauro, vicino a Fano, è divenuto immortale per uno Storico, quale è Livio, ed un poeta, quale è Orazio.
Se ne fa menzione in una iscrizione trovata in Pesaro. Vedi Gruter. CCLXXVI. 3.
Alcun penserebbe, dic'egli, che voi foste radunati in una Chiesa Cristiana, e non nel tempio di tutti gli Dei.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 215, 216 fa una lunga descrizione di queste cerimonie, estratta dai Registri del Senato.
Plinio Stor. nat. III. 5. Per confermare la nostra idea, è da osservarsi, che per lungo tempo il monte Celio fu un bosco di quercie, ed il monte Viminale fu coperto di salci; che nel quarto secolo l'Aventino era un disabitato e solitario ritiro; che fino al tempo di Augusto l'Esquilino rimase un insalubre cimitero; e che le numerose ineguaglianze, osservate dagli antichi nel Quirinale, provano sufficientemente, che non era coperto di fabbriche. Dei Sette Colli, il Capitolino ed il Palatino solamente, con la valli adiacenti, furono la primiera abitazione del popolo Romano. Ma questo soggetto richiederebbe una dissertazione.
Exspatiantia tecta multas addidere urbes, è l'espressione di Plinio.
Stor. Aug. p. 222. Lipsio, ed Isacco Vossio hanno di buona voglia adottata questa misura.
Ved. Nardini Roma antica, l. I. c. 8.
Tacito Stor. IV. 23.
Intorno alla muraglia di Aureliano, vedi Vopisco nella Stor. Aug. p. 216, 222. Zosimo, l. I. p. 43. Eutrop. IX 15. Aurel. Vittore in Aureliano, Vittore Juniore in Aureliano, Euseb. Hieronym. e Idazio in Chronic.
Il suo competitore fu Lolliano o Eliano, se veramente questi due nomi indicano la stessa persona. Ved. Tillemont, tom. III. p. 1177.
Il carattere che fa di questo Principe Giulio Ateriano (appresso la Stor. Aug. p. 187) merita di esser trascritto, giacchè sembra bello ed imparziale: «Victorino qui post Junium Posthumium Gallias rexit, neminem existimo praeferendum; non in virtute Traianum; non Antoninum in clementia; non in gravitate Nervam; non in gubernando aerario Vespasianum, non in censura totius vitae ac severitate militari Pertinacum vel Severum. Sed omnia haec libido et cupiditas voluptatis mulierariae sic perdidit, ut nemo audeat virtute ejus in litteras mittere, quem constat omnium judicio meruisse puniri».
Egli rapì la moglie di Attiziano, attuario, o agente dell'esercito. Stor. Aug. p. 186. Aurel. Vittore in Aureliano.
Pollione assegna ad essa un articolo fra i trenta Tiranni. Stor. Aug. p. 206.
Pollione nella Stor. Aug. p. 196. Vopisco nella Stor. Aug. p. 220. I due Vittori nelle vite di Gallieno e di Aureliano; Eutropio, IX. 13. Euseb. in Chron. Di tutti questi Scrittori solamente i due ultimi (ma con gran probabilità) pongono la caduta di Tetrico innanzi a quella di Zenobia. Il Sig. di Boze (nell'Accademia delle Iscrizioni tom. XXX) non vorrebbe, e Tillemont (tom. III. p. 1189) non ardisce seguitarli. Io sono stato più sincero dell'uno, e più ardito dell'altro.
Vittore Juniore in Aurel. Eumenio nomina queste truppe Batavicae; alcuni critici senza alcuna ragione vorrebbero cambiar quella voce in Bagaudicae.
Eumen. in vel. Panegir. IV. 8.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 246. Autun non fu ristaurata fino al regno di Diocleziano: Ved. Eumenio de restaurandis scholis.
Quasi tutto quel che si dice dei costumi di Odenato e di Zenobia, è preso dalle loro vite nella Stor. Aug. di Trebellio Pollione. Vedi p. 192, 198.
Essa non riceveva mai gli abbracciamenti del suo marito che per l'oggetto di aver prole. Se le sue speranze restavan deluse, reiterava il tentativo nel susseguente mese.
Stor. Aug. p. 192, 193. Zosimo l. I. p. 36. Zonara, l. XII. p. 633. L'ultimo è chiaro e probabile; sono gli altri confusi e inconsistenti. Il testo di Sincello, se non è coretto, è assolutamente inintelligibile.
Odenato e Zenobia spesso gli mandavano doni di gemme e gioielli, scelte tra le spoglie del nemico, ed esso li riceveva con infinito piacere.
Sono stati promossi alcuni ingiustissimi sospetti sopra Zenobia, come se stata fosse complice dell'uccisione del marito.
Stor. Aug. p. 180, 181.
Vedi nella Stor. Aug. p. 198 la testimonianza che rende Aureliano al di lei merito; e per la conquista dell'Egitto Zosimo l. I, p. 39, 40.
Timolao, Erenniano e Vaballato. Si suppone che i due primi fosser già morti avanti la guerra. Aureliano concesse all'ultimo di questi una piccola Provincia dell'Armenia col titolo di Re. Esistono tuttora diverse medaglie di lui. Vedi Tillemont, tom. III. p. 1190.
Zosimo l. I, p. 44.
Vopisco (nella Stor. Aug. p. 217) ci dà una lettera autentica, ed una dubbia visione di Aureliano. Apollonio di Tiana era nato quasi contemporaneamente a Gesù Cristo. La vita del primo vien riferita dai suoi discepoli in un modo tanto favoloso, che non si può conoscere se fosse un savio, un impostore, od un fanatico.
Zosimo, l. I. p. 46.
In un luogo chiamato Immoe, Eutropio, Sesto Ruffo e S. Girolamo fanno solamente menzione di questa prima battaglia.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 217 fa solamente menzione della seconda.
Zosimo l. I. p. 44, 48. La sua descrizione delle due battaglie è chiara e circostanziata.
Era 537 miglia distante da Seleucia, e dugentotre dalla più vicina costa della Siria, secondo la relazione di Plinio, che in poche parole (Stor. nat. V. 21) ne porge una eccellente descrizione di Palmira.
Alcuni viaggiatori Inglesi che partirono da Aleppo, scoprirono le rovine di Palmira verso il fine dell'ultimo secolo. La nostra curiosità è stata poi soddisfatta più splendidamente dai Signori Wood e Dawkins. Per la Storia di Palmira possiam consultare la magistrale dissertazione del Dottor Halley nelle Transazioni Filosofiche, compendio di Lowthorp. vol. III. p. 528.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 218.
Da una incertissima Cronologia ho procurato di estrarre la data più probabile.
Stor. Aug. p. 218. Zosimo, l. I. p. 50. Benchè il cammello sia una grave bestia da soma, pure il dromedario, che è della stessa specie o di una specie affine, vien usato dai natii dell'Asia e dell'Affrica in tutte le occasioni che richieggono celerità. Affermano gli Arabi che il dromedario può far tanto cammino in un giorno, quanto ne fanno in otto o dieci giorni i loro cavalli più corridori. Vedi Buffon. Storia nat. tom. XI. p. 122, ed i Viaggi di Shaw, p. 167.
Pollione nella Stor. Aug. p. 299.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 219. Zosimo, l. I. p. 51.
Stor. Aug. p. 219.
Vedi Vopisco nella Stor. Aug. p. 220, 242. Viene osservato, come esempio di lusso, ch'egli avea le finestre di vetro. Era famoso per la forza e per l'appetito, pel coraggio e per la destrezza. Dalla lettera di Aureliano si può giustamente inferire, che Fermo fu l'ultimo dei ribelli, e conseguentemente che Tetrico era già sottomesso.
Vedi il trionfo di Aureliano descritto da Vopisco. Egli riferisce le particolarità colla sua solita esattezza, ed in questa occasione sono fortunatamente interessanti. Stor. Aug. p. 220.
Fra le barbare nazioni, le donne hanno spesso combattuto ai fianchi dei loro mariti. Ma è quasi impossibile, che una società di Amazzoni sia mai esistita o nel vecchio o nel nuovo mondo.
L'uno delle braccae o calzoni era tuttavia considerato in Italia come una gallica e barbara moda. I Romani per altro vi si erano molto avvicinati. Il cingersi le gambe e cosce con fasce o strisce, si prendeva ai tempi di Pompeo e di Orazio, come una prova di malattia, o di effemminatezza. Nel secolo di Traiano l'uso di queste era limitato alle persone ricche e di lusso. Fu a poco a poco adottato dai più vili del popolo. Vedi una curiosa nota del Casaubono, ad Sveton. in August. c. 82.
Erano i primi, assai probabilmente; i secondi nelle medaglie di Aureliano non indicano (come giudica il dotto Cardinal Noris) che una vittoria orientale.
L'espressione di Calfurnio (Eglog. l. 50.) «Nullos ducet captiva triumphos» come applicata a Roma, contiene una manifestissima allusione e censura.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 199. Hieronym. in Chron. Prosper. in Chron. Baronio suppone che Zenobio, vescovo di Firenze ai tempi di S. Ambrogio, fosse della famiglia di lei.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 222. Eutropio, IX. 13. Vittore Juniore. Ma Pollione nella Stor. Aug. p. 196 dice che Tetrico fu fatto Censore di tutta l'Italia.
Stor. Aug. p. 197.
Vopisco nella Stor. Aug. 222. Zosimo l. I. p. 156. Egli vi collocò le immagini di Belo e del Sole, che portate avea da Palmira. Fu questo dedicato nel quarto anno del suo regno (Euseb. in Chron.), ma fu sicurissimamente cominciato dopo il suo avvenimento al trono.
Vedi nella Stor. Aug, p. 210. i presagi della fortuna di lui. La sua devozione al Sole apparisce nelle sue lettere, nelle sue medaglie, ed è riferita nei Cesari di Giuliano. Vedi Comment. di Spanemio, p. 109.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 221.
Stor. Aug. p. 222. Aureliano nomina quei soldati, Hiberi, Riparienses, Castriari, et Dacisci.
Zosimo, l. I. p. 56. Eutropio IX. 14. Aurel. Vittore.
Stor. Aug. p. 223. Aurel. Vittore.
Infierì già prima del ritorno di Aureliano dall'Egitto. Vedi Vopisco, che cita una lettera originale. Stor. Aug. p. 244.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 222. I due Vittori. Eutropio 9, 14. Zosimo (l. I. p. 43) fa menzione di soli tre Senatori, e pone la lor morte avanti la guerra d'Oriente.
«Nulla catenati feralis pompa Senatus
Carnificum lassabit opus: nec carcere pleno
Infelix ruros numerabit curia Patres.»Calfurn, Eclog. I. 60.
Secondo Vittore Juniore egli portò qualche volta il Diadema. Si legge sulle di lui medaglie Deus e Dominus.
Era questa osservazione di Diocleziano. Vedi Vopisco nella Stor. Aug. p. 224.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 221. Zosimo l. I, p. 57. Eutrop. IX. 15. I due Vittori.
Vopisco Stor. Aug. p. 222. Aurelio Vittore fa menzione, di una formal deputazione fatta dalla truppe al Senato.
Vopisco, nostra principale autorità, scriveva in Roma solamente sedici anni dopo la morte di Aureliano; ed oltre alla recente notizia dei fatti, trae costantemente i suoi materiali dai giornali del Senato, e dagli scritti originali della libreria Ulpiana. Zosimo e Zonara compariscono così ignoranti di questo trattato, come lo erano generalmente della costituzione Romana.
Livio l. 17. Dionisio Alicarnas. l. II. p. 115. Plutarco in Numa, p. 60. Il primo di questi Scrittori riferisce la storia come un oratore, il secondo come un legista ed il terzo come un moralista, e niuno probabilmente senza qualche mescuglio di favola.
Vopisco (nella Stor. Aug. p. 227) lo chiama primae sententiae consularis, e subito dopo, Princeps Senatus. È naturale il supporre, che i Monarchi di Roma sdegnando quell'umil titolo, lo cedessero al più antico fra i Senatori.
L'unica obbiezione a questa genealogia è che lo Storico si nominava Cornelio, l'Imperatore Claudio. Ma sotto il basso Impero, i soprannomi erano estremamente vari ed incerti.
Zonara, l. XII, p. 637. La Cronica Alessandrina, per un facile errore, trasferisce quell'età ad Aureliano.
Nell'anno 273 egli fu Console ordinario, ma debbe essere stato suffetto molti anni avanti, e probabilmente sotto Valeriano.
Bis millies octingenties. Vopisco nella Stor. Aug. p. 229. Questa somma, secondo l'antica misura, equivaleva ad ottocento quarantamila libbre Romane di argento, ciascuna della valuta di sei zecchini. Ma nel secolo di Tacito il conio avea perduto molto nel peso e nella purità.
Dopo il suo avvenimento, ordinò che si facessero annualmente dieci copie dello Storico, e si collocassero nelle pubbliche librerie. Le librerie Romane sono da gran tempo perite, e la più stimabil parte di Tacito fu conservata in un solo MS. e scoperta in un Monastero della Vestfalia. Vedi Bayle, Dizionario. Art. Tacito, e Lipsio ad Annal. II. 9.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 227.
Stor. Aug. p. 228. Tacito indirizzandosi ai Pretoriani, li nominava sanctissimi milites, ed il popolo, sacratissimi Quirites.
Nelle sue manumissioni non eccedè mai il numero di cento, come limitato dalla legge Caninia promulgata sotto Augusto, e finalmente abolita da Giustiniano. Vedi Casaubono ad locum Vopisci.
Vedi le vita di Tacito, di Floriano, e di Probo nella Stor. Aug. Possiamo assicurarci che tutto ciò che diede il Soldato, lo avea già dato il Senatore.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 236: il passo è chiarissimo, ma Casaubono e Salmasio vorrebbero correggerlo.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 230, 232, 233. I Senatori celebrarono quel felice ristabilimento con ecatombi e con pubbliche allegrezze.
Stor. Aug. p. 228.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 230. Zosimo l. I. p. 57. Zonara, l. XII. p. 637. Due passi della vita di Probo (p. 236 238.) mi persuadono che questi Sciti, invasori del Ponto, fossero Alani. Se dar possiam fede a Zosimo (l. I. 58.) Floriano li perseguitò fino al Bosforo Cimmerio. Ma egli ebbe appena tempo per una spedizione tanto lunga e difficile.
Eutropio ed Aurelio Vittore dicon solamente ch'egli morì. Vittore Giuniore aggiunge, ch'egli morì di febbre. Zosimo e Zonara affermano, ch'egli fu ucciso dai soldati. Vopisco riferisce le due relazioni, e sembra incerto. Sono per altro facilmente conciliabili queste diverse opinioni.
Secondo i due Vittori egli regnò precisamente dugento giorni.
Stor. Aug. 231. Zosimo, l. I. p. 58, 59. Zonara, l. XII. p. 637. Aurelio Vittore dice che Probo assunse l'Impero nell'Illirico; opinione la quale (benchè adottata da un uomo dottissimo) getterebbe una insuperabile confusione in quel periodo di storia.
Stor. Aug. p. 229.
Egli dovea inviare dei Giudici ai Parti, ai Persiani, ed ai Sarmati, un Presidente alla Taprobana, ed un Proconsole nell'Isola Romana, supposta dal Casaubono e da Salmasio essere la Britannia. Una storia quale è la mia (dice Vopisco con giusta modestia) non sussisterà mille anni per potere esporre o giustificare la predizione.
Per la vita privata di Probo, vedi Vopisco nella Stor. Aug. p. 234, 237.
Secondo la Cronaca Alessandrina egli era nell'età di cinquant'anni quando morì.
La lettera era indirizzata al Prefetto del Pretorio, il quale (supposta la di lui buona condotta) egli promise di mantenere nell'importante sua carica. Vedi Stor. Aug. p. 237.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 237. La data della lettera è certamente erronea. In vece di Non. Februar. si può leggere Non. Augusti.
Stor. Aug. p. 238. È cosa strana che il Senato trattasse Probo men favorevolmente di Marco Antonino. Avea quel Principe ricevuto, anche prima della morte di Pio, il Jus quintae relationis. Vedi Capitolin. nella Stor. Aug. p. 24.
Vedi la rispettosa lettera di Probo al Senato dopo le sue vittorie Germaniche Stor. Aug. p. 239.
La data e la durata del Regno di Probo sono esattamente fissate dal Cardinal Noris nella sua dotta opera, De Epochis Siro-Macedonum, p. 96, 105. Un passo di Eusebio congiunge il secondo anno di Probo con le Ere di diverse città della Siria.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 239.
Zosimo (l. I, p. 62-65) racconta una lunghissima e frivolissima istoria di Licio, masnadiere Isaurico.
Zosimo l. I, p. 65. Vopisco nella Stor. Aug. p. 239, 240. Ma sembra incredibile, che la disfatta dei selvaggi della Etiopia potesse interessare il Monarca Persiano.
Oltre a questi capi ben cogniti, fa Vopisco menzione di vari altri, le azioni dei quali non sono venute a nostra notizia.
Vedi i Cesari di Giuliano e la Stor. Aug. p. 238, 240, 241.
Zosimo, l. I. p. 62. Stor. Aug. p. 240. Ma l'ultima suppone che fosse dato ad essi il castigo col consenso dei loro Re: se ciò è vero, fu parziale come l'offesa.
Vedi Cluver. Germania antica l. III. Tolomeo pone nel loro paese la città di Calisia, che è forse Calish nella Slesia.
Feralis umbra, tale è l'espressione di Tacito: è veramente molto ardita.
Tacit. Germania (c. 43.).
Vopisco nella Stor. Aug. p. 238.
Stor. Aug. p. 238, 239. Vopisco cita una lettera dell'Imperatore al Senato, nella quale egli fa menzione del suo disegno di ridurre la Germania in Provincia.
Strabone l. VII. Secondo Velleio Patercolo (II. 108.) Maroboduo condusse i suoi Marcomanni nella Boemia. Cluverio (German. antic. III. 8.) prova che vennero dalla Svevia.
Questi Regolatori del pagamento delle Decime furono detti Decumates; Tacit. Germania, c. 29.
Vedi le note dell'Abate de la Bleterie alla Germania di Tacito, p. 183. La sua descrizione della muraglia è presa principalmente (come dic'egli stesso) dall'Alsazia illustrata di Schoeflin.
Vedi ricerche sopra i Chinesi e gli Egiziani, tom. II, p. 81, 202. L'anonimo Autore è bene istruito del globo in generale e della Germania in particolare: riguardo alla seconda, egli cita un'Opera del sig. Hanselman; ma pare ch'egli confonda la muraglia di Probo, destinata contro gli Alemanni, con la fortificazione dei Mattiaci, costruita nelle vicinanze di Francfort contro i Catti.
Egli distribuì quasi cinquanta o sessanta Barbari in circa per numero; come allor si chiamava un corpo, che non sappiamo precisamente da quanti individui fosse composto.
Cambden, in Britannia, introduzione, p. 136; ma egli parla sopra un'incertissima congettura.
Zosimo, l. 1, p. 62. Secondo Vopisco, un altro corpo di Vandali fu meno fedele.
Stor. Aug. p. 240. Furono probabilmente discacciati dai Goti. Zosimo l. I. p. 66.
Stor. Aug. p. 240.
Panegir. antic. V. 18. Zosimo, l. I. p. 66.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 245, 246. L'infelice Oratore avea studiata la retorica a Cartagine, e perciò era probabilmente Mauro (Zosimo l. I, p. 60) anzichè Gallo, come lo dice Vopisco.
Zonara, l. XII. p. 638.
Si racconta un esempio assai sorprendente della prodezza di Proculo. Egli avea preso cento vergini Sarmate. Il resto della storia egli stesso lo riferisca nella sua propria lingua; «Ex his una nocte decem inivi: omnes tamen, quod in me erat, mulieres intra dies quindecim reddidi». Vopisco nella Stor. Aug. p. 247.
Proculo, ch'era nativo di Albenga nella riviera di Genova, armò duemila dei suoi schiavi. Grandi erano la sue ricchezze, ma acquistate per mezzo di ladronecci. Fu poi un detto della sua famiglia, nec latrones esse, nec principes sibi placere. Vopisco Stor. Aug. p. 247.
Stor. Aug. p. 240.
Zosimo l. I. p. 66.
Stor. Aug. p. 236.
Aurelio Vittore in Probo; ma la politica di Annibale, non ricordata da alcun altro più antico Scrittore, è inconciliabile con la storia della sua vita. Egli lasciò l'Affrica in età di nove anni, vi ritornò di quarantacinque ed immediatamente perdè la sua armata nella decisiva battaglia di Zama: Livio, XXX. 37.
Stor. Aug. p. 240. Eutrop. IX, 17. Aurelio Vittore in Probo. Vittore Juniore. Egli rivocò la proibizione di Domiziano, ed accordò ai Galli, ai Brettoni, ed ai Pannonj la general permissione di piantar viti.
Giuliano fa una severa, e veramente eccessiva censura del rigore di Probo, il quale, come egli pensa, meritò quasi il suo destino.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 24. Egli profonde su questa vana speranza un lungo squarcio d'insulsa eloquenza.
Turris ferrata. Sembra che fosse una torre mobile e fasciata di ferro.
«Probus et vere Probus situs est: victor omnium gentium barbararum: Victor etiam Tyrannorum».
Tutto questo per altro può conciliarsi. Egli era nato a Narbona nell'Illirico, confusa da Eutropio colla più famosa città di quel nome nelle Gallie. Suo Padre potea essere un Affricano, e sua madre una Dama Romana. Caro fu educato egli stesso nella Capitale. Vedi Scaligero, animadv. ad Euseb. Chron. p. 241.
Probo aveva richiesto al Senato una statua equestre, ed un palazzo di marmo a pubbliche spese, come ricompense dovute al merito singolare di Caro. Vopisco nella Stor. Aug. p. 249.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 242,249. Giuliano esclude l'Imperator Caro, ed ambi i figliuoli di lui dal convito dei Cesari.
Giovanni Malela, tom. I. p. 401. Ma l'autorità di quel Greco ignorante è molto leggiera. Egli ridicolosamente fa venire da Caro la città di Carre, la Provincia di Caria, l'ultima delle quali è menzionata da Omero.
Stor. Aug. p. 249. Caro si congratulò coi Senatori perchè uno del loro Ordine era stato fatto Imperatore.
Stor. Aug. p. 242.
Vedi la prima egloga di Calfurnio. Fontenelle ne preferisce il disegno a quello del Pollione di Virgilio. Vedi tom. III. pag. 148.
Stor. Aug. p. 353. Eutropio, IX. 18. Pagi annal.
Agatia l. IV. p. 135. Si trova una delle sue sentenze nella Bibliot. Orient. del Sig. d'Herbelot. «La definizione dell'umanità contiene tutte le virtù».
Sinesio attribuisce questo fatto a Carino, ed è molto più naturale di riferirlo a Caro, che a Probo, come vorrebbero il Petavio ed il Tillemont.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 250. Eutropio IX. 18. I due Vittori.
Alla vittoria Persiana di Caro io riferisco il dialogo del Filopatride, ch'è stato per tanto tempo un soggetto di disputa tra i letterati. Ma sarebbe necessaria una dissertazione per ischiarire e giustificare la mia opinione.
Stor. Aug. p. 250. Ma Eutropio, Festo, Rufo, i duo Vittori, Girolamo, Sidonio Apollinare, Sincello e Zonara, tutti attribuiscono ad un fulmine la morte di Caro.
Vedi Nemesian. Cynegeticon. V. I. ec.
Vedi Festo ed i suoi comentatori sulla parola Scribonianum. I Luoghi percossi dal fulmine venivan circondati con un muro; le cose eran bruciate con misteriose cerimonie.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 250. Aurelio Vittore sembra che presti fede alla predizione, ed approvi la ritirata.
Nemesian. Cynegiticon, V. 69. Egli era contemporaneo, ma poeta.
Cancellarius. Questa parola, così umile nella sua origine, è per una singolar fortuna divenuta il titolo della prima gran carica di Stato nelle monarchie dell'Europa. Vedi Casaubono e Salmasio, ad Histor. August. p. 253.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 253, 254. Eutropio, IX. 19. Vittore Juniore. Il regno di Diocleziano, per vero dire, fu così lungo e prospero, che dovè esser molto favorevole alla reputazione di Carino.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 254. Egli lo nomina Caro, ma il senso è naturale abbastanza, e le parole furono spesso confuse.
Vedi Calfurnio egloga VII. 43. È da osservarsi che gli spettacoli di Probo erano tuttavia recenti, e che il poeta vien secondato dallo Storico.
Il filosofo Montaigne (Saggi. L. III. 6.) fa un molto giusto e vivace quadro della magnificenza romana in questi spettacoli.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 240.
Vengono nominati Onagri: ma il numero n'è troppo piccolo per semplici asini selvaggi. Cuper (de Elephant. exercitat. II. 7) ha provocato con le autorità di Oppiano, di Dione e di un Anonimo Greco, che si erano in Roma viste le zebre. Vi furono portate da qualche isola dell'Oceano, forse dal Madagascar.
Carino presentò un ippopotamo (Vedi Calf. Eglog. VII. 66.) Negli ultimi spettacoli io non ritrovo coccodrilli, dei quali una volta Augusto ne fece vedere trentasei. Dione Cassio, l. LV. p. 781.
Capitolin. nella Stor. Aug. p. 164, 165. Noi non conosciamo gli animali, ch'egli nomina archeleontes: alcuni leggono argoleontes, altri agrioleontes; ambedue queste correzioni sono molto puerili.
Plinio Stor. Nat. VIII. 6. Dagli annali di Pisone.
Vedi Maffei Verona illustr. P. IV. l. I. c. 2.
Maffei l. II. c. 7. L'altezza fu molto più esagerata dagli antichi. S'innalzava quasi al Cielo, secondo Calfurnio (Eglog. VII. 23), ed oltrepassava il termine della vista umana secondo Ammiano Marcellino (XVI. 10.) Contuttociò quanto era piccola cosa riguardo alla gran Piramide dell'Egitto, che ha cinquecento piedi di perpendicolo!
Secondo diverse copie di Vitruvio, si legge 77000, o 87000 spettatori; ma il Maffei (l. II. c. 12) su i sedili scoperti non trova luogo che per 34000. Il rimanente entrava nelle superiori gallerie coperte.
Vedi Maffei l. II. c. 5-11. Egli tratta questo difficilissimo soggetto con tutta la possibil chiarezza, e come architetto non meno che come antiquario.
Calfurnio Egloga VII. 64, 73. Curiosi sono questi versi; e tutta l'Egloga è stata di un uso infinito al Maffei. Calfurnio non men che Marziale, (vedi il suo I. libro) era poeta, ma quando essi ritrassero l'anfiteatro, scrissero ambidue secondo i propri lor sentimenti, e quei dei Romani.
Vedi Plin. Stor. nat. XXXIII. 16. XXXVII. 11.
Balteus en gemmis, en inclita porticus auro
Certatim radiant ec.
Calfurn. VII.
Et Martis vultus et Apollinis esse putavi, dice Calfurnio; ma Giovanni Malela, che avea forse veduto qualche ritratto di Carino, lo rappresenta come grosso, piccolo e bianco, tomo I. p. 403.
Riguardo al tempo in cui questi giuochi romani furono celebrati, Scaligero, Salmasio e Cuper si sono dati gran pena per oscurare un soggetto chiarissimo.
Nemesiano, nei Cinegetici, sembra che anticipi colla sua immaginazione quel fausto giorno.
Vinse tutte le corone a Nemesiano, col quale contendeva nella poesia didattica. Il Senato eresse una statua al figliuolo di Caro, con una iscrizione molto ambigua. «Al più potente degli Oratori». Vedi Vopisco nella Stor. Aug. p. 251.
Cagione almeno più naturale di quella che assegna Vopisco (Stor. Aug. p. 251.) cioè il continuo piangere per la morte di suo padre.
Nella guerra Persiana, Apro fu sospettato di aver disegno di tradir Caro. Stor. Aug. p. 250.
Noi dobbiamo alla Cronica Alessandrina (p. 274) la notizia del tempo e del luogo, dove Diocleziano fu eletto Imperatore.
Stor. Aug. p. 251. Eutrop. IX. 18. Hieronym. in Chron. Secondo questi giudiziosi Scrittori, la morte di Numeriano si scoprì pel fetore del suo cadavere. Non si potevano forse trovare aromati nella Tenda Imperiale?
Aurelio Vittore. Eutropio, IX. 20. Hieronym. in Chron.
Vopisco nella Stor. Aug. p. 252. La ragione, por cui Diocleziano uccise Apro (cinghiale) era fondata sopra una predizione e sopra un giuoco di parole egualmente ridicoli che conosciuti.
Eutropio ne segna il sito molto accuratamente; questo fu tra il Monte Aureo ed il Viminiaco. Il Sig. Danville (Geograf. antica tom. I. p. 304) pone Margo a Kastolatz nella Servia, un poco sotto Belgrado e Semendria.
Stor. Aug. p. 254. Eutrop. IX. 20. Aurelio Vittore. Vittore in Epitom.
Eutropio IX. 19. Vittore in Epitom. Sembra che la città fosse propriamente detta Daclia da una piccola tribù d'Illirici. (Vedi Cellario, Geograf. antic. tom. I. p. 393). Probabilmente il primo nome del felice schiavo fu Docles, che allungò dopo per servire alla greca armonia in quel di Diocles, e che finalmente convertì in quello di Diocletianus, come più proprio della maestà Romana. Prese parimente il nome patrizio di Valerio, che gli viene ordinariamente dato da Aurelio Vittore.
Vedi Dacier sulla sesta satira del secondo libro di Orazio, Cornel. Nip. nella vita di Eumene. c. I.
Lattanzio (o chiunque fu l'autore del piccol trattato de mortibus persecutorum) accusa in due luoghi Diocleziano di timidità c. 7, 8. Nel cap. 9, dice di lui «erat in omni tumultu meticulosus et animi disiectus».
In questo elogio sembra che Aurelio Vittore insinui una giusta, benchè indiretta censura, della crudeltà di Costanzo. Apparisce dai fasti, che Aristobolo rimase Prefetto della città, e che terminò con Diocleziano il Consolato ch'egli avea cominciato con Carino.
Aurel. Vittore nomina Diocleziano «Parentem potius quam Dominum». Vedi Stor. Aug. p. 30.
La questione del tempo, in cui Massimiano ricevesse la dignità di Cesare e di Augusto, avea divisi i critici moderni, e data occasione ad un gran numero di dotte dispute. Io ho seguitato il Tillemont, (Stor. degl'Imperat. t. IV. p. 500-505) che ha bilanciato le diverse difficoltà e ragioni colla solita sua scrupolosa esattezza.
In una orazione recitata dinanzi a lui (Panegir. vet. II. 8.) Mamertino dubita se il suo Eroe, imitando la condotta di Annibale e di Scipione, ne avesse mai udito i nomi. Possiamo quindi benissimo inferire, che Massimiano ambiva più di essere stimato come soldato che come uomo di lettere: ed in tal guisa si può spesso saper la verità dal linguaggio medesimo dell'adulazione.
Lattanzio de M. P. c. 8 Aurel. Vittore. Siccome tra i Panegirici si trovano orazioni recitate in lode di Massimiano, ed altre che adulano i di lui avversarj a sue spese, si ricava qualche verità da questo contrasto.
Vedi i Panegir. 2 e 3, e particolarmente III. 3, 10, 14, ma sarebbe cosa tediosa il copiare le prolisse ed affettate espressioni della falsa loro eloquenza. Riguardo ai titoli si consulti Aurel. Vittore, Lattanzio de M. P. c. 52. Spanhemio de usu Numism. etc. Dissert. XII. 8.
Aurel. Vittore, in Epitom. Eutrop. IX. 22. Lattanzio de M. P. c. 8. Hieronym. in Chron.