Stato del Mondo Barbaro. Stabilimento dei Lombardi sul Danubio. Tribù e scorrerie degli Schiavoni. Origine, impero ed ambascerie dei Turchi. Fuga degli Avari. Cosroe I ossia Nushirvan re di Persia. Suo regno fortunato, e guerra coi Romani. La guerra Colchica o Lazica. Gli Etiopi.
La nostra maniera di valutare il merito degl'individui è relativa alle comuni facoltà dell'uman genere. Gli ambiziosi sforzi del genio o della virtù, sì nella vita operativa che nella speculativa, vengono misurati non tanto secondo la real loro grandezza, quanto secondo l'altezza a cui giungono, sopra il livello del loro secolo e della lor patria: e quella stessa statura che fra un popolo di giganti non verrebbe avvertita, fra una schiatta di Pigmei apparirà riguardevole. Leonida, ed i suoi trecento compagni sacrificarono la vita alle Termopili; ma l'educazione del fanciullo, dell'adolescente e dell'uomo avea preparato, e quasi assicurato questo memorabil sacrifizio; ed ogni Spartano dovette approvare, piuttosto che ammirare un atto di dovere, di cui egli stesso, ed ottomila de' suoi concittadini sarebbero stati egualmente capaci1. Il Gran Pompeo potè inscrivere sopra i suoi trofei, che vinto egli avea in battaglia due milioni di nemici, e sottomesso mille cinquecento città dalla Palude Meotide sino al Mar Rosso2. Ma la fortuna di Roma volava dinanzi alle sue aquile; le nazioni erano domate dal loro proprio terrore, e le invincibili legioni che egli comandava erano state formate dalla consuetudine della conquista e dalla disciplina dei secoli. Riguardato da questo canto il carattere di Belisario può meritamente esser posto al di sopra degli Eroi delle antiche Repubbliche. Nascevano le sue imperfezioni dal contagio dei tempi; proprie di lui e libero dono della natura e della riflessione erano le sue virtù. Egli s'inalzò senza maestro o rivale; e così disuguali erano le armi commesse alla sua destra, che l'orgoglio e la presunzione de' suoi avversari formavano il suo solo vantaggio. Condotti da un tal Capo, i sudditi di Giustiniano spesso meritarono di esser chiamati Romani: non pertanto i superbi Goti, che affettavano di arrossire nel dover contendere il Regno d'Italia, con una nazione di tragedianti, di pantomimi e di pirati, li denominavano Greci, quasi termine di disprezzo con che significar credevano un animo imbelle3. Il clima dell'Asia, a dir vero, è meno di quello d'Europa confacente alla militare virtù: quelle popolose contrade erano snervate dal lusso, dal dispotismo e dalla superstizione; ed i monaci costavano davvantaggio ed erano più numerosi che i soldati dell'Oriente. Le forze regolari dell'Impero si erano altre volte alzate sino a sei cento quarantacinquemila uomini: al tempo di Giustiniano esse eransi ridotte a cento cinquantamila uomini, e questo numero, per grande che possa parere, era sparso qua e là per terra e per mare, nella Spagna e nell'Italia, nell'Affrica e nell'Egitto, sulle rive del Danubio, sulla costa dell'Eusino e sulle frontiere della Persia. Esausti erano i cittadini, eppure i soldati non ricevevano la paga; la miseria loro veniva dannosamente mitigata dal privilegio di rubare e di far nulla; ed i tardivi pagamenti venivano trattenuti od intercettati dalla frode di quegli agenti che, senza coraggio o pericolo, si usurpano gli emolumenti della guerra. La miseria pubblica e privata reclutava gli eserciti dello Stato; ma nel campo, e più ancora al cospetto dell'inimico, sempre difettoso era il lor numero. Alla mancanza dello spirito nazionale si suppliva colla precaria fede e coll'indisciplinato servizio dei Barbari mercenari. Persino l'onor militare, che sovente sopravvive alla perdita della virtù e della libertà, giacevasi quasi estinto del tutto. I generali, moltiplicati al di là dell'esempio dei tempi antichi, non attendevano che ad impedire il buon successo, od a macchiare la fama de' loro colleghi; e l'esperienza aveva loro insegnato che se il merito alle volte provocava la gelosia; l'errore, od anche il delitto poteva ottenere l'indulgenza di un Imperatore clemente4. In un secolo come quello, i trionfi di Belisario, e poi quelli di Narsete dovettero spiccare di incomparabil luce; ma essi erano circondati dalle più cupe ombre della disgrazia e della calamità. Nel mentre che il Luogotenente di Giustiniano soggiogava i regni dei Goti e dei Vandali, il timido5 benchè ambizioso Imperatore equilibrava le forze dei Barbari, ne fomentava le divisioni mediante l'adulazione e la menzogna, e colla sua pazienza e liberalità pareva invitarli a replicare gli oltraggi6. Le chiavi di Cartagine, di Roma e di Ravenna, venivano ossequiosamente presentate al loro conquistatore, nel tempo che Antiochia era distrutta dai Persiani, e tremava Giustiniano per la salvezza di Costantinopoli.
Le stesse vittorie gotiche di Belisario tornavano di pregiudizio allo Stato, poichè distruggevano l'importante barriera del Danubio superiore, che Teodorico e la sua figlia avevano così fedelmente guardata. Per difender l'Italia, i Goti sgombrarono la Pannonia ed il Norico, ch'essi lasciarono in pacifica e florida condizione. L'Imperator dei Romani pretendeva di signoreggiare queste due province; ma il loro possesso effettivo fu abbandonato alla temerità del primo assalitore. Sull'opposta riva del Danubio, le pianure dell'Ungheria superiore ed i colli della Transilvania, erano dopo la morte di Attila, possedute dalle tribù dei Gepidi, i quali rispettavano le armi gotiche, e disprezzavano non già l'oro dei Romani ma il segreto motivo degli annui loro sussidii. Questi Barbari s'impadronirono immediatamente delle vuote fortificazioni del fiume, essi piantarono le loro bandiere sulle mura di Sirmio e Belgrado, e l'ironico stile della loro apologia aggravava quest'insulto fatto alla maestà dell'Impero. «Tanto estesi, o Cesare, sono i vostri dominj, tanto numerose le vostre città, che del continuo voi andate cercando nazioni, alle quali od in pace od in guerra possiate abbandonare questi inutili possessi. I Gepidi sono i valorosi e fedeli vostri alleati, e se anticipatamente si sono presi i vostri doni, hanno conciò mostrato una giusta confidenza nella vostra bontà». Questa presunzione avea per iscusa il modo di vendetta abbracciato da Giustiniano. Invece di sostenere i diritti di un sovrano a cui spetta di proteggere i sudditi, l'Imperatore invitò un popolo straniero ad invadere ed a possedere le province romane che giacevano tra il Danubio e le Alpi; e l'ambizione dei Gepidi non fu rintuzzata che dalla crescente potenza e fama dei Lombardi7. Questa corrotta denominazione è stata diffusa, nel tredicesimo secolo, dai mercatanti e dai banchieri, italica posterità di que' conquistatori selvaggi; ma il primitivo nome di Longobardi non altro esprime che la particolare lunghezza e foggia della barba loro. Io non intendo di contrastare, o di giustificare la Scandinava loro origine8; nè di tener dietro alle trasmigrazioni dei Lombardi attraverso di sconosciuti paesi, e di una quantità di maravigliose avventure. Intorno ai tempi di Augusto e di Trajano splende un raggio di storica luce sopra le tenebre dell'antichità loro, e per la prima volta noi li ritroviamo in mezzo all'Elba e l'Odero. Più feroci ancora dei Germani, essi compiacevansi nello spargere la spaventevol credenza che le loro teste erano formate come le teste dei cani, e che essi bevevano il sangue dei nemici vinti in battaglia. L'adozione dei più valorosi schiavi accresceva lo scarso lor numero; e soli, in mezzo a poderosi vicini, essi difendevano colle armi la magnanima loro indipendenza. Nelle procelle del Settentrione, che mandarono sossopra tanti nomi e tante nazioni, la piccola navicella dei Lombardi si tenne a galla mai sempre. A poco a poco essi discesero verso il Mezzogiorno e il Danubio; ed in capo a quattrocento anni di nuovo ricomparvero col valore e colla riputazione di prima. Nè meno feroci erano i loro costumi. L'assassinio di un ospite reale fu eseguito al cospetto, e per comando della figlia del re, la quale era stata provocata da alcune insultanti parole, e tradita nelle sue speranze dalla poco appariscente sua statura. Il Re degli Eruli, fratello dell'infelice principe, impose un tributo, prezzo del sangue, sopra i Lombardi. L'avversità ridestò un sentimento di moderazione e di giustizia, e l'insolenza della conquista fu punita con la segnalata disfatta e l'irreparabile dispersione degli Eruli, che erano stabiliti nelle province meridionali della Polonia9. Le vittorie dei Lombardi li raccomandavano all'amicizia degli Imperatori, e ad istanza di Giustiniano essi valicarono il Danubio onde sottoporre, secondo il trattato da essi fatto, le città del Norico, e le fortezze della Pannonia. Ma lo spirito della rapina ben tosto li trasse al di là di questi estesi confini; essi vagarono lungo la costa dell'Adriatico insino a Dirrachio, e la brutale loro famigliarità gli spinse a por piede nelle città e nelle case dei Romani, loro alleati, e ad impadronirsi dei prigionieri che erano fuggiti dalle audaci lor mani. La nazione disapprovò e l'Imperatore scusò questi atti di ostilità, tratti di ardire, come essi pretesero, di alcuni sbandati avventurieri; ma le armi dei Lombardi si trovarono più seriamente impegnate in una contesa di trent'anni, la quale si terminò soltanto collo sterminio dei Gepidi. Le due nazioni in guerra spesso disputarono la loro causa innanzi al trono di Costantinopoli; e l'astuto Giustiniano, a cui i Barbari erano quasi egualmente odiosi, proferì una parziale ed ambigua sentenza, e destramente protrasse la guerra col mezzo di tardi ed inefficaci soccorsi. Formidabile era la forza loro, poichè i Lombardi, i quali mettevano in campo parecchie miriadi di soldati, non cessavano d'invocare, come essendo i più deboli, la protezione dei Romani. Pieno d'intrepidezza era il lor animo; tuttavia l'incertezza del coraggio è tale che i due eserciti furono improvvisamente colti da panico terrore; essi fuggirono l'uno dall'altro; ed i principi rivali rimasero colle lor guardie nel mezzo d'una vuota pianura. Si stipulò una tregua di breve durata; ma il reciproco risentimento si raccese ben tosto; e la memoria della vergognosa lor fuga fece sì, che più disperato e sanguinoso fosse il primo lor affrontarsi. Quarantamila Barbari perirono nella decisiva battaglia che distrusse la potenza dei Gepidi, cangiò di oggetto i timori e i desiderj di Giustiniano, e per la prima volta mostrò sulla scena il carattere di Alboino, giovane principe dei Lombardi, e futuro conquistator dell'Italia10.
Il popolo selvaggio che abitava od errava nelle pianure della Russia, della Lituania e della Polonia nel secolo di Giustiniano, si può ridurre alle due grandi famiglie dei Bulgari11 e degli Schiavoni. Secondo gli scrittori greci, i primi confinanti coll'Eusino e col Lago Meotide, traevano dagli Unni il nome o l'origine loro, ed inutile riesce il delineare un'altra volta la semplice e ben nota pittura dei costumi tartari. Audaci e svelti arcieri eran dessi, che beevano il latte e banchettavano colla carne degli agili loro corsieri: i lor greggi ed armenti seguivano o piuttosto guidavano le mosse de' vagabondi lor campi: nessun paese era troppo lontano od impraticabile per le loro scorrerie: ed erano essi addestrati alla fuga, quantunque fosse chiuso al timore il lor petto. La nazione era divisa in due potenti ed ostili tribù, che si perseguitavano fra loro con odio fraterno. Caldamente si contendevan esse l'amicizia, o per meglio dire i donativi dell'Imperatore, e la distinzione che la natura ha stabilito «fra il cane fedele ed il lupo rapace» veniva applicata da un ambasciatore, il quale non avea ricevuto che verbali istruzioni dal rozzo suo principe12. I Bulgari di ogni specie si sentivano egualmente allettati dall'opulenza romana: essi arrogavansi una vaga dominazione sopra quanti portavano il nome di Schiavoni, e la rapida lor marcia non potè esser frenata che dal Mar Baltico o dall'eccesso del freddo e dalla povertà del Settentrione. Ma pare che la stessa razza di Schiavoni abbia tenuto, in ogni tempo, il possesso delle stesse contrade. Le numerose loro tribù, benchè distanti o nemiche, usavano un linguaggio comune, che era un aspro ed irregolare idioma, e si facevano conoscere per la somiglianza della loro figura, che si discostava dall'abbronzato Tartaro, e si avvicinava, in qualche distanza, all'alta statura ed alla bella carnagione del Germano. Quattromila seicento loro villaggi13 erano sparsi per le province della Russia e della Polonia, e le capanne loro venivano in fretta fabbricate di legno rozzamente tagliato, in un paese mancante di pietra e di ferro. Innalzate queste, o per meglio dire nascoste nel profondo delle foreste, lungo le rive dei fiumi, o sull'orlo delle paludi, non si possono da noi forse senza adulazione paragonare alle architettoniche case del Castoro; a cui rassomigliavano nella doppia uscita, una sulla terra e l'altra sull'acqua per lo scampo del selvaggio loro abitatore, animale men mondo, men diligente e men sociale di quel quadrupede maraviglioso. La fertilità del suolo anzi che il lavoro dei nativi, forniva la rustica abbondanza degli Schiavoni. Grande era appo loro il numero delle mandre e del bestiame, ed i loro campi che seminavano di miglio e di panico14, somministravano, invece di pane, un grossolano e men nutritivo alimento. Il continuo amore che i loro vicini portavano alla rapina, li costringeva a nascondere nella terra questo tesoro: ma quando uno straniero compariva in mezzo ad essi, liberamente gli facean parte di quanto avevano; e questo popolo di cui sfavorevolmente è dipinto il carattere, vien però qualificato cogli epiteti di casto, di paziente e di ospitale. Per suprema loro divinità, essi adoravano un invisibile signore del tuono. I fiumi e le ninfe ne ottenevano i subordinati onori, ed i voti ed i sacrifizi esprimevano il popolare lor culto. Sdegnavano gli Schiavoni di obbedire ad un despota, ad un principe, od anco ad un magistrato; ma troppo ristretta la loro esperienza e troppo ostinate erano le loro passioni, perchè componessero un sistema di leggi eguali o di generale difesa. All'età od al valore essi compartivano un certo volontario rispetto; ma ogni tribù, ogni villaggio si reggeva come una repubblica separata, e conveniva che tutti fossero persuasi, laddove nessuno poteva esser forzato. Essi combattevano a piedi, quasi ignudi, e senza nessuna arma difensiva, tranne un disadatto scudo; avevano per armi di offesa un arco, un turcasso di piccole freccie avvelenate, ed una lunga corda, che destramente gettavano lontano, e colla quale stringevano il loro nemico in un nodo scorsoio. In campo l'infanteria schiavona riusciva pericolosa per l'ardore, l'agilità e l'audacia: essi nuotavano, tuffavansi e rimanevan sott'acqua, traendo il respiro per mezzo di una vuota canna; ed un fiume od un lago era spesso il teatro di un loro agguato improvviso. Ma talenti eran questi da spie o da predatori; sconosciuta rimanea affatto l'arte militare agli Schiavoni; oscuro il lor nome, e senza gloria erano le loro conquiste15.
Ho debolmente segnati i lineamenti generali degli Schiavoni o dei Bulgari, senza tentare di definire i confini dei luoghi da essi abitati, che non erano accuratamente conosciuti nè rispettati dai Barbari stessi. La loro vicinanza all'Impero determinava l'importanza loro, e la piana regione della Moldavia o della Valachia era occupata dagli Anti16, tribù Schiavona, che con un epiteto di conquista aumentò i titoli di Giustiniano17. Per frenare gli Anti egli innalzò le fortificazioni del Danubio inferiore, e molto adoperossi ad assicurarsi l'alleanza di un popolo stanziato nel diretto canale delle nortiche innondazioni ch'era un intervallo di duecento miglia tra i monti della Transilvania ed il Ponto Eussino. Ma gli Anti non avevano nè il potere nè la volontà di far argine al furor del torrente: e cento tribù di Schiavoni, armati alla leggiera, inseguivano con quasi egual celerità i passi della Bulgara cavalleria. Il pagamento di una moneta d'oro per ogni soldato procurò loro una salva e facile ritirata attraverso il paese dei Gepidi, che dominavano il passo del Danubio superiore18. Le speranze od i timori dei Barbari; l'intestina loro unione o discordia; l'accidente di una riviera gelata o poco profonda; la prospettiva delle messi o della vendemmia; la prosperità o l'angustia dei Romani, erano le cagioni che producevano l'uniforme ripetizione delle annue lor visite,19 tediose a narrarsi e distruttive nel loro effetto. Lo stesso anno e forse lo stesso mese in cui Ravenna aprì le sue porte, fu marcato da un'invasione degli Unni o Bulgari, così tremenda che quasi cancellò la rimembranza delle loro incursioni passate. Dai sobborghi di Costantinopoli, si sparsero essi fino al golfo Jonio, distrussero trentadue città o castella, rasero al suolo Potidea, che gli Ateniesi avevano edificata, ed aveva assediata Filippo; poi ripassarono il Danubio, trascinando attaccati alla coda dei loro cavalli centoventimila sudditi di Giustiniano. In una scorreria posteriore essi forzarono la muraglia del Chersoneso Tracio, ne demolirono le abitazioni e sterminarono gli abitatori; indi valicarono arditamente l'Ellesponto, e carichi delle spoglie dell'Asia, ritornarono in mezzo ai loro compagni. Un'altra banda, che parve una moltitudine agli occhi dei Romani, si avanzò, senza contrasto, dallo stretto delle Termopili fino all'Istmo di Corinto; e l'ultima rovina della Grecia è sembrato un oggetto troppo minuto per chiamar l'attenzion dell'istoria. Le opere che l'Imperatore costruì per la difesa, ma a spese, de' suoi sudditi, non servirono che a manifestare la debolezza delle parti lasciate neglette; e le mura che l'adulazione giudicava inespugnabili, furono o disertate dalle guernigioni, ovvero scalate dai Barbari. Tremila Schiavoni, i quali insolentemente si divisero in due masnade, posero in chiaro la debolezza e la miseria di un regno che si diceva trionfante. Essi varcarono il Danubio e l'Ebro; vinsero i Generali romani che ardirono di opporsi ai loro progressi; ed impunemente saccheggiarono le città dell'Illirico e della Tracia, ciascuna delle quali aveva armi e popolazione bastante per fare a pezzi i dispregevoli loro assalitori. Qualunque lode meritar si possa l'ordire degli Schiavoni, esso è contaminato dalla bassa e deliberata crudeltà che sono accusati di aver esercitata sopra dei loro prigionieri. Senza distinzione di grado, di sesso o di età, questi venivano impalati o scorticati vivi, o sospesi tra quattro pali, e fatti morire a colpi di mazza, o veramente chiusi in qualche vasto edificio, ed ivi lasciati perir nelle fiamme insieme con le spoglie ed il bestiame che impedir poteva la marcia di questi vincitori selvaggi20. Forse da una relazione più imparziale si sarebbe sminuito il numero, e qualificata la natura di tali orribili azioni; e le crudeli leggi della rappresaglia avranno potuto qualche volta servir loro di scusa. Nell'assedio di Topiro21, la cui ostinata difesa avea fieramente irritato gli Schiavoni, essi trucidarono quindicimila uomini; ma risparmiarono le donne ed i fanciulli. I prigionieri di maggior prezzo erano sempre posti in serbo per impiegarli al lavoro o per ricavarne il riscatto: non rigorosa la schiavitù, e pronti e moderati erano i termini della liberazione de' prigionieri. Ma il suddito, ossia l'istorico di Giustiniano, esalò il giusto suo sdegno nel linguaggio della querela e del rimprovero, e Procopio ha confidentemente affermato, che durante un regno di trentadue anni, ciascun'annua incursione dei Barbari avea rapito dugentomila abitanti all'Impero romano. L'intera popolazione della Turchia Europea, che corrisponde, a un dipresso, alle province di Giustiniano, non sarebbe forse in istato di somministrare sei milioni d'individui, che sono il prodotto di quell'incredibile computo22.
Nel mezzo di queste oscure calamità, l'Europa sentì l'urto di una rivoluzione, che prima disvelò al Mondo il nome e la nazione de' Turchi. Somigliante a Romolo, il fondatore di quel popolo marziale fu allattato da una lupa che poscia lo fece padre di una numerosa posterità, e l'immagine di questa bestia, nelle bandiere dei Turchi, conservò la memoria, o piuttosto suggerì l'idea di una favola, che fu inventata, senza alcuna relazione scambievole, dai pastori del Lazio, e da quelli della Scizia. Nell'eguale distanza di duemila miglia dal mar Caspio, dal mar Glaciale, dal mar della China, e da quello del Bengala, sorge una gran catena di monti, che è il centro o forse la sommità dell'Asia; essa, nella favella delle differenti nazioni, fu chiamata Imao, e Caf23, ed Altai, e le Montagne d'Oro, e la Cintura della Terra. I fianchi delle rupi producevano minerali; e le fornaci del ferro24 ad uso della guerra, erano lavorate dai Turchi, la più spregiata porzione degli schiavi del Gran Can dei Geugeni. Ma durar non doveva il loro servaggio, se non fin tanto che sorgesse un ardito ed eloquente condottiero, il quale persuadesse i suoi compatriotti che le stesse armi, fabbricate pei loro padroni, potevano divenire nelle proprie lor mani gl'istromenti della libertà e della vittoria. Sbucaron essi dai lor monti25; uno scettro fu il guiderdone del consiglio di lui; e l'annua cerimonia, in cui un pezzo di ferro veniva arroventato nel fuoco, ed il Principe ed i suoi nobili maneggiavano successivamente un martello da fabbro ferraio, ricordò di secolo in secolo l'umile professione ed il ragionevole orgoglio della nazione Turchesca. Bertezena, primo lor Capo, segnalò il valore di essi ed il suo in fortunati combattimenti contro le vicine tribù; ma quando egli presunse di chiedere in matrimonio la figlia del gran Cane, l'insolente domanda di uno schiavo e di un artigiano con disprezzo fu rigettata. Una più nobile alleanza d'una principessa Chinese lo risarcì di tale disgrazia; e la decisiva battaglia che quasi estirpò la nazione dei Geugeni, fondò nella Tartaria il nuovo e più potente impero dei Turchi. Essi regnarono sul Settentrione; ma il fedele amore che serbavano per le montagne dei padri loro, mostrò il lor modo di pensare intorno alla vanità delle conquiste. Il campo reale di rado perdè di vista il monte Altai, d'onde il fiume Irtish discende ad irrigare i ricchi pascoli dei Calmucchi26, i quali nutrono i montoni ed i buoi più grossi del mondo. Fertile n'è il suolo, ed il clima temperato e mite. Quella fortunata regione non conosceva nè la pestilenza, nè i terremoti; il trono dell'Imperatore era rivolto verso Oriente, ed un lupo d'oro, innalzato sopra una lancia, parea custodire l'ingresso della tenda di lui. Uno dei successori di Bertezena rimase adescato dal lusso e dalla superstizione della China; ma il suo disegno di fabbricar templi e città fu dissipato dalla ingenua sapienza di un Barbaro consigliere. «I Turchi, disse costui, non uguagliano in numero la centesima parte degli abitatori della China. Se noi pareggiamo la loro potenza, ed eludiamo i loro eserciti, ciò avviene, perchè andiamo vagando senza fisse abitazioni, non attendendo che alla guerra ed alla caccia. Siamo noi forti! Ci spingiamo innanzi, e conquistiamo. Siamo noi deboli! Ci ritiriamo e ci nascondiamo. Ma se i Turchi si rinserrano dentro le mura delle città, la perdita di una battaglia trarrà seco la distruzione del loro impero. I Bonzi non predicano che pazienza, umiltà e rinunzia al mondo. Tale, o Re, non è la religion degli Eroi». Essi adottarono con minor ripugnanza le dottrine di Zoroastro, ma la maggior parte della nazione continuò a serbare, senza esame, le opinioni, o per meglio dire la pratica dei loro antenati. Alla suprema divinità erano riserbati gli onori del sacrifizio; essi confessavano, con rozzi inni ciò che dovevano all'aria, al fuoco, all'acqua ed alla terra; ed i loro sacerdoti traevano qualche profitto dall'arte della divinazione. Le loro leggi, non scritte, erano rigorose ed imparziali: il furto veniva punito colla restituzione del decuplo: l'adulterio, il tradimento e l'uccisione traevano con sè la pena di morte, ma nessun castigo pareva loro troppo severo pel raro ed inespiabile delitto di pusillanimità. Raccolto avendo sotto il loro stendardo le vinte nazioni, la cavalleria de' Turchi, tra uomini e cavalli, veniva orgogliosamente computata per milioni; uno dei loro eserciti effettivi era composto di quattrocentomila soldati, ed in meno di cinquant'anni essi furono in relazione di guerra o di pace coi Romani, coi Persiani e coi Chinesi. Nei loro limiti settentrionali si può discoprire qualche vestigio della forma e della situazione del Kamtchatka, di un popolo di cacciatori e di pescatori le cui slitte erano tirate da cani, e le abitazioni sepolte sotterra. I Turchi ignoravano l'astronomia; ma le osservazioni fatte da qualche dotto Chinese, con un gnomone di otto piedi, determinano il campo reale nella latitudine di quarantanove gradi, e segnano i loro progressi sino a tre od almeno a dieci gradi dal circolo polare27. Fra le meridionali conquiste loro, la più splendida fu quella dei Neftaliti, od Unni bianchi, popolo incivilito e guerriero che possedeva le trafficanti città di Bochara e di Samarcanda, che vinto aveva i monarchi della Persia, e portato le vittoriose sue armi sulle rive e forse alla foce dell'Indo. Dalla parte di Ponente, la cavalleria turca s'innoltrò fino alla palude Meotide. Essi passarono questo lago sul ghiaccio. Il Can che abitava ai piedi del Monte Altai, spedì l'ordine che si assediasse Bosforo28, città che si era volontariamente sommessa ai Romani, ed i cui Principi erano stati anticamente gli amici di Atene29. A levante i Turchi invadevano la China, ogni volta che rilassato vi era il vigor del governo; e l'istoria dei tempi ci narra che essi abbattevano i loro pazienti nemici, come si miete il canape e l'erba dei campi; e che i Mandarini encomiarono la sapienza di un Imperatore il quale respinse questi Barbari con lancie d'oro. L'estensione del selvaggio impero dei Turchi trasse uno dei loro monarchi a stabilire tre subordinati Principi del proprio sangue, i quali tosto dimenticarono i doveri della riconoscenza e della fedeltà. Snervati furono i conquistatori dal lusso, il quale sempre riesce fatale fuori che ad un popolo industrioso. La politica della China eccitò le vinte nazioni a ricuperare l'indipendenza perduta; e la potenza dei Turchi non oltrepassò il periodo di duecent'anni. Il risorgimento del nome loro ed il loro dominio nelle contrade meridionali dell'Asia, sono avvenimenti di una età posteriore; e le dinastie che succederono ai loro primi sovrani, possono passarsi in silenzio poichè l'istoria loro non ha verun legame colla decadenza e caduta del Romano Impero30.
Nella rapida carriera delle conquiste, i Turchi assaltarono e soggiogarono la nazione degli Ogori o Varconiti sulle rive del fiume Til che vien denominato il Nero pel bruno color delle sue acque, o per le sue cupe foreste31. Ucciso fu il Can degli Ogori, insieme con tre centomila suoi sudditi, ed i loro cadaveri ingombravano uno spazio di quattro giornate di viaggio. Quelli tra loro che sopravvissero, si assoggettarono alla forza ed alla clemenza dei Turchi; ed una picciola porzione, di circa ventimila guerrieri, antepose l'esilio alla schiavitù. Seguitaron essi la ben nota strada del Volga, lusingarono l'errore delle nazioni che gli confusero cogli Avari, e sparsero il terrore di questo falso, benchè famoso, nome, il quale però non avea salvato dal giogo dei Turchi quelli che legittimamente il portavano32. Dopo una lunga e vittoriosa marcia, i nuovi Avari, giunsero al piè del monte Caucaso, nel paese degli Alani33 e dei Circassi, dove per la prima volta sentirono a parlare dello splendore e della debolezza dell'Impero Romano. Umilmente essi pregarono il Principe degli Alani, loro confederato, di condurli a questa sorgente di ricchezze; ed il loro ambasciatore, col permesso del governatore di Lazica, fu trasportato, per l'Eussino a Costantinopoli. Tutta la città sboccò fuori a rimirare con curiosità e spavento l'aspetto di questo popolo straniero; i lunghi capelli che lor cadevano in treccie giù per le spalle, erano graziosamente annodati con nastri, ma il rimanente del lor vestire pareva imitare la foggia degli Unni. Allorchè vennero ammessi all'udienza di Giustiniano; Candish, il primo degli Ambasciatori, si volse in questi accenti all'Imperatore Romano. «Tu vedi, o potente principe, i rappresentanti della più forte e più popolosa fra le nazioni, degli invincibili ed irresistibili Avari. Noi vogliamo dedicarsi al tuo servizio: noi siamo atti a vincere ed a distruggere tutti i nemici che ora turbano il tuo riposo. Ma aspettiamo, qual prezzo della tua alleanza, qual ricompensa del nostro valore, donativi preziosi, annui sussidj, e possessioni feconde». Al tempo di quest'ambasceria, Giustiniano avea regnato più di trent'anni, egli ne avea vissuto più di settantacinque: languenti e deboli erano il suo corpo ed il suo spirito; ed il conquistatore dell'Affrica e dell'Italia, non curando gli interessi permanenti del suo popolo, non aspirava che a fornire i suoi giorni nel seno della pace, quantunque priva di gloria. In una arringa studiata, egli espose al Senato il partito da lui preso di dissimulare l'insulto e di comprare l'amicizia degli Avari; e tutto il Senato, come i Mandarini della China, decantò l'incomparabil sapienza e la previdenza del suo Monarca. Si allestiscono immediatamente gli istrumenti del lusso per cattivar l'animo dei Barbari, seriche vesti, soffici e splendidi letti, catene e collane, incrostate di oro. Gli ambasciatori, contenti di sì liberale accoglienza, si partirono da Costantinopoli, e Valentino, uno della guardia dell'Imperatore, fu mandato collo stesso carattere nel loro campo, a' piedi del Caucaso. Siccome sì la distruzione che le vittorie loro potevano essere egualmente di vantaggio all'Impero, ei li persuase a correre addosso ai nemici di Roma, ed essi agevolmente si lasciarono allettare da regali e promesse, a secondare l'inclinazione che avevan più cara. Questi fuggiaschi, che si ritraevano dalle armi dei Turchi, passarono il Tanai ed il Boristene ed audacemente si avanzarono nel cuore della Polonia e della Germania, violando la legge delle nazioni, ed abusando dei diritti della vittoria. Prima che fossero passati dieci anni, essi aveano piantato i lor campi sul Danubio e sull'Elba; molti nomi Bulgari e Schiavoni si erano cancellati dalla terra, ed il rimanente di quella tribù si trovava, in qualità di tributarj e di vassalli, sotto lo stendardo degli Avari. Il Cacano, titolo particolare che prendeva il Re loro, tuttavia affettava di coltivare l'amicizia dell'Imperatore; e Giustiniano nutriva qualche pensiero di stabilirli nella Pannonia, per bilanciare la predominante potenza dei Lombardi. Ma la virtù od il tradimento di un Avaro manifestò la segreta inimicizia e gli ambiziosi disegni de' suoi compatriotti: ed essi altamente si lamentarono della timida ma gelosa politica che riteneva i loro ambasciatori, e negava le armi che loro era stato concesso di comperare nella capital dell'Impero.34.
Ad un'ambasciata ricevuta dai conquistatori degli Avari35, può forse attribuirsi l'apparente cangiamento seguìto nelle disposizioni degli Imperatori. Il risentimento dei Turchi non s'era punto ammorzato dall'immensa distanza che schermiva gli Avari dalle armi loro. I loro ambasciatori inseguirono le orme dei vinti al Giaik, al Volga, al monte Caucaso, all'Eussino, ed a Costantinopoli, e finalmente comparvero dinanzi al successore di Costantino, a chiedere che egli non volesse sposare la causa di gente ribelle e fuggitiva. Anche il commercio ebbe qualche parte in questa osservabile negoziazione: ed i Sogdoiti, i quali erano allora tributarj dei Turchi, abbracciarono la bella occasione di aprire, pel Nord del mar Caspio, una nuova strada che servisse a trasportare la seta della China nell'Impero di Roma. I Persiani che preferivano la navigazione di Ceilan, avevano ditenuto le carovane di Bochara e di Samarcanda: la seta che esse portavano, era stata dispettosamente arsa: alcuni ambasciatori turchi morirono in Persia non senza sospetto di veleno; ed il Gran Can permise al fedele suo vassallo Maniaco, principe dei Sogdoiti, di proporre alla Corte di Bisanzio un trattato di alleanza contro i loro comuni nemici. Gli splendidi lor vestimenti ed i ricchi regali, frutto del lusso orientale, distinguevano Maniaco ed i suoi colleghi, dai rozzi selvaggi del Settentrione: le lettere loro, scritte nel linguaggio e nel carattere della Scizia, denotavano un popolo il quale era pervenuto ai rudimenti del sapere36: essi annoveravano le conquiste, ed offerivano l'amicizia e l'aiuto militare dei Turchi; e la sincerità loro veniva attestata da tremende imprecazioni (se colpevoli fossero di falsità) sopra il proprio lor capo, e sopra il capo di Disabul, loro Signore. Il Principe greco trattò con ospitale riguardo gli ambasciatori di un remoto e potente monarca: la vista dei bachi da seta e dei telaj sconcertò la speranza dei Sogdoiti; l'Imperatore rinunziò, o parve rinunziare ai fuggitivi Avari, ma accettò l'alleanza dei Turchi; e la ratificazione del trattato fu recata ai piedi del monte Altai da un ministro romano. Sotto i successori di Giustiniano, si coltivò l'amicizia delle due nazioni con relazioni frequenti e cordiali; si permise ai vassalli più favoriti d'imitare l'esempio del Gran Cane, e cento e sei Turchi, venuti a Costantinopoli in varie occasioni, ne partirono al tempo istesso pel loro paese nativo. La storia non ci specifica la durata e la lunghezza del viaggio, dalla Corte Bisantina al monte Altai. Arduo sarà stato trascorrere i deserti senza nome, i monti, i fiumi e le paludi della Tartaria; ma ci fu serbato un curioso ragguaglio delle accoglienze fatte agli oratori romani nel campo reale. Poscia che furono purificati col fuoco e coll'incenso, secondo un rito ancora praticato sotto i figliuoli di Zingis, essi vennero introdotti al cospetto di Disabul. Nella valle della montagna d'oro, essi trovarono nella sua tenda il Gran Cane, seduto in una sedia con ruote, alla quale si poteva, occorrendo, attaccare un cavallo. Tosto ch'ebbero offerto i lor doni, che ricevuti vennero dagli officiali a ciò destinati, essi esposero, in una florida concione, i desiderj dell'Imperatore Romano, che la vittoria accompagnasse le armi dei Turchi, che lungo e prospero ne fosse il Regno, che una stretta alleanza, scevra d'invidia e di frode, potesse per sempre durare tra le due più potenti nazioni della Terra. La risposta di Disabul si confece a queste proteste amichevoli, e gli Ambasciatori furono fatti sedere al suo lato, in un banchetto che occupò la maggior parte del giorno; parata era la tenda di seriche tappezzerie, e fu servito a tavola un liquor tartaro che possedeva almeno le qualità inebbrianti del vino. Più sontuoso fu il convito del giorno seguente; i serici addobbi della seconda tenda presentavano varie figure in ricamo; e la sedia reale, le coppe ed i vasi erano tutti d'oro. Un terzo padiglione veniva sostenuto da colonne di legno dorato; un letto di oro puro e massiccio sorgeva sopra quattro pavoni dello stesso metallo: e davanti all'ingresso della tenda si vedevano piatti, bacili, e statue di solido argento, lavorati con ammirabil arte, e sfarzosamente ammonticchiati sopra carri, monumenti del valore più che dell'industria. Allorchè Disabul condusse i suoi eserciti contro le frontiere della Persia, gli Ambasciatori romani seguirono per molti giorni la marcia del Campo Turco, nè furono congedati, sinchè non ebbero goduto la precedenza sopra l'Oratore del Gran Re, i cui alti ed immoderati clamori interruppero il silenzio del banchetto reale. La potenza e l'ambizione di Cosroe assodarono l'unione dei Turchi e dei Romani, che confinavano da ogni banda coi dominj di esso: ma queste distanti nazioni, non curandosi una dell'altra, consultarono i dettami dell'interesse, senza rammentarsi le obbligazioni de' giuramenti e de' trattati. Al tempo in che il successore di Disabul celebrò le esequie del padre, egli fu salutato dai Legati dell'Imperatore Tiberio, che proposero un'invasione della Persia, e con fermezza sostennero gli sdegnosi e forse giusti rimproveri di quei Barbari orgogliosi. «Voi mirate le dieci mie dita, disse il Gran Cane, applicandole alla sua bocca. Voi, Romani, parlate con altrettante lingue, ma sono lingue d'inganno e di spergiuro. Con me tenete una favella, coi miei sudditi un'altra; e le nazioni vengono successivamente aggirate dalla perfida vostra eloquenza. Voi traete i vostri alleati nella guerra e nel pericolo; voi profittate delle loro fatiche, e trascurate i vostri benefattori. Accelerate il ritorno, ed informate il vostro Signore che un Turco è incapace di proferire o di scordare una menzogna, e ch'egli ben presto incontrerà il castigo che gli è dovuto. Nel punto ch'egli richiede la mia amicizia con adulanti e fallaci parole, si è abbassato a far lega co' Varconiti che da me fuggono. Se io mi traggo a muovere contro que' dispregevoli schiavi, essi tremeranno al suono dei nostri flagelli; calpestati e' saranno, come un nido di formiche, sotto i piedi dell'innumerevole mia cavalleria. Non mi è ignota la strada che essi tennero per invadere il vostro Impero, nè posso essere ingannato dal vano pretesto, che il monte Caucaso è l'inespugnabile barriera de' Romani. Conosco il corso del Niester, del Danubio e dell'Ebro; le nazioni più bellicose hanno ceduto alle armi dei Turchi; e da dove nasce a dove muore il Sole, tutta è mio retaggio la Terra». Non ostante questa minaccia, un sentimento di scambievole utilità rinnovò ben presto la colleganza, de' Turchi e de' Romani; ma l'orgoglio del Gran Cane sopravvisse al suo sdegno, e nell'atto di annunziare un'importante conquista al suo amico l'Imperatore Maurizio, egli s'intitolò il Padrone delle sette razze, ed il Signore dei sette climi del mondo37.
Tra i Sovrani dell'Asia nacquero spesso contese pel titolo di Re del mondo, e queste stesse disputazioni provarono ch'esso non può appartenere a veruno dei competitori. Il regno dei Turchi era limitato dall'Oxo o Gihon, e questo gran fiume separava il Turan dalla rivale monarchia d'Iran o della Persia, la quale, in più ristretto spazio, conteneva forse una più gran misura di popolazione e di potenza. I Persiani, che alternativamente assalirono e respinsero i Turchi ed i Romani, eran tuttavia governati dalla casa di Sassan, che salì al trono tre secoli prima dell'esaltamento di Giustiniano. Cabade o Kobad, contemporaneo di lui, era stato avventuroso in guerra contro l'Imperatore Anastasio: ma il Regno di quel Principe fu perturbato da civili e religiosi dissidj. Prigioniero in mano de' suoi sudditi, esule tra i nemici della Persia, egli ricovrò la sua libertà col prostituire l'onore della sua moglie, e riacquistò il suo regno, mediante la pericolosa e mercenaria assistenza dei Barbari, i quali trucidato gli aveano il padre. Sospettavano i nobili della Persia che Kobad non fosse mai per dimenticare gli autori della sua espulsione, o nemmeno quelli che l'avean riposto sul trono. Aggirato ed infiammato era il popolo dal fanatismo di Mazdak38, il quale predicava la comunanza delle donne39, e l'eguaglianza di tutti gli uomini, nel tempo ch'egli appropiava all'uso dei suoi settarj le più ricche possessioni e le donne più belle. La declinante età del Monarca persiano veniva amareggiata dall'aspetto di questi disordini, che le sue leggi ed il suo esempio40 avevano fomentati, e si accrescevano i suoi timori dal segreto sentimento del disegno che nutriva di sovvertire il naturale e consueto ordine di successione in favore del suo terzo e prediletto figliuolo, così famoso sotto i nomi di Cosroe e di Nushirvan. Collo scopo di rendere più illustre il giovane al cospetto delle nazioni, Kobad desiderò che venisse adottato dall'Imperatore Giustino: la speranza della pace indusse la Corte Bisantina ad accettare questa singolare proposta; e Cosroe avrebbe acquistato uno specioso diritto all'eredità del romano suo padre. Ma il male che n'era per avvenire fu allontanato dal consiglio del Questore Proclo: si mise in campo la difficoltà, se l'adozione dovesse farsi con un rito militare o civile41; disciolto fu all'improvviso il trattato, ed il sentimento di questa offesa si stampò profondamente nell'animo di Cosroe, il quale si era già avanzato fino al Tigri, alla volta di Costantinopoli. Non sopravvisse lungamente il padre di Cosroe all'avvenimento che avea sconcertato le sue mire. Si lesse il testamento del defunto sovrano nell'assemblea dei nobili, ed una potente fazione, preparata a sostenerlo, innalzò Cosroe al trono della Persia, senza por mente ai diritti della Primogenitura. Cosroe tenne quel trono pel lungo e prospero periodo di quarantott'anni42; e la giustizia di Nushirvan vien celebrata dalle nazioni dell'Oriente, quale argomento di lode immortale.
Ma nell'opinione dei Re, ed anche dei loro sudditi, la giustizia di un sovrano non esclude un'ampia indulgenza pel soddisfacimento delle sue passioni e del suo interesse. La virtù di Cosroe era quella di un conquistatore, il quale nelle determinazioni della pace o della guerra, viene spinto dall'ambizione e rattenuto dalla prudenza, confonde la grandezza colla felicità di una nazione, e tranquillamente sacrifica le vite delle migliaja alla fama od anche al divertimento di un solo. Nella domestica sua amministrazione, il giusto Nushirvano meriterebbe, secondo il nostro sentire, d'esser chiamato un tiranno. I suoi due fratelli maggiori erano stati privati delle care lusinghe del Diadema: posti tra il grado supremo e la condizione di sudditi, piena di ansietà per essi diveniva la futura lor vita e formidabile al loro Signore. Il timore egualmente che la vendetta poteva muovergli a ribellarsi; la più tenue ombra di una cospirazione fu bastante all'autore dei loro mali, e si assicurò il riposo di Cosroe mediante la morte di que' Principi sventurati, delle famiglie e degli aderenti loro. La pietà di un Generale veterano, salvò un giovinetto innocente, e quest'atto di umanità, rivelato dallo stesso suo figlio, cancellò il merito di aver ridotto dodici nazioni all'obbedienza della Persia. Lo zelo e la prudenza di Mebode aveano assodato il diadema sulla fronte di Cosroe istesso; ma tardò egli un giorno ad obbedire ai cenni reali sinchè avesse adempito i doveri di una rassegna militare: subitamente gli fu intimato di ridursi al Tripode di ferro, che sorgeva innanzi alla porta della Reggia43, dove si puniva di morte chi desse soccorso o si accostasse alla vittima, e Mebode languì più giorni prima che si proferisse la sentenza dall'inflessibil orgoglio e dalla fredda ingratitudine del figlio di Kobad. Ma il popolo, e più che altrove nell'Oriente, è propenso a dimenticare ed anche ad applaudire la crudeltà che colpisce le teste più sublimi, quegli schiavi ambiziosi, la cui volontaria scelta gli ha esposti a vivere de' sorrisi od a morir pel cipiglio di un capriccioso monarca. Nell'eseguire le leggi che tentato egli non era ad infrangere, nel punire i delitti che offendevano la propria sua dignità ugualmente che la felicità degli individui, Nushirvano, o Cosroe meritò il soprannome di giusto. Fermo, rigoroso ed imparziale ne era il governo. Prima cura del suo regno fu di abolire la pericolosa teoria della comunanza od uguaglianza dei beni. Le terre e le donne che i settari di Magdak avevano usurpate, furono restituite ai legittimi lor proprietarj; e il moderato castigo inflitto ai fanatici ed agli impostori confermò i domestici diritti della vita sociale. In cambio di porger orecchio con cieca fiducia ad un ministro favorito, egli stabilì quattro Visiri sopra le quattro grandi province del suo impero l'Assiria, la Media, la Persia, e la Battriana. Nella scelta dei giudici, dei prefetti e dei consiglieri, egli cercava di tor via la maschera che si suole portare alla presenza dei Re. Era vago di sostituire il naturale ordine dei talenti alle accidentali distinzioni della nascita e della fortuna; speciosamente professava la sua intenzione di anteporre quegli uomini che portavano il povero nel loro seno, e di bandire la corruzione dalla sede della giustizia, come i cani sono esclusi dai templi dei Magi. Il codice delle leggi del primo Artaserse fu richiamato a vita e pubblicato come norma dei magistrati; ma la sicurezza di una pronta punizione porgeva la miglior garanzia della loro virtù. Migliaja d'occhi invigilavano sulla loro condotta, ed ascoltate n'erano le parole dalle migliaja di orecchie dei segreti o pubblici agenti del trono, e le province dai confini dell'Arabia a quelli dell'India, si rallegravano frequentemente per la presenza di un Sovrano che affettava di emulare il Sole, suo celeste fratello, nella sua rapida e salutare carriera. Egli considerava l'educazione e l'agricoltura come i due oggetti più meritevoli delle sue cure. In ogni città della Persia, gli orfani, ed i figli dei poveri erano mantenuti ed istruiti a spese pubbliche; si davano le zitelle in matrimonio ai più ricchi cittadini della classe loro, ed i garzoni, secondo la diversa loro abilità, s'impiegavano in arti meccaniche, ed erano promossi a più onorevole impiego. La bontà di Cosroe soccorse i villaggi abbandonati; distribuì bestiami, sementi e stromenti di agricoltura ai contadini ed ai fittajuoli che non erano in istato di coltivare i loro terreni, ed il raro ed inestimabile tesoro delle acque fu con economia maneggiato, e con abilità sparso sopra l'arido territorio della Persia44. La prosperità di quel regno fu la conseguenza e la prova delle virtù del Sovrano: i vizj di lui sono quelli del dispotismo orientale; ma nella lunga contesa tra Cosroe e Giustiniano, il vantaggio del merito e della fortuna si trova quasi sempre dal lato del Barbaro45.
Alla lode di giusto, Nishirvan univa la fama di sapiente: i sette Filosofi greci che visitarono la sua Corte, furono attirati ed ingannati dalla strana asserzione, che un discepolo di Platone sedeva sul trono persiano. Potevan essi aspettarsi che un Principe, vigorosamente esercitato nelle cure della guerra e del governo, avesse a discutere, con destrezza pari alla loro, le astruse e profonde questioni che divertivano gli ozj delle scuole di Atene! Dovevan essi sperare che i precetti della filosofia avessero a regger la vita e governar le passioni di un despota, a cui sin dall'infanzia si era insegnato a considerare l'assoluta e capricciosa sua volontà, come la sola regola dei doveri morali46! Superficiali e di ostentazione erano gli studj di Cosroe: ma il suo esempio svegliò la curiosità di un popolo ingegnoso, e la luce della scienza si difuse sopra i dominj della Persia47. Egli fondò un'accademia di medicina a Gondi-Sapor, nelle vicinanze della città di Susa, ed essa a poco a poco divenne una liberale scuola di poesia, di filosofia e di rettorica48. Si composero gli annali della monarchia49 e nel tempo che la recente ed autentica storia poteva porgere utili lezioni sì al Principe che al popolo, l'oscurità dei primi secoli fu abbellita coi draghi e coi favolosi eroi dei romanzi orientali50. Ogni straniero dotato di sapere, o di fiducia fu arricchito dalla bontà, e lusingato dalla conversazione del Monarca. Nobilmente egli ricompensò un medico greco51 col liberare in grazia di lui tremila prigionieri: ed i sofisti che si contendevano il favore del Principe, presero dispetto della ricchezza e dell'insolenza di Urenio, loro più fortunato rivale. Nushirvan credeva od almeno rispettava la religione dei Magi: e si possono scoprire alcune tracce di persecuzione durante il suo regno52. Non pertanto egli liberamente si permetteva di paragonare gli argomenti delle varie Sette; e le teologiche deputazioni, a cui frequentemente presiedeva, diminuivano l'autorità dei sacerdoti, ed illuminavano le menti del popolo. Per suo cenno, si tradussero i più celebri scrittori della Grecia e dell'India nella lingua persiana, dolce ed elegante idioma, raccomandato da Maometto all'uso del Paradiso; benchè l'ignoranza e la presunzione di Agatia53 lo vilipendesse cogli epiteti di rozzo e non musicale. Del rimanente questo istorico greco poteva ragionevolmente maravigliarsi che si trovasse possibile di eseguire una intiera versione di Platone e di Aristotele in un dialetto straniero che non era stato foggiato ad esprimere lo spirito di libertà, e le sottigliezze delle filosofiche investigazioni. E se la ragione dello Stagirita può riuscire egualmente oscura, od egualmente intelligibile in ogni favella, l'arte drammatica, e l'argomentazione verbale del discepolo di Socrate54 pajono essere indissolubilmente unite con la grazia e la perfezione del suo attico stile. Nell'andare in cerca dell'universale dottrina, Nushirvan venne a sapere che le favole morali e politiche di Pilpai55, antico Bracmano, si conservavano con gelosa riverenza fra i tesori dei Sovrani dell'India. Il medico Peroze fu segretamente spedito alle rive del Gange, onde procacciarsi, a qualunque prezzo, la comunicazione di quest'opera preziosa. L'accorgimento di Peroze ne ottenne una copia, che con dotta accuratezza egli tradusse; e le favole di Pilpai si lessero e si ammirarono nell'assemblea di Nushirvan e dei suoi nobili. L'originale indiano, ed il suo traslatamento persiano da lungo tempo sono scomparsi, ma questo venerabile monumento, salvato per la curiosità dei Califfi Arabi, rinacque nel Persiano moderno, negli idiomi Turco, Siriaco, Ebraico e Greco, e per mezzo di successive versioni venne trasfuso nelle moderne lingue d'Europa. Nella presente forma di queste favole, più non si scorgono affatto il carattere particolare, i costumi e la religione degl'Indi; e l'intrinseco merito delle favole di Pilpai cede di gran lunga alla concisa eleganza di Fedro, ed alle naturali grazie di La Fontaine. L'autore ha illustrato, in una serie di apologhi, quindici sentenze morali e politiche ma avviluppata n'è la composizione, prolisso il racconto, e comuni e di poca utilità ne sono i precetti. Nondimeno il Bracmano può pretendere al merito di aver inventato una piacevol finzione, che adorna il nudo della verità, ed addolcisce, per avventura, ad un orecchio reale quello che l'insegnamento in sè contiene di amaro. Collo stesso disegno di avvertire i Re che forti e' non sono se non per la forza de' sudditi loro, gli stessi Indiani inventarono il giuoco degli scacchi, che fu parimente introdotto in Persia sotto il regno di Nushirvano56.
Il figlio di Kobad trovò la monarchia avvolta in guerra col successore di Costantino, e l'inquietudine che gli davano le sue domestiche cose lo mosse a consentire la sospensione di armi che Giustiniano era impaziente di ottenere. Vide Cosroe i Legati romani al suo piede. Egli accettò undicimila libbre d'oro, qual prezzo di una pace perpetua od indefinita57. Si regolarono alcune reciproche permutazioni; i Persiani assunsero la custodia delle porte del Caucaso, e si sospese la demolizione di Dara, col patto che non potesse esser mai la residenza del generale dell'Oriente.
L'ambizione dell'Imperatore che avea sollecitato quest'intervallo di riposo, diligentemente ne trasse profitto. Le sue conquiste affricane furono il primo frutto del trattato Persiano; e l'avarizia di Cosroe venne blandita da una larga porzione dello spoglie di Cartagine, che i suoi ambasciatori richiesero quasi motteggiando e adducendo i pretesti dell'amicizia58. Ma i trofei di Belisario disturbarono i sonni del Gran Re; ed egli udì con istupore, con invidia e con tema, che la Sicilia, l'Italia e Roma stessa in tre rapide campagne erano state ridotte all'obbedienza di Giustiniano. Non avvezzo all'arte di rompere i trattati, egli segretamente suscitò il suo animoso e scaltro vassallo Almondaro. Questo Principe de' Saraceni, che tenea la sua sede in Hira59, non era stato compreso nella pace generale, e continuava a sostenere un'oscura guerra contro il suo rivale Areta, Capo della tribù di Gassan, e confederato dell'Impero. Uno spazioso pascolo nel deserto a mezzo giorno di Palmira, era il soggetto della loro contesa. I diritti di Almondaro parevano attestati da un tributo per la licenza di pascolare, pagato da immemorabile età, nel mentre che il Gassanita allegava il nome di strata, via selciata, come inevitabil prova della sovranità e dell'opera dei Romani60. I due monarchi proteggevano la causa de' loro rispettivi vassalli; l'Arabo Persiano, senz'aspettare l'evento di un tardo e dubbioso arbitrato, arricchì il volante suo campo con le spoglie ed i prigionieri della Siria. Invece di respinger le armi di Almondaro, Giustiniano tentò di sedurne la fedeltà, nel tempo ch'egli chiamava dall'estremità della terra le nazioni dell'Etiopia e della Scizia ad invadere i dominj del suo rivale. Ma distante e precario era l'ajuto di tali alleati, e la scoperta di questa corrispondenza ostile giustificò le querele dei Goti e degli Armeni, che imploravano, quasi nello stesso tratto, la protezione di Cosroe. I discendenti di Arsace, numerosi ancora in Armenia, erano stati commossi a difendere le ultime reliquie della nazionale libertà e dell'ereditario lor grado; e gli ambasciatori di Vitige avevano segretamente attraversato l'Impero per esporre l'imminente e quasi inevitabile pericolo del Regno d'Italia. Uniformi, gravi, ed efficaci apparivano le rimostranze loro. «Noi ci presentiamo dinanzi al tuo trono, per difendere i tuoi interessi non meno che i nostri. L'ambizioso ed infedele Giustiniano aspira ad essere il solo dominatore del Mondo. Dopo stretta la pace perpetua, che tradì la comune libertà dell'uman genere, questo Principe, tuo confederato in parole, e tuo nemico in fatti, ha trattato i suoi amici ed i suoi avversarj con eguale insulto, ed ha riempito la terra di sangue e di scompigli. Non ha egli violato i privilegi dell'Armenia, l'indipendenza del Colco, e la selvaggia libertà dei monti Tzanici? Non ha egli usurpato, con pari avidità, la città di Bosforo sulla gelata Meotide, e la valle delle palme sulle rive dell'Eritreo? I Mori, i Vandali, i Goti sono stati successivamente oppressi, ed ogni nazione è rimasta tranquillamente spettatrice della rovina de' suoi vicini. Cogli, o gran Re! cogli il momento propizio. Senza difesa è l'Oriente, ora che gli eserciti di Giustiniano ed il rinomato suo generale stanno nelle distanti regioni dell'Occidente. Se tu esiti, o differisci, Belisario e le vittoriose sue truppe ben tosto ritorneranno dalle rive del Tebro a quelle del Tigri, ed alla Persia non rimarrà che lo sciagurato conforto di essere stata divorata l'estrema61». Mercè di tali argomenti, Cosroe agevolmente si persuase ad imitare l'esempio ch'egli condannava, ma il Persiano, ambizioso di militar rinomanza, disdegnò l'inoperoso modo di guerreggiar di un rivale che trasmetteva i sanguinosi suoi comandi dal sicuro asilo del Bisantino Palazzo.
In qualunque guisa Cosroe potesse credersi provocato, egli mancò alla fede dei trattati: ed i giusti rimproveri di dissimulazione e di falsità non si possono occultare che dal lustro delle sue vittorie62. L'esercito persiano, raccolto nelle pianure di Babilonia, prudentemente evitò le città fortificate della Mesopotamia, e seguì la riva occidentale dell'Eufrate insino a che la piccola ma popolosa città di Dura ebbe l'ardire di far argine ai progressi del Gran Re. Dal tradimento e dalla sorpresa aperte furono le porte di Dura; e tosto che Cosroe ebbe tinto la sua scimitarra nel sangue di que' cittadini, egli congedò l'ambasciatore di Giustiniano, mandandolo ad informare il suo signore del luogo in cui avea lasciato il nemico dei Romani! Ambiva il conquistatore di esser lodato come giusto e clemente; e nel vedere una nobil matrona col suo bambino barbaramente trascinati per terra, sospirò, pianse ed implorò la divina giustizia perchè punisse l'autore di tai mali. Non pertanto vendè un armento di dodicimila prigionieri pel riscatto di due cento libbre d'oro; il Vescovo di Sergiopoli, città vicina, obbligò la sua fede pel pagamento, e nell'anno seguente l'inflessibile crudeltà di Cosroe fece scontare a quel prelato la pena di un obbligo che generosa cosa era stata per esso il contrarre ed impossibile il soddisfare. Avanzossi il Re nel cuor della Siria; ma un debile nemico, che dileguavasi come egli si approssimava, lo privò degli onori della vittoria; e non potendo sperare di stabilire il suo dominio sul vinto paese, il Monarca persiano spiegò in questa incursione i bassi e rapaci vizj di un masnadiere. Gerapoli, Berrea o Aleppo, Apamea e Calcide furono, l'una dopo l'altra, assediate: esse comprarono la salvezza loro con un prezzo d'oro o d'argento, proporzionato alla rispettiva forza ed opulenza in cui erano; ed il nuovo loro signore le assoggettò ai termini dell'accordo, senza osservarli dal canto suo. Educato nella religione dei Magi, egli esercitò, senza rimorso, il lucrativo traffico del sacrilegio; e dopo di aver tolto via l'oro e le gemme che ornavano un pezzo della vera Croce, egli generosamente restituì la nuda reliquia alla divozione dei Cristiani di Apamea. Non erano scorsi che quattordici anni dacchè un terremoto aveva tratto Antiochia in rovina. Ma la regina dell'Oriente, la nuova Teopoli si era rialzata da terra mediante la liberalità di Giustiniano; e la crescente grandezza de' suoi edifizj e della sua popolazione già quasi avea cancellato la memoria di quel recente disastro. Da un lato la montagna, dall'altro il fiume Orante difendevano Antiochia, ma la parte più accostevole era dominata da una superiore eminenza: si rigettarono gli opportuni provvedimenti di difesa pel dispregievol timore di scoprire la propria debolezza al nemico; e Germano, nipote dell'Imperatore, ricusò di porre a cimento la sua persona e la sua dignità dentro le mura di una città assediata. I cittadini di Antiochia avevano ereditato il vano e satirico genio de' loro antenati: essi vennero in baldanza per l'improvviso rinforzo di seimila soldati: disdegnarono le offerte di una blanda capitolazione; e gl'immoderati loro schiamazzi insultavano dai bastioni la maestà del Gran Re. Animati dal suo sguardo a migliaja i Persiani salirono sulle scale all'assalto; i mercenarj fuggirono per la parte opposta di Dafne, e la generosa resistenza della gioventù di Antiochia non servì che a far più gravi le miserie della lor patria. Cosroe, nel discendere dalla montagna, circondato dagli ambasciatori di Giustiniano, affettò, con dolente voce, di deplorare l'ostinazione e la rovina di quel popolo sventurato; ma la strage frattanto infieriva con implacabile furia; e la città, per comando del Barbaro, fu data in preda alle fiamme. L'avarizia, non la pietà del conquistatore, salvò la cattedrale di Antiochia: una più onorevole immunità fu conceduta alla chiesa di S. Giuliano ed al quartiere ove abitavano gli ambasciatori; il vento, con dar volta, preservò dall'incendio alcune strade rimote, e le mura rimasero in piedi per proteggere, anzi per tradire ben tosto i nuovi loro abitatori. Il fanatismo avea disfigurato gli ornamenti del boschetto di Dafne, ma Cosroe respirò un'aria più pura in mezzo a quelle ombre ed a quelle fonti; ed alcuni idolatri della sua comitiva poterono impunemente sagrificare alle ninfe di quell'elegante ritiro. Diciotto miglia sotto di Antiochia, il fiume Oronte sbocca nel Mediterraneo. Il superbo Persiano si condusse a vedere il termine delle sue conquiste, e dopo d'essersi bagnato egli solo nel mare, offrì un solenne sacrifizio di ringraziamento al Sole, o piuttosto al creatore del Sole, che i Magi adoravano. Se questo atto di superstizione offese i pregiudizi de' Sirj, rallegrati essi furono dalla cortese ed anche premurosa attenzione con cui egli assistette ai giuochi del Circo. Ed avendo Cosroe udito che l'Imperatore teneva per la fazione azzurra, un assoluto suo ordine assicurò la vittoria ai verdi condottieri de' carri. Dalla disciplina del suo campo trassero gli abitanti un conforto più solido; ed invano essi pregarono per la vita di un soldato, il quale troppo fedelmente aveva imitato le rapine del giusto Nushirvan. Stanco alfine, non sazio delle spoglie della Siria, lentamente egli mosse alla volta dell'Eufrate, gettò un temporaneo ponte nelle vicinanze di Barbalisso, e determinò lo spazio di tre giorni per l'intiero passaggio del numeroso suo esercito. Dopo il suo ritorno egli fondò, in distanza di una giornata dal palazzo di Ctesifonte, una nuova città che perpetuasse i congiunti nomi di Cosroe e di Antiochia. I cattivi della Siria vi riconobbero la forma e la situazione delle native lor case; si fabbricarono per lor uso dei bagni ed un magnifico Circo; ed una colonia di musici e di aurighi fece rivivere nella Siria i divertimenti di una Capitale greca. Dalla munificenza del fondator reale si assegnò una liberal provisione a questi esuli fortunati; ed essi gioivano il singolar privilegio di compartire la libertà agli schiavi che riconoscevano per loro parenti. La Palestina e le sacre ricchezze di Gerusalemme furono gli oggetti che poscia attirarono l'ambizione, o piuttosto la cupidigia di Cosroe. Costantinopoli e la Reggia dei Cesari ormai più non sembravano inespugnabili o troppo lontane; e l'ambiziosa sua immaginazione già copriva l'Asia Minore colle sue truppe, e dominava il Mar Nero coi navigli persiani.
Queste speranze potevano sortire l'effetto, se non si fosse opportunamente richiamato il conquistator dell'Italia alla difesa dell'Oriente63. Mentre Cosroe proseguiva gli ambiziosi suoi disegni sulla costa dell'Eussino, Belisario, alla testa di un esercito senza paga e senza disciplina, si accampò di là dall'Eufrate, in distanza di sei miglia da Nisibi. Egli meditava di trar fuori, con una scaltra operazione, i Persiani dall'inespugnabile lor cittadella, e di accrescere il suo vantaggio nel campo, o col tagliare ad essi la ritirata, o forse coll'entrar nelle porte, in una co' Barbari fuggitivi. Egli si avanzò, pel tratto di una giornata, sul territorio della Persia, espugnò la fortezza di Sisaurana, e ne mandò il Governatore, insieme con ottocento scelti soldati a cavallo, a servire l'Imperatore nelle sue guerre d'Italia. Areta ed i suoi Arabi, spalleggiati da mille e dugento Romani, passarono, per suo comando, il Tigri onde portarsi a devastar le messi della Siria, fertile provincia che da lungo tempo non aveva sentito le calamità della guerra. Ma l'intrattabile indole di Areta sconcertò i divisamenti di Belisario, col non rieder più al campo, nè trasmettere alcun avviso de' suoi movimenti. Il Generale romano, pieno di ansiosa aspettazione, non ardiva togliersi dal sito in cui era. Passò frattanto il tempo di agire; il cocente Sole della Mesopotamia accendeva le febbri nel sangue de' soldati europei; e le truppe e gli ufficiali della Siria, trovandosi immobili in campo, affettavano di paventare per la salvezza delle loro città, che prive erano di difesa. Nulladimeno questa diversione aveva già ottenuto il buon esito di costringere Cosroe a tornarsene indietro con perdita e fretta; e se l'abilità di Belisario avesse avuto la disciplina ed il valore in soccorso, i suoi successi avrebber forse appagate le ardenti brame del comun della gente, che dalla sua mano chiedeva la conquista di Ctesifonte e la liberazione dei prigionieri di Antiochia. Sul finire della campagna, egli fu richiamato a Costantinopoli da una Corte ingrata, ma i pericoli della seguente primavera gli fecero restituire la confidenza e il comando; e l'Eroe, quasi solo, fu spedito colla celerità dei cavalli di posta, a respingere l'invasione della Siria, mediante la forza del suo nome e della sua presenza. Egli trovò i Generali romani, tra i quali era un nipote di Giustiniano, imprigionati dai loro timori dentro le fortificazioni di Gerapoli. Ma in luogo di porgere ascolto ai timidi loro consigli, Belisario ordinò che lo seguissero all'Europo dove avea divisato di raccogliere le sue forze, e di eseguire qualunque cosa Iddio gl'inspirasse di intraprendere contro il nemico. La ferma sua attitudine sulle rive dell'Eufrate rattenne Cosroe dall'avanzar contro la Palestina, ed egli accolse con arte e con dignità gli Ambasciatori, o per meglio dire le spie del Monarca persiano. La pianura tra Gerapoli e il fiume era coperta dagli squadroni di cavalleria, composti di seimila alti e robusti cacciatori che inseguivano la preda loro, senza paventare nemici. Sull'opposto lido gli Ambasciatori scorgevano un migliaio di cavalli armeni, che parevano guardare il passo dell'Eufrate. Di grossolana tela era la tenda di Belisario, qual semplice arredo di un guerriero che aveva il lusso dell'Oriente a disdegno. Intorno alla sua tenda, con artificiosa confusione stavano disposte le nazioni che movevano sotto i suoi segni. I Traci e gli Illirici occupavano la fronte, gli Eruli ed i Goti si tenevan nel centro; chiuso era il prospetto dai Mori e dai Vandali, e la sciolta loro ordinanza pareva moltiplicare il lor numero. Vestiti erano alla leggiera, e svelti si mostravano nell'operare; un soldato aveva in mano uno staffile, un altro una spada, un terzo portava un arco, un quarto forse maneggiava un'azza, e tutta la scena nel suo complesso mostrava l'intrepidezza delle truppe e la vigilanza del Capitano. Ingannato fu Cosroe dall'avvedutezza, ed intimorito dal genio del Luogotenente di Giustiniano. Conoscendo il merito, ed ignorando la forza del suo antagonista, non gli bastò il cuore di commettere una decisiva battaglia in un lontano paese, d'onde nessun Persiano fosse tornato a raccontare la malinconica istoria. Sollecito fu il Gran Re a ripassare l'Eufrate, e Belisario ne pressò la ritirata, coll'affettare di opporsi ad una determinazione così salutare all'Impero, e che appena si sarebbe potuto impedire con un esercito di centomila soldati. L'invidia suggerì all'ignoranza ed all'orgoglio che si era lasciato fuggire il pubblico nemico: ma i trionfi, affricano e gotico, furono men gloriosi di questa vittoria, ottenuta senza sangue e fatica, nella quale nè la fortuna, nè il valor dei soldati poterono sottrarre parte veruna alla fama del comandante supremo. Dalla guerra di Persia, Belisario fu mandato una seconda volta a quella d'Italia, ed allora si fece palese la grandezza dell'individuale suo merito, che aveva riparato o supplito alla mancanza della disciplina e del coraggio. Quindici Generali, senz'accordo e senza perizia, condussero in mezzo ai monti dell'Armenia un esercito di trentamila Romani, che nessun'attenzione porgevano ai segnali, all'ordinanza e alle insegne. Quattromila Persiani, trincerati nel campo di Dubi, vinsero quasi senza combattere questa moltitudine disordinata. Le inutili arme loro giacquero sparse lungo la strada, e perirono i loro cavalli, oppressi dalla fatica del frettoloso fuggire. Ma gli Arabi, che combattevano pei Romani, superarono i loro compatriotti della contraria parte; gli Armeni tornarono all'obbedienza dell'Imperatore, le città di Dara e di Edessa sostennero un assalto improvviso ed un regolare assedio, e le calamità della guerra furono sospese dal furor della peste. Una tacita o formale convenzione tra i due Sovrani, protesse la tranquillità della frontiera orientale; e le armi di Cosroe si ristrinsero alla guerra Colchica o Lazica, che dagli storici del tempo troppo minutamente vien rapportata64.
La maggior lunghezza del Mare Eussino65, da Costantinopoli all'imboccatura del Fasi, si può valutare di nove giornate, o di settecento miglia. Dal Caucaso Ibero, che forma la più alta e scoscesa giogaia dei monti dell'Asia, scorre giù il Fasi con tale obbliqua furia che, in un breve spazio, da cento e venti ponti è attraversato il suo corso. Nè placido e navigabile diviene il fiume, sinchè non arriva alla città di Sarapana, cinque giornate distante dal Ciro, fiume che giù scende dagli stessi gioghi, ma, seguendo un contrario corso, va a gettarsi nel Caspio. La prossimità di questi fiumi ha suggerito l'uso, od almeno l'idea di trasportare le preziose merci dell'India giù per l'Oxo nel Caspio mare, e quindi farle risalire il Ciro, e colla corrente del Fasi condurle nell'Eussino e nel Mediterraneo. Nel raccogliere che fa successivamente le acque della pianura di Colco, muovesi il Fasi con diminuita rapidità, ma con peso accumulato. Esso ha sessanta braccia di profondità, e mezza lega di larghezza alla sua foce, ma una selvosa isoletta siede nel mezzo al canale: l'acqua del fiume, poi che ha deposto un sedimento terreo o metallico, galleggia sulla superficie delle onde marine, e non è più suscettiva di corrompersi. In un corso di cento miglia, quaranta dei quali si possono navigare da grossi vascelli, divide il Fasi la celebre regione di Colco66, ossia la Mingrelia67, che su tre lati è fortificata dai monti dell'Armenia: la sua costa marittima si prolunga per circa duecento miglia, dai contorni di Trebisonda sino a Dioscurias, ed ai confini della Circassia. Rilassati da un'eccessiva umidità ne sono il suolo ed il clima: ventotto fiumi, oltre il Fasi e le tributarie sue acque, vanno a scaricarsi nel mare; ed il suono cupo che rende la terra, sembra indicare i canali che corrono sotterranei fra l'Eussino ed il Caspio. Nei campi dove si semina orzo o formento, la terra è troppo molle per sostenere l'azione dell'aratro; ma il gom, grano minuto, che somiglia al miglio od al seme di coriandro, somministra l'ordinario alimento del popolo; e soltanto i Principi e nobili del paese fanno uso del pane. Nondimeno la vendemmia è più abbondante che la messe; e la grossezza delle viti, non meno che la qualità del vino, mostra le buone qualità del terreno che non ha mestieri d'aiuto. La medesima interna fecondità tende del continuo a ricoprire di dense foreste il paese; il legname dei colli, ed il lino delle pianure forniscono in abbondanza le provvisioni navali; i quadrupedi selvaggi e domestici, il cavallo, il bue, il majale, sono prolifici singolarmente: il nome del fagiano esprime la nativa sua dimora sulle rive del Fasi. Le miniere d'oro, poste a mezzo giorno di Trebisonda, che vengono scavate anche ora con bastevol guadagno, furono soggetto di nazional disputa tra Giustiniano e Cosroe; e non è fuor di ragione il credere che una vena di prezioso metallo possa essere egualmente diffusa pel circolo delle colline, benchè questi tesori segreti siano trascurati dall'infingardaggine, o tenuti occulti dalla prudenza dei Mingrelj. Le acque, impregnate di particelle d'oro, vengono diligentemente fatte passare attraverso di pelli di pecora o velli, ma questo spediente, che forse diede origine ad una favola maravigliosa, offre una debole immagine della ricchezza tratta fuor della vergine terra dalla potenza ed industria degli antichi Sovrani. I loro palazzi d'argento e le camere d'oro eccedono la nostra facoltà di credere; ma la fama delle loro ricchezze ha eccitato, dicono, l'intraprendente avarizia degli Argonauti68. Dalla tradizione si è riferito, con qualche color di ragione, che l'Egitto piantasse sul Fasi una colonia istruita e colta69, la quale fabbricava tela, costruiva navi, ed inventò le carte geografiche. L'ingegno dei moderni ha popolato di floride città e nazioni l'Istmo che corre dall'Eussino al Mar Caspio70; ed un vivace Scrittore, osservando la rassomiglianza del clima, e per quanto gli parea, del commercio, non esitò a denominare il Colco, l'Olanda dei tempi antichi71.
Ma le dovizie del Colco non risplendono che per mezzo alle tenebre della conghiettura o della tradizione; nel mentre che la genuina sua istoria ci presenta una scena uniforme di rozzezza e di povertà. Se è vero che si parlavano cento e trenta lingue, sul mercato di Dioscurias72, non potevano essere che gli imperfetti idiomi di altrettante selvagge tribù o famiglie, segregate l'una dall'altra nelle valli del monte Caucaso; e la separazione loro, se diminuiva l'importanza, accresceva il numero delle rustiche lor capitali. Nello stato presente della Mingrelia, un villaggio non è che un aggregato di capanne, circondate da un riparo di legno; le fortezze sono stabilite nella profondità delle foreste; la principesca città di Cyta, o Cotati, è formata di duecento case, ed un edifizio di pietra non appartiene che alla magnificenza dei Re. Dodici navi, partite da Costantinopoli, e circa sessanta barche, cariche de' frutti dell'industria, gettavano ogni anno l'ancora su quella costa; e l'elenco delle esportazioni del Colco si è di molto aumentato, dal tempo in cui i nativi non avevano che schiavi e pelli da offrire in cambio del grano e del sale che compravano dai sudditi di Giustiniano. Non si può rinvenire alcun vestigio delle arti, della coltura o della navigazione dei Colchi antichi: pochi Greci ebbero desiderio o ardire di andar sulle tracce degli Argonauti; ed eziandio i segni di una Colonia egizia si smarriscono agli occhi di chi si fa a riguardar più dappresso. È negli adjacenti climi della Giorgia, della Mingrelia e della Circassia, che la natura ha collocato, almeno per quanto a noi pare, il modello della bellezza, nella forma delle membra, nel color della pelle, nella simmetria delle fattezze, e nell'espressione del volto73. Secondo la destinazione dei due sessi, gli uomini sembrano formati per operare, le donne per amare; e la perpetua abbondanza di donne, che traggonsi dal Caucaso, ha purificato il sangue, e migliorato la razza delle nazioni meridionali dell'Asia. La Mingrelia, propriamente detta, la quale non è che una porzione della Colchide antica, ha per lungo tempo sostenuto un'esportazione di dodicimila schiavi. Non avrebbe bastato il numero dei prigionieri o dei rei per fornire all'annua richiesta; ma il basso popolo è colà tenuto nello stato di servitù da' suoi Signori: l'esercizio della frode e della rapina giace impunito in una comunità che non ha leggi; ed i mercati si trovano continuamente riempiti, mediante l'abuso dell'autorità civile e paterna. Un simil traffico74, che riduce la specie umana al livello degli armenti, può tendere ad incoraggiare i matrimoni e la popolazione; poichè la moltitudine dei figli arricchisce i sordidi ed inumani loro parenti. Ma questa sorgente d'impura ricchezza dee inevitabilmente avvelenare i nazionali costumi, cancellare il sentimento dell'amore e della virtù, e quasi estinguere gl'istinti della natura. I Cristiani della Giorgia e della Mingrelia sono i più dissoluti fra gli uomini; ed i loro figliuoli, che in tenera età vengono venduti a schiavitù straniera, hanno già imparato ad imitare la rapina del padre e la prostituzione della madre. Nondimeno, in mezzo alla più crassa ignoranza, i nativi, senz'alcun ammaestramento, spiegano una singolar destrezza di mente e di mano; e benchè la mancanza di unione e di disciplina gli esponga ai colpi dei loro più potenti vicini, pure un audace ed intrepido spirito ha sempre animato i Colchi di qualsivoglia età. Nell'esercito di Serse, essi militavano a piedi, e le armi loro erano una daga od un giavellotto, un elmo di legno ed uno scudo di pelli non conciate. Ma, nella patria loro, predomina più generalmente l'uso della cavalleria: il più infimo dei contadini sdegna di andare a piedi; i marziali nobili spesso posseggono non meno di duecento cavalli; e le stalle del Principe di Mingrelia ne contengono cinquemila. Il governo della Colchide è sempre stato un regno puro ed ereditario, e l'autorità del Sovrano non vi è limitata che dalla turbolenta indole dei suoi sudditi. Ove gli rendessero obbedienza, egli potrebbe condurre in campo un esercito numeroso; ma si richiede qualche dose di fede per credere che la sola tribù dei Suani fosse composta di dugentomila soldati, o che la popolazione della Mingrelia monti presentemente a quattro milioni di abitatori75.
Si vantavano i Colchi anticamente che i loro maggiori avevano posto argine alle vittorie di Sesostri; e la disfatta del Monarca egiziano è meno incredibile che i fortunati suoi progressi fino ai piedi del monte Caucaso. Soggiacquero i Colchi, senza alcun memorabile sforzo, alle armi di Ciro; seguitarono in lontane guerre il vessillo del Gran Re, e gli presentavano ogni cinque anni cento giovanette ed altrettante vergini, il più bello fra i prodotti della patria loro76, ed egli accettava questo dono come l'oro e l'ebano dell'India, l'incenso degli Arabi, od i Negri e l'avorio dell'Etiopia. I Colchi non eran soggetti alla dominazione di un Satrapa, ed essi continuavano a godere il nome, ugualmente che la sostanza dell'indipendenza nazionale77. Poscia che caduto fu l'Impero di Persia, Mitridate, Re del Ponto, aggiunse il Colco al vasto circolo dei suoi dominj sull'Eussino; ed allorquando i nativi ardirono di chiedere che il suo figlio regnasse sopra di loro, egli fece stringere l'ambizioso giovane in catene d'oro, e mandò un famiglio a governare in sua vece. Nell'inseguir Mitridate, i Romani s'innoltrarono sulle rive del Fasi, e le galee di Roma navigarono su pel fiume finchè raggiunsero il campo di Pompeo e le sue legioni78. Ma il Senato e poscia gl'Imperatori, sdegnarono di ridurre nella forma di una provincia quella distante ed inutil conquista. Si permise alla famiglia di un retore greco di regnare sopra la Colchide e gli adiacenti regni, dal tempo di Marc'Antonio sino a quel di Nerone; ed estinta che fu la stirpe di Polemone79, il Ponto orientale, che conservò il suo nome, non si estese oltre le vicinanze di Trebisonda. Al di là di questi limiti le fortificazioni di Isso, di Apsero, del Fasi, di Dioscurias o Sebastopoli e di Pizio, erano custodite da sufficienti presidj di cavalleria e di fanteria: e sei Principi della Colchide ricevevano i loro diademi dai Luogotenenti di Cesare. Uno di questi Luogotenenti, l'eloquente e filosofico Arriano, esaminò e descrisse la costa dell'Eussino, al tempo che Adriano regnava. La guernigione ch'egli passò in rassegna alla foce del Fasi, era composta di quattrocento scelti legionarj. Le mura e le torri, fabbricate di mattoni, il doppio fosso e le macchine militari sui bastioni, rendevano inaccessibile ai Barbari questa fortezza; ma i nuovi sobborghi edificati dai mercanti e dai veterani, richiedevano, secondo il giudizio di Arriano, alcune esteriori opere di difesa80. Come la forza dell'Impero andò a poco a poco scemando, i Romani, stanziati sul Fasi, furono o richiamati od espulsi; e la tribù dei Lazi81, la cui posterità parla un dialetto straniero, ed abita la costa marittima di Trebisonda, impose il suo nome e la sua denominazione all'antico regno di Colco. L'indipendenza loro fu tosto invasa da un formidabil vicino, il quale aveva acquistato, mercè delle armi e de' trattati, la sovranità dell'Iberia. Il dipendente Re di Lazica ricevè lo scettro dalle mani del Monarca persiano, ed i successori di Costantino acconsentirono a questa oltraggiosa pretensione, che alteramente fu allegata come un diritto d'immemorabile antichità. Al principio del sesto secolo rinacque l'influenza imperiale, mediante l'introduzione del Cristianesimo, che i Mingrelj tuttor professano con apparente zelo, ma senza intenderne le dottrine, od osservarne i precetti. Dopo la morte del padre, Zato salì alla dignità reale, pel favor del Gran Re: ma il pio garzone abborriva le cerimonie dei Magi, e cercò nel palazzo di Costantinopoli un battesimo ortodosso, una moglie nobile, e l'alleanza dell'Imperatore Giustino. Il Re di Lazica solennemente investito fu del diadema, ed il suo manto e la tunica di candida seta, orlata in oro, rappresentavano, con ricco trapunto l'immagine del nuovo suo protettore, il quale mitigò la gelosia della Corte persiana, e scusò la ribellione di Colco mediante i venerabili nomi di ospitalità e di religione. Il comune interesse dei due imperii impose ai Colchi il dovere di custodire i passi del monte Caucaso, dove una muraglia di sessanta miglia viene al presente difesa dal mensile servizio dei moschettieri della Mingrelia82.
Ma questa onorevole colleganza fu ben presto corrotta dall'avarizia e dall'ambizione de' Romani. Deposti dal grado di alleati, i Lazi si vedevano e sentivano del continuo rammentare, in parole ed in fatti, il loro dipendente stato. In distanza di una giornata di là dall'Apsaro, essi mirarono a sorgere la fortezza di Petra83, che dominava il paese marittimo a levante del Fasi. In luogo di esser protetti dal valore, i Colchi erano insultati dalla licenza di mercenarj stranieri. Un vile e vessante monopolio ingojò i profitti del commercio; e Gubaze, Principe del paese, fu ridotto ad un simulacro di real potere, dal superiore influsso degli ufficiali di Giustiniano. Disingannati dall'aspettazione in cui erano della cristiana virtù, gli indispettiti Lazi riposero qualche fiducia nella giustizia di un Infedele. Dopo di essersi privatamente accertati che i loro Ambasciatori non verrebbero consegnati ai Romani, essi pubblicamente richiesero l'amicizia e l'ajuto di Cosroe. Il sagace monarca subitamente conobbe l'uso e l'importanza della Colchide; e meditò un disegno di conquista, che fu rinnovato, in capo a mille anni dal Shà Abbas, il più saggio ed il più potente de' suoi successori84. Accesa era l'ambizion di Cosroe dalla speranza di tenere una flotta persiana alla foce del Fasi, di dominare il traffico e la navigazione dell'Eussino, di dare il guasto alla costa del Ponto e della Bitinia, di tribolare, e forse di attaccare Costantinopoli, e di trarre i Barbari dall'Europa a secondare le sue armi ed i suoi consiglj contro il comune avversario del genere umano. Col pretesto di una guerra scitica, tacitamente egli mandò le sue truppe alle frontiere dell'Iberia: stavano in pronto alcune guide Colchiche per condurle in mezzo alle selve e lungo i precipizj del Monte Caucaso: e, di un angusto sentiero, si fece, a forza di fatica, una sicura e spaziosa strada pel passaggio dei cavalli ed anche degli elefanti. Gubaze pose se stesso ed il suo diadema ai piedi del re di Persia, i suoi Colleghi imitarono la sommissione del Principe loro, e la guarnigione romana di Petra, vedendone scosse le mura, si sottrasse mercè di una capitolazione, al sovrastante furore di un ultimo assalto. Ma i Lazi ben presto scoprirono che l'impazienza gli avea tratti a scegliere un male più intollerabile che le calamità da cui cercavano di fuggire. Tolto fu in vero il monopolio del sale e del grano, ma mediante la perdita di queste preziose derrate. All'autorità di un legislatore romano succedette l'orgoglio di un despota orientale, il qual rimirava, con ugual disdegno, gli schiavi che aveva innalzati, ed i Re che aveva umiliati innanzi allo sgabello del suo trono. Fu introdotta nella Colchide l'adorazione del fuoco dallo zelo dei Magi: l'intollerante loro spirito provocò il fervore di un popolo cristiano; ed i pregiudizi della natura o dell'educazione si trovarono feriti dall'empia usanza di esporre i corpi morti dei loro parenti, sulla cima di un'alta torre, ai corvi ed agli avoltoi85. Consapevole di quest'odio crescente, che ritardava l'esecuzione dei suoi vasti disegni, il giusto Nushirvan avea segretamente dato ordine che si uccidesse il Re dei Lazi, si trapiantasse quel popolo in qualche lontana contrada, e si stabilisse una fedele e guerriera colonia sopra le rive dei Fasi. La vigilante gelosia dei Colchi antevide ed allontanò la rovina, vicina a piombare. La prudenza, anzi che la clemenza di Giustiniano accettò in Costantinopoli il lor pentimento, ed egli ordinò a Dagisteo che con settemila Romani, ed un migliajo di guerrieri Zani cacciasse via i Persiani dalla costa del mare Eussino.
L'assedio di Petra a cui il Generale romano, coll'ajuto dei Lazi, immantinente si accinse, è una delle più notabili imprese di quei tempi. Sedeva la città sopra una rupe scoscesa, la quale pendea sopra il mare e non comunicava colla terra eccetto per mezzo di un arduo ed angusto sentiero. Difficile essendone l'approccio, poteva credersene impossibil l'attacco. Il conquistatore persiano aveva aggiunto nuove opere alle fortificazioni di Giustiniano, e nuovi baluardi cuoprivano i luoghi meno inaccessibili. In questa importante rocca la vigilanza di Cosroe avea raccolto un magazzino di arme offensive e difensive, il qual era sufficiente ad armare cinque volte il numero, non solo degli assaliti ma anche degli stessi assalitori. Le provigioni di farina e di sale erano in tale abbondanza da fornire al consumo di cinque anni; si suppliva alla mancanza del vino mediante l'aceto ed il grano da cui si traeva una spiritosa bevanda: ed un triplice acquedotto eludeva la diligenza, anzi i sospetti pure dell'inimico. Ma la più ferma difesa di Petra era posta nel valore di mille cinquecento Persiani che respingevano gli assalti dei Romani; allorchè fu segretamente praticata una mina dentro una vena più cedente di terra. Le mura, sostenute da deboli e temporanei puntelli, pendevano vacillanti nell'aria; ma Dagisteo differì l'ultimo attacco sinchè non si fosse assicurata una specifica ricompensa; e la città venne soccorsa, prima che il suo messo fosse ritornato da Costantinopoli. A quattrocento uomini era ridotta la guarnigione persiana, dei quali non più di cinquanta andavano esenti da malattie o da ferite: eppure a tale era giunta l'inflessibile loro perseveranza che nascosero le loro perdite all'inimico, col sopportare, senza lagnarsi, la vista ed il putrido fetor de' cadaveri dei loro mille e cento compagni. Appena liberata fu Petra, sollecitamente si saldarono le brecce con sacchi di sabbia; si colmò di terra la mina e si eresse un nuovo muro, puntellato fortemente con pali; ed un fresco presidio di tremila uomini si ridusse nella fortezza a sostenere i travagli di un secondo assedio. Con abile ostinazione furono condotte le operazioni, sì dell'attacco che della difesa; e tanto una parte quanto l'altra trasse partito dall'esperienza de' suoi errori passati. S'inventò un ariete di costruzione leggiera e di poderoso effetto il quale veniva trasportato e messo in opera dalle mani di quaranta soldati, e a misura che le pietre de' bastioni si mostravano scosse dai replicati suoi colpi, gli assedianti ne le staccavano con lunghi uncini di ferro. Dall'alto di quelle mura pioveva un nembo di dardi sul capo degli assalitori, ma più pericolosamente essi venivano tribolati da un'accendevole composizione di zolfo e bitume, la quale, nel Colco, si potea con qualche proprietà denominare l'olio di Medea. Di seimila Romani che salirono alla scalata, il primo di tutti fu Bessa, lor generale, prode veterano, in età di settant'anni: il coraggio di questo condottiero, la caduta e l'estremo pericolo di lui animarono l'irresistibile sforzo delle sue truppe, ed il prevalente lor numero soverchiò la forza, senza domare l'intrepidezza della guarnigione persiana. La sorte di questi valorosi guerrieri merita di essere più distintamente ricordata. Settecento di loro eran periti durante l'assedio, duemila trecento sopravvivevano a difender la breccia. Di questi, mille e settanta furono distrutti dal fuoco e dal ferro nell'ultimo assalto, settecento trenta caddero prigionieri, ma diciotto solo erano tra loro che non portassero i segni di onorate ferite. Gli altri cinquecento si rifuggirono nella cittadella, che essi tennero senza speranza alcuna di soccorso, e rigettando i più lusinghieri patti di capitolare e di prender nuovo servizio, finchè dalle fiamme non furono consumati. Essi perirono in obbedienza ai comandi del loro Principe; e tali esempi di lealtà e di valore potevano eccitare i loro compatriotti a geste di egual disperazione e di esito più fortunato. La subitanea demolizione delle fortificazioni di Petra pose in chiaro lo stupore e le apprensioni del conquistatore.
Uno Spartano avrebbe lodato e compianto la virtù di questi eroi schiavi: ma le tediose ostilità e gli alterni successi delle armi romane o persiane non possono trattenere l'attenzione della posterità ai piedi del monte Caucaso. Più frequenti e più splendidi vantaggi riportarono le truppe di Giustiniano; ma le forze del Gran Re del continuo crescevano, finchè montarono ad otto elefanti, ed a settantamila uomini, compresovi dodicimila alleati Sciti, e più di tremila Dilemiti, che per propria scelta discesero dalle rupi dell'Ircania, ed egualmente formidabili si mostravano nel combatter da lungi o da presso. I Persiani levarono, con qualche perdita e precipitazione, l'assedio di Archeopoli, nome imposto dai Greci, ovvero da essi corrotto; ma occuparono i passi dell'Iberia e signoreggiarono tutto il Colco coi forti e coi presidj loro: essi divorarono gli scarsi viveri del popolo; ed il Principe de' Lazi fuggì nel mezzo dei monti. La fede e la disciplina erano incogniti nomi nel campo romano; e gl'indipendenti condottieri, investiti di ugual potere, si contendevano fra loro la preminenza del vizio e della corruzione. I Persiani obbedivano, senza muovere accento, ai comandi di un solo Capo, il quale implicitamente si atteneva alle istruzioni del loro supremo Signore. Segnalato era il loro Generale tra gli eroi dell'Oriente per la sua sapienza in consiglio, ed il suo valore nel campo. L'attempata età di Mermeroe, la stroppiatura de' suoi piedi scemar non poterono l'attività del suo spirito, od anche del suo corpo; e nell'atto che lo portavano in lettiga sulla fronte della battaglia, terrore egli inspirava al nemico, e giusta fidanza alle truppe che sempre erano fortunate sotto le sue bandiere. Dopo la morte di lui, il comando passò a Nacoragan, satrapa orgoglioso, il quale in una conferenza coi Capitani imperiali, giunse alla baldanza di dichiarare ch'egli disponeva della vittoria come dell'anello che portava nel dito. Un presumer siffatto fu la natural cagione ed il precursore di una vergognosa sconfitta. I Romani a poco a poco erano stati respinti sino al lido del mare; e l'ultimo lor campo, posto sulle rovine della colonia greca del Fasi, era difeso per ogni verso da forti trincee, dal fiume, dall'Eussino e da una quantità di galere. La disperazione unì i consiglj, e rinvigorì le armi loro: essi fecero fronte all'assalto dei Persiani; e la fuga di Nacoragan precedè o seguì la strage di diecimila de' suoi più valorosi soldati. Egli fuggì dai Romani per cader negli artigli di un Sovrano non avvezzo a perdonare, il quale severamente punì l'errore della propria sua scelta. Lo sventurato Generale fu scorticato vivo, e la sua pelle imbottita e foggiata a forma umana fu esposta sulla cima di un monte, qual tremendo avviso per quelli a' quali la fama e la fortuna della Persia venissero di quindi innanzi affidate86. Con tutto ciò la prudenza di Cosroe insensibilmente cessò dal continuare la guerra colchica, giustamente persuaso esser impossibil cosa il soggiogare o per meno il tenere nell'obbedienza una lontana contrada, in opposizione ai desiderj ed agli sforzi degli abitatori di essa. La fedeltà di Gubaze sostenne il più rigoroso cimento. Con pazienza egli sopportò i travagli di una vita selvaggia, e con disdegno rigettò gli speciosi allettativi della Corte persiana. Il Re dei Lazi era stato educato nella religione cristiana; la sua madre era figlia di un Senatore; durante la sua giovinezza egli avea servito per dieci anni in qualità di silenziario nella Reggia di Bisanzio87, e gli arretrati di un non pagato stipendio erano per lui un motivo di fedeltà nel tempo stesso e di lagnanza. Ma il lungo durar de' suoi mali gli trasse finalmente di bocca un ignuda esposizione del vero; ed il vero era un'accusa da non perdonarsi contro i Luogotenenti di Giustiniano, i quali, in mezzo agli indugi di una rovinosa guerra avevano risparmiato i nemici, e calpestato gli alleati del loro Sovrano. Le maligne riferte loro posero nell'animo all'Imperatore che il suo vassallo meditasse di mancargli una seconda volta di fede: si sorprese un ordine di mandarlo prigioniero a Costantinopoli, e s'inserì una proditoria clausola ch'egli potesse legittimamente essere ucciso in caso di resistenza; laonde Gubaze, senz'armi e senza sospetti di pericolo, fu trucidato nella sicurezza di un abboccamento amichevole. Nei primi momenti dello sdegno e della disperazione, i Colchi avrebbero sacrificato la patria e la religione loro al piacere di conseguire vendetta. Ma l'autorità ed eloquenza dei pochi più saggi ottenne una salutar dilazione: la vittoria del Fasi ristabilì il terrore delle armi romane, e l'Imperatore si recò a premura di assolvere il proprio nome dall'imputazione di un sì nero assassinio. Ad un giudice di grado senatorio fu commesso di far indagini intorno alla condotta ed alla morte del Re dei Lazi. Egli salì sopra un tribunal maestoso, circondato dai ministri della giustizia e del punimento: al cospetto delle due nazioni si piatì questa straordinaria causa secondo le forme della Giurisprudenza civile, ed un popolo oltraggiato ottenne qualche soddisfazione, mediante la sentenza ed il supplizio dei delinquenti inferiori88.
In tempo di pace, il Re di Persia continuamente cercava i pretesti di una rottura, ma non così tosto aveva dato di piglio alle armi, che manifestava il suo desiderio di un sicuro ed onorevole accordo. Mentre le ostilità più infierivano, i due Monarchi mantenevano ingannevoli pratiche fra loro; e tale era la superiorità di Cosroe, che trattando egli con insolenza e disprezzo gli Oratori romani, otteneva i più grandi ed insoliti onori pe' suoi ministri alla Corte imperiale. Il successore di Ciro assumeva la Maestà del Sole orientale, e graziosamente permetteva che il suo minor fratello Giustiniano regnasse sopra l'Occidente, col pallido e riflesso splendor della Luna. Questo gigantesco stile era sostenuto dalla pompa ed eloquenza di Isdiguno, ciamberlano reale. La moglie e le figlie lo accompagnavano con numeroso seguito di Eunuchi e di Cammelli; si scorgevano due Satrapi con aurei diademi nel numero de' suoi seguaci: cinquecento soldati a cavallo, i più valorosi fra i Persiani, gli servivan di guardia; ed il Governatore romano di Dara saviamente ricusò di ammettere nella città più di venti individui di questa marziale ed ostil carovana. Poscia che Isdiguno ebbe salutato l'Imperatore ed offerto i suoi doni, passò dieci mesi in Costantinopoli senza discutere alcun serio affare. In luogo di esser confinato nel suo palazzo, e ricevervi il cibo e l'acqua dalle mani de' suoi custodi, l'Ambasciatore persiano, senza spie e senza guardie, ebbe permissione di girar per la capitale; e la libertà di parlare e di trafficare che i suoi serventi godevano, offendeva i pregiudizj di un secolo che rigorosamente senza confidenza e senza cortesia praticava la legge delle nazioni89. Per un'indulgenza senza esempio il suo interprete, il quale era nella classe dei servi ed al di sotto degli sguardi di un magistrato romano, sedeva alla mensa di Giustiniano al fianco del suo signore, e si assegnarono mille libbre d'oro per la spesa del viaggio e pel mantenimento di questo pomposo Ambasciatore. Nondimeno le iterate cure di Isdiguno, non condussero che una parziale ed imperfetta tregua, sempre comprata coi tesori e rinnovata a preghiere della Corte di Bisanzio. Trascorsero molti anni d'inutile desolazione, prima che Giustiniano e Cosroe fossero astretti, dalla mutua stanchezza, a consultare il riposo dell'età loro che tramontava. Si tenne una conferenza sulle frontiere, in cui ambedue le parti, senza aspettarsi d'esser creduto, vantarono la potenza, la giustizia e le pacifiche intenzioni dei rispettivi loro Sovrani; ma la necessità e l'interesse dettarono il trattato di pace, che fu conchiuso per un termine di cinquant'anni. Esso diligentemente fu composto in lingua greca e persiana, ed i sigilli di dodici interpreti ne attestarono l'autenticità. Si stabilì e si definì la libertà del traffico e della religione; gli alleati dell'Imperatore e quelli del Gran Re furono chiamati a parte degli stessi benefizj e doveri; e si pigliarono le più scrupolose precauzioni onde prevenire e determinare le dispute accidentali, che potessero insorgere sui confini delle due nazioni nemiche. Dopo vent'anni di guerra distruttiva, ma debolmente spinta, i limiti rimasero quali erano prima; e Cosroe s'indusse a rinunziare le sue pericolose pretensioni al possesso od alla sovranità della Colchide e degli Stati che ne dipendevano. Ricco per gli accumulati tesori dell'Oriente, egli trasse ancora dai Romani un annuo pagamento di trentamila monete d'oro; e la picciolezza della somma lasciava scorgere il disonor di un tributo in tutta la sua nuda laidezza. In un dibattimento anteriore, uno dei ministri di Giustiniano, rammentando il carro di Sesostri e la ruota della fortuna, fece avvertire che la presa d'Antiochia e di alcune città della Siria aveva esaltato oltre misura il vano ed ambizioso animo dei Barbari. «T'inganni, replicò il modesto Persiano: il Re dei Re, il Signore degli uomini guarda con disprezzo così miseri acquisti; e delle dieci nazioni, domate dalle invincibili armi, egli considera i Romani come i men formidabili90». Secondo gli Orientali, l'impero di Nushirvan si estendeva da Fergana nella Transoxiana, sino all'Yemen, o l'Arabia felice. Egli soggiogò i ribelli dell'Ircania, conquistò le province di Cabul e di Zadlestan sulle rive dell'Indo, ruppe la potenza degli Eutaliti, terminò con onorevole accordo la guerra de' Turchi, ed ammise la figlia del Gran Cane nel numero delle sue legittime mogli. Vittorioso e rispettato fra i Principi dell'Asia, egli dava udienza nella sua Reggia di Madain o Ctesifonte, agli Ambasciatori del mondo. I loro doni o tributi, di armi, di ricche vesti, di gemme, di schiavi e di aromi, umilmente venivano deposti al piè del suo trono; ed egli condiscendeva ad accettare dal Re dell'Indie dieci quintali di legno d'aloe, una fanciulla alta sette cubiti ed un tappeto più soffice della seta, formato, come essi narrano, colla pelle di uno straordinario serpente91.
Si è rimproverata a Giustiniano l'alleanza da lui stretta cogli Etiopi, come se tentato egli avesse d'introdurre un popolo di Negri selvaggi nel sistema della società incivilita. Ma gli amici del romano Impero, gli Axumiti ed Abissini, si debbono sempre distinguere dai nativi originali dell'Affrica92. La mano della natura ha schiacciato il naso dei Negri, ha coperto di crespa lana il lor capo, e colorato la lor pelle d'inerente e indelebil nerezza. Ma la carnagione olivastra degli Abissini, la chioma, le forme e le fattezze loro, distintamente in essi dimostrano una colonia di Arabi; e questa discendenza vien confermata dalla rassomiglianza della lingua e dei costumi, dalla memoria di un'antica emigrazione, e dal piccolo intervallo che corre tra gli opposti lidi del Mar Rosso. Il Cristianesimo avea sollevato quella nazione sopra il livello della barbarie affricana93: le relazioni loro coll'Egitto e coi successori di Costantino94 avean fatto passare nel lor paese i rudimenti delle arti e delle scienze. Trafficavano i lor vassalli coll'isola di Ceilan95, e sette regni obbedivano al Nego o Principe supremo dell'Abissinia. L'indipendenza degli Omeriti che regnavano nella ricca e felice Arabia, fu per la prima volta violata da un conquistatore etiope: egli traeva il suo ereditario diritto dalla Regina di Sheba96, ed il religioso zelo santificava la sua ambizione. Gli Ebrei, potenti ed attivi nell'esilio, avevano sedotto l'animo di Dunaan, Principe degli Omeriti. Essi lo spinsero a far rappresaglia della persecuzione che le leggi imperiali esercitavano contra i loro sventurati fratelli: alcuni mercatanti romani furono oltraggiosamente trattati, e parecchi Cristiani di Negra97 ottennero gli onori e la corona del martirio98. Le chiese dell'Arabia implorarono la protezione del Monarca Abissino. Il Nego passò il Mar Rosso con una flotta ed un esercito, privò il Proselito giudaico del regno e della vita, ed estinse una stirpe di principi che avea governato per più di duemila anni la segregata regione della mirra e dell'incenso. Il Conquistatore immediatamente annunziò la vittoria del Vangelo: egli domandò un Patriarca ortodosso, e così caldamente si mostrò amico del romano Impero, che Giustiniano fa allettato dalla speranza di condurre il commercio della seta pel canale dell'Abissinia, e di suscitare le forze dell'Arabia contro il Re persiano. Nonnoso, discendente da una famiglia di ambasciatori, fu nominato dall'Imperatore ad eseguire questa importante commissione. Giudiziosamente egli evitò la più breve, ma più pericolosa strada attraverso gli arenosi deserti della Nubia; salì contro il corso del Nilo, s'imbarcò sul Mar Rosso, ed approdò sano e salvo nel porto affricano di Aduli. Da Aduli alla reale città di Axuma non si stendono più di cinquanta leghe in linea retta; ma i giri e rigiri dei monti ritennero per quindici giorni l'ambasciatore; e nel passare ch'egli fece per le foreste, vide una quantità di elefanti selvaggi, che stimò ascendere a forse cinquemila. Vasta e popolosa, secondo ch'ei narra, era la capitale, ed il villaggio di Axuma è cospicuo tuttora per l'incoronazione dei Re, per le rovine di un tempio cristiano, e per sedici o diciassette obelischi che portano iscrizioni greche99. Ma il Nego gli diede udienza in campo aperto. Sedeva egli sopra un altero carro, tratto da quattro elefanti, magnificamente guerniti: una corona di nobili e di musici gli stava all'intorno. Vestito era di panni lini, con berretta sul capo, e teneva in mano due giavellotti ed un piccolo scudo; e quantunque la sua nudità fosse imperfettamente coperta, egli sfoggiava la barbarica pompa di auree catene, di monili e di armille, riccamente adornate di perle e di pietre preziose. L'Oratore di Giustiniano piegò a terra i ginocchi; il Nego lo rialzò dal suolo, abbracciò Nonnoso, baciò il sigillo, lesse la lettera, accettò l'alleanza romana, e brandendo le sue armi, intimò guerra implacabile contro gli adoratori del fuoco. Ma la proposizione intorno al commercio della seta non andò al segno, e malgrado le proteste, e forse i desiderii degli Abissini, le minacce ostili si dileguarono senza verun effetto. Gli Omeriti non eran punto vogliosi di togliersi dagli aromatici loro boschetti, per valicare un sabbioso deserto, ed incontrar dopo tante fatiche una formidabil nazione da cui non avevan mai ricevuto alcuna personale offesa. Invece di estendere le sue conquiste, il Re di Etiopia non fu abile a difendere i suoi possessi. Abrahah, schiavo d'un mercante romano stabilito in Aduli, si appropriò lo scettro degli Omeriti; le truppe dell'Affrica restarono sedotte dalle delizie del clima; e Giustiniano richiese l'amicizia dell'Usurpatore, il quale onorò, con un tenue tributo, la supremazia del suo Principe. Dopo una lunga serie di prosperità, la potenza di Abrahah andò sossopra innanzi alle porte di Mecca; il Conquistatore persiano spogliò del retaggio i suoi figli, e gli Etiopi furono finalmente cacciati dal continente dell'Asia. Questo racconto di avvenimenti oscuri e remoti non è straniero al declino ed alla caduta del romano Impero. Se la potenza cristiana si fosse mantenuta nell'Arabia, Maometto sarebbe stato spento nella sua culla, e l'Abissinia avrebbe impedito una rivoluzione che ha mutato di aspetto lo stato civile e religioso del mondo100.
Ribellioni d'Affrica. Restaurazione del regno de' Goti, per opera di Totila. Perdita e riacquisto di Roma. Conquista definitiva dell'Italia, fatta da Narsete. Estinzione degli Ostrogoti. Disfatta de' Franchi e degli Alemanni. Ultima vittoria; disgrazia, e morte di Belisario. Morte e carattere di Giustiniano. Cometa, terremoti e pestilenza.
La rassegna a cui furono passate le varie nazioni dal Danubio al Nilo, ha posto in luce per ogni parte la debolezza dei Romani, e ragionevolmente ci possiamo maravigliare ch'essi pretendessero di allargare un Impero, del quale non potevano difendere gli antichi confini. Ma le guerre, le conquiste ed i trionfi di Giustiniano sono i deboli e perniciosi sforzi della vecchiaja, che esaurisce gli avanzi della sua forza ed accelera la decadenza delle vitali facoltà. Lieto e superbo egli andava di aver restituito l'Affrica e l'Italia al dominio della Repubblica; ma le calamità che seguiron la partenza di Belisario, diedero a divedere l'importanza del Conquistatore, e compirono la rovina di queste sventurate contrade.
Giustiniano era venuto in opinione che le sue nuove conquiste dovessero riccamente soddisfare la sua avarizia non men che il suo orgoglio. Un rapace ministro delle Finanze teneva dietro ai passi di Belisario, e siccome i vecchi registri de' tributi erano stati arsi dai Vandali, egli dava pascolo alla sua fantasia con un computo liberale ed un'arbitraria tassazione delle ricchezze dell'Affrica.101 L'accrescimento delle imposte ch'erano levate per conto di un Principe lontano, e la forzata restituzione di tutte le terre che avevano appartenuto alla corona, subitamente fece sparir l'ebbrietà della pubblica gioja. Ma l'Imperatore mostrossi insensibile alle modeste lagnanze del Popolo, finchè fu desto ed atterrito dai clamori del militare disgusto. Molti soldati Romani avevano sposate le vedove e le figlie dei Vandali: essi richiamarono come proprj, pel doppio diritto della conquista e della eredità, i terreni che Genserico aveva assegnati alle vittoriose sue truppe. Con disdegno ascoltarono le fredde ed interessate rappresentazioni dei loro uffiziali che ad essi esponevano, come la liberalità di Giustiniano gli aveva sollevati da uno stato selvaggio e da una servil condizione; che s'erano di già arricchiti colle spoglie dell'Affrica, coi tesori, cogli schiavi e colle masserizie dei vinti Barbari: e che l'antico e legittimo patrimonio dell'Imperatore non doveva applicarsi che al sostegno di quel Governo, dal quale in ultimo dipendevano la sicurezza e le ricompense loro. L'ammutinamento fu in segreto infiammato da un migliaio di soldati, per la maggior parte Eruli, che avevano attinto le dottrine, ed erano instigati dal Clero della setta Arriana: e la causa dello spergiuro e della ribellione veniva santificata dal fanatismo che si arroga la facoltà di dispensare da ogni dovere. Gli Arriani deplorarono la rovina della lor Chiesa che per più di un secolo aveva trionfato nell'Affrica, e giustamente erano adontati per le leggi del Conquistatore, che proibivano il Battesimo dei loro figliuoli e l'esercizio di ogni Culto religioso. La massima parte dei Vandali, scelti da Belisario, dimenticarono la loro patria e la lor religione negli onori dell'Orientale servizio. Ma una generosa schiera di quattrocento di loro costrinse i marinai, quando furono in vista dell'Isola di Lesbo, a volgere il corso altrove: essi approdarono nel Peloponneso, poi diedero in secco sopra la costa deserta dell'Affrica, ed audacemente rizzarono, sul monte Aurasio, la bandiera dell'indipendenza e della rivolta. Nel tempo che le truppe della provincia ricusavano di obbedire ai loro superiori, in Cartagine si tramava una congiura contro la vita di Salomone, il quale onorevolmente teneva il luogo di Belisario: e gli Arriani avevano piamente deliberato di sacrificare il Tiranno al piede degli altari, durante la celebrazione degli augusti misteri della festa di Pasqua. Il timore ed il rimorso rattenne i pugnali degli assassini, ma la pazienza di Salomone porse ardire ai malcontenti, ed in capo a dieci giorni, si accese nel Circo una sedizione furiosa, che desolò l'Affrica per più di dieci anni. Il saccheggio delle città e l'indistinto scempio de' suoi abitatori, non furono sospesi che dalle tenebre, dal sonno e dall'ubbriachezza: il Governatore con sette compagni, tra quali era lo storico Procopio, se ne fuggì in Sicilia. Due terzi dell'esercito parteciparono di questo tradimento, ed ottomila sollevati radunatisi nei campo di Bulla, elessero per loro Capo Soza, soldato semplice che possedeva in altissimo grado le virtù di un ribelle. Sotto la maschera della libertà, la sua eloquenza sapeva guidare od almeno sospingere le passioni de' suoi eguali. Egli alzossi a livello di Belisario e del nipote dell'Imperatore coll'ardire ch'ebbe di affrontargli in campo; ed i vittoriosi Generali furono costretti a confessare che Soza meritava una causa più pura ed un più legittimo comando. Vinto in battaglia, egli destramente pose in pratica le arti della negoziazione; un esercito Romano fu sedotto dalle sue proteste di fedeltà, ed i Capi che si eran fidati alle sue fallaci promesse, caddero trucidati, per suo ordine, in una Chiesa di Numidia. Allorchè ogni ripiego sì di forza che di perfidia fu esausto, Soza con alcuni Vandali disperati si riparò nei deserti della Mauritania, ottenne in isposa la figlia di un Principe Barbaro, e deluse i nemici che lo inseguivano col far girar un falso grido della sua morte. La personale autorità di Belisario, la dignità, l'ardire e l'indole di Germano, nipote dell'Imperatore, ed il rigore ed il buon successo della amministrazione dell'eunuco Salomone restituirono la modestia nel Campo e mantennero per un tempo la tranquillità dell'Affrica. Ma i vizj della Corte Bizantina si facevano sentire in quella distante provincia; i soldati si lamentavano di non ricevere nè paga, nè soccorso, e tosto che i disordini pubblici furono abbastanza maturi, Soza ricomparve vivo, in armi ed alle porte di Cartagine. Egli cadde in un singolare cimento; ma sorrise, fra le agonie della morte, nel sentire che il proprio dardo aveva traspassato il cuore del suo antagonista. L'esempio di Soza e la sicurezza che un soldato felice è stato il primo Re, commossero l'ambizione di Gontari, il quale promise con privato accordo di spartir l'Affrica coi Mori, se mercè del loro pericoloso ajuto egli poteva ascendere al trono di Cartagine. Il debole Areobindo, inesperto negli affari della pace e della guerra, mediante il suo matrimonio colla nipote di Giustiniano venne innalzato all'uffizio di Esarca. All'improvviso egli fu oppresso da una sedizione delle guardie, e le abbiette sue suppliche, che provocarono il disprezzo, non poteron muovere la pietà dell'inesorabil Tiranno. Dopo un regno di trenta giorni, Gontari istesso fu spento in un banchetto dal coltello di Artabano; ed è singolare il vedere che un principe Armeno, della stirpe reale degli Arsaci dovesse ristabilire in Cartagine l'autorità del romano Impero. Nella cospirazione che sguainò il pugnale di Bruto contro la vita di Cesare, ogni circostanza riesce curiosa ed importante agli occhi della posterità: ma la reità od il merito di questi leali o ribelli assassinj non poteva interessare che i contemporanei di Procopio, i quali dalla speranza o dal timore, dall'amicizia o dal risentimento erano personalmente impegnati nelle rivoluzioni dell'Affrica102.
Quella contrada andava rapidamente ricadendo nello stato di barbarie d'onde l'avevano tratta le colonie fenicie e le leggi romane: ogni passo d'intestina discordia era contrassegnato da qualche deplorabili vittoria degli uomini selvaggi sopra la società incivilita. I Mori103, tutto che ignorasser la giustizia, impazientemente però comportavano l'oppressione: la vagabonda lor vita e gl'illimitati deserti in cui abitavano, inutili rendevano le armi di un conquistatore, e ne allontanavano le catene: l'esperienza aveva dimostrato che nè i giuramenti nè la gratitudine potevano assicurare la fedeltà loro. La vittoria del monte Aurasio gli aveva tratti a piegarsi ad una momentanea sommissione; ma se rispettavano il carattere di Salomone, essi odiavano e disprezzavano l'orgoglio e la lussuria dei due suoi nipoti, Ciro e Sergio, ai quali lo zio aveva imprudentemente commesso i Governi provinciali di Tripoli e della Pentapoli. Una tribù di Mori accampava sotto le mura di Lepti per rinnovar l'alleanza, e ricevere dal Governatore i consueti presenti: ottanta de' lor deputati furono introdotti come amici nella città, ma sull'oscuro sospetto di una cospirazione; essi vennero trucidati alla mensa di Sergio, e lo strepito delle armi e della vendetta fu ripercosso dall'eco delle valli del Monte Atlante, dalle due Sirti sino alle rive dell'Oceano Atlantico. Un'offesa personale, l'ingiusta esecuzione o l'assassinio di suo fratello, fece di Antalo un nemico dei Romani.
La sconfitta dei Vandali aveva altre volte segnalato il suo valore; i principj della giustizia e della prudenza furono anche più riguardevoli in un Moro. E mentre egli riduceva Adrumeto in cenere, tranquillamente avvertiva l'Imperatore che si poteva assicurare la pace dell'Affrica col richiamo di Salomone e de' suoi indegni nipoti. L'Esarca trasse le sue truppe fuori di Cartagine: ma alla distanza di sei giornate, nelle vicinanze di Tebeste104, stupefatto soffermossi all'aspetto delle superiori forze e del fiero aspetto de' Barbari. Egli propose un trattato, cercò una riconciliazione, e chiese di vincolarsi coi più solenni giuramenti. «Con quali giuramenti può egli obbligarsi?» interruppero i Mori sdegnati. «Giurerà forse pei Vangeli che sono i libri divini dei Cristiani? È però su questi libri che Sergio suo nipote aveva impegnato la fede ad ottanta dei nostri innocenti e sfortunati fratelli. Prima che noi crediamo una seconda volta a' Vangeli, noi dobbiamo provare la loro efficacia nel punir lo spergiuro e vendicar il proprio onore vilipeso». Il loro onore fu vendicato nei Campi di Tebeste con la morte di Salomone, e l'intera perdita del suo esercito. L'arrivo di nuove truppe e di più abili condottieri tosto represse l'insolenza dei Mori; caddero diciassette dei loro Principi nella stessa battaglia, e la dubbia e passaggera sommissione delle loro Tribù venne celebrata con esuberante applauso dal Popolo di Costantinopoli. Varie successive incursioni avevano ridotto la Provincia dell'Affrica ad un terzo dell'estensione dell'Italia; tuttavia gl'Imperatori Romani continuarono a regnare per più di un secolo sopra Cartagine e la fertile costa del Mediterraneo. Ma le vittorie e le perdite di Giustiniano tornavano egualmente di danno all'uman genere; e tale era la desolazione dell'Affrica, che in molte parti uno straniero poteva per giorni interi andare errando intorno, senza incontrare il volto di un amico o di un nemico. La nazione dei Vandali era scomparsa: essi una volta ammontavano a cento e sessantamila guerrieri, senza contare le donne, i fanciulli e gli schiavi. Infinitamente era sorpassato il lor numero dal numero delle famiglie Moresche, spente in una guerra implacabile, e la stessa distruzione ricadeva sopra i Romani ed i loro alleati, che perivano per l'effetto del clima, per le scambievoli loro contese, e pel furibondo odio dei Barbari. Quando Procopio prese terra la prima volta, egli ammirò come le Città e le campagne erano piene di Popolo, che fervidamente si esercitava nei lavori del commercio e dell'agricoltura. In meno di venti anni questa scena di vita e di moto trasformossi in una solitudine silenziosa; i Cittadini facoltosi fuggirono in Sicilia ed a Costantinopoli; e lo Storico segreto con fiducia asserisce che cinque milioni di Affricani eran periti per colpa delle guerre e del governo dell'Imperator Giustiniano105.
La gelosia della Corte di Bisanzio non aveva permesso a Belisario di condurre a fine la conquista dell'Italia: e la improvvisa partenza di lui raccese il coraggio dei Goti106, i quali rispettavano il suo genio, la sua virtù, e perfino il lodevol motivo che aveva tratto il servo di Giustiniano ad ingannarli ed a rigettar i lor voti. Perduto essi avevano il lor Re, (perdita di poco momento) la loro Capitale, i loro tesori, le province, dalla Sicilia alle Alpi, e la forza militare di dugentomila Barbari, magnificamente forniti di armi e cavalli. Nondimeno ogni cosa non era perduta, fin tanto che Pavia si manteneva difesa da un migliajo di Goti inspirati dal sentimento dell'onore, dall'amore della libertà, e dalla memoria della lor passata grandezza. Il comando supremo fu per unanime voto offerto al valoroso Uraja; e i disastri del suo zio Vitige non apparvero un motivo di esclusione fuor solo che agli occhi suoi. Il suffragio di Uraja fece pendere l'elezione in favore di Ildibaldo, il cui merito personale veniva esaltato dalla vana speranza che Teude, suo congiunto, Monarca della Spagna, s'indurrebbe a sostenere il comune interesse della nazione dei Goti. Il buon successo delle sue armi nella Liguria e nella Venezia parea giustificarne la scelta; ma egli tosto mostrò al Mondo ch'era incapace di perdonare, o di comandare al suo benefattore. La moglie d'Ildibaldo fu profondamente punta dalla bellezza, dai tesori e dall'orgoglio della moglie di Uraja; e la morte di questo virtuoso patriotta eccitò l'indegnazione di un Popolo libero. Un ardito assassino eseguì la loro sentenza, col troncar il capo d'Ildibaldo nel mezzo di un convito: i Rugi, tribù forestiera, assunse i privilegj dell'elezione; e Totila, nipote dell'ultimo re, fu tentato, per vendetta, di dar sè stesso e la guarnigione di Trevigi in mano ai Romani. Ma il prode e compito giovane agevolmente fu persuaso ad anteporre il trono dei Goti al servizio di Giustiniano, e tosto che il palazzo di Pavia fu purgato dall'usurpatore eletto dai Rugi, Totila ricompose la forza nazionale con cinquemila soldati e generosamente si accinse alla ristorazione del Regno d'Italia.
I successori di Belisario, undici Generali uguali nel grado, trascurarono di opprimere i deboli e disuniti Goti, sintanto che i progressi di Totila ed i rimproveri di Giustiniano gli scossero dal loro letargo. Le porte di Verona furono segretamente aperte ad Artabazo che entrovvi alla testa di cento Persiani che militavano al servizio dell'Impero. I Goti sgombrarono dalla città. I Generali romani fecero alto alla distanza di sessanta stadj per regolare lo spartimento delle spoglie. Mentre essi non andavano d'accordo fra loro, il nemico discoprì il numero reale dei vincitori. I Persiani furono immediatamente sopraffatti, ed Artabazo, col saltar giù dalle mura, salvò a stento la vita, ch'egli perdè pochi giorni dopo sotto la lancia di un Barbaro da lui disfidato a singolare tenzone. Venti mila Romani affrontarono le forze di Totila, presso Faenza, e sui colli di Mugello, che appartengono al territorio fiorentino. L'ardore d'uomini liberi che combattevano per ricuperar la lor patria, venne a cimento colla languida tempra di truppe mercenarie che erano perfino prive dei meriti di un forte e ben disciplinato servaggio. Al primo scontro queste abbandonarono le loro insegne, gettarono a terra le armi, e si dispersero da ogni banda con una viva sollecitudine che sminuì la perdita, ma aggravò la vergogna della loro disfatta. Il Re dei Goti, che arrossiva per la codardia de' suoi nemici, seguitò con rapidi passi il cammino dell'onore e della vittoria. Totila passò il Po, valicò l'Appennino, differì l'importante conquista di Ravenna, di Fiorenza e di Roma, e marciò pel cuore dell'Italia a stringere Napoli di assedio, o per meglio dire di blocco. I Condottieri romani, imprigionati nelle rispettive loro città, ed intesi ad accusarsi vicendevolmente fra loro della comune disgrazia, non ardirono di perturbar la sua impresa. Ma l'Imperatore, intimorito per l'estremità ed il pericolo in cui erano le sue conquiste d'Italia, mandò in soccorso di Napoli una flotta di galee, ed un corpo di soldati Traci ed Armeni. Questi approdarono in Sicilia, che li fornì di provvisioni copiose; ma gl'indugj del nuovo comandante, Magistrato che nulla sapeva di guerra, trassero in lungo i mali degli assediati; ed i soccorsi ch'egli lasciò cadere con mano timida e tarda, furono successivamente tagliati fuori dalle navi armate che Totila aveva posto in crociera nel golfo di Napoli. Il principale uffizial dei Romani fu trascinato con una corda intorno il collo al piè delle mura, d'onde con tremante voce esortò i Cittadini ad implorare, come faceva egli stesso, la clemenza del vincitore. Essi chiesero una tregua, colla promessa di arrendere la città, se in capo a trenta giorni non appariva alcun soccorso efficace. In luogo di un mese l'audace Barbaro volle concederne tre, giustamente, confidando che la fame avrebbe anticipato il termine del loro accordo: Prese ch'ebbe Napoli e Roma, le Province di Lucania, dell'Apulia e di Calabria si sottomisero al Re dei Goti. Totila condusse il suo esercito alle porte di Roma, piantò il Campo a Tibur o Tivoli, venti miglia distante dalla Capitale, e tranquillamente esortò il Senato ed il Popolo a paragonare la tirannia de' Greci colla felicità di cui godevano sotto il governo dei Goti.
I rapidi successi di Totila possono in parte esser ascritti alla rivoluzione che tre anni di esperienza avevan prodotto nei sentimenti degli Italiani. Per comando od almeno in nome di un Imperatore Cattolico, il Papa107, lor padre spirituale, era stato divelto dalla chiesa di Roma ed era morto di fame o di assassinio in un'Isola deserta108. Alle virtù di Belisario erano succeduti i varj, ed uniformi vizj di undici Capi, a Roma, a Ravenna, a Fiorenza, a Perugia, a Spoleto ecc. i quali abusavano dell'autorità per appagare la libidine e l'avarizia loro. La cura di accrescere i prodotti del fisco era commessa ad Alessandro, scriba sottile, da lungo tempo versato nelle frodi e nelle oppressioni delle scuole di Bisanzio e che traeva il suo soprannome di Psalliction (Le forbici) dal destro artifizio in cui sapeva ridurre il peso senza109 guastare il conio delle monete d'oro. In vece di aspettare che rifiorisse la pace e l'industria, egli impose una grave tassa sopra le sostanze degli Italiani. Nondimeno le sue presenti e future angherie riuscirono meno odiose che il proseguimento di un arbitrario rigore contro le persone e le proprietà di quanti avessero, sotto i Re Goti, avuto parte nell'esazione o nella spesa del pubblico denaro. I sudditi di Giustiniano, che scansavano queste parziali vessazioni, venivano oppressi dall'irregolar peso di mantenere i soldati che Alessandro frodava e disprezzava; ed il furioso correre di costoro in cerca di ricchezze o di viveri, provocava gli abitatori del Paese ad aspettare, od implorare dalle virtù di un Barbaro la loro liberazione. Totila110 era casto e temperante, e di quanti si commisero alla sua fede, od amici o nemici, nessuno rimase ingannato. Il Re Goto pubblicò un bando che fu ben ricevuto dai contadini dell'Italia, col quale imponeva che continuassero nei loro importanti lavori, e vivessero sicuri che pagando essi le tasse ordinarie, egli col suo valore e colla disciplina delle sue truppe li difenderebbe dalle calamità della guerra. Totila attaccò, una dopo l'altra, le città forti, e tosto che si erano arrese alle sue armi, ne demoliva le fortificazioni, onde salvare il Popolo dai disastri di un assedio futuro, privare i Romani dell'arti della difesa, e decidere la tediosa contesa delle due nazioni, mediante un eguale ed onorevol conflitto sul campo della battaglia. I prigionieri e disertori romani si lasciavano trarre ad arrolarsi nel servizio di un avversario liberale e cortese. Gli schiavi furono adescati colla ferma e fedele promessa che mai non verrebbero restituiti ai loro padroni, e dai mille guerrieri di Pavia si formò insensibilmente, nel Campo di Totila, un nuovo popolo collo stesso nome di Goti. Sinceramente egli tenne gli articoli dell'accordo, senza cercare od accettare alcun sinistro vantaggio da espressioni ambigue, o da eventi non preveduti. La guarnigione di Napoli aveva stipulato che sarebbe trasportata per mare; l'ostinazione dei venti impedì quel tragitto; ma essa fu generosamente provvista di cavalli, di provvisioni e di un salvocondotto fino alle porte di Roma. Le mogli dei Senatori ch'erano state sorprese nelle ville della Campania, furono restituite senza riscatto ai loro mariti, la violazione della castità femminile fu inesorabilmente punita di morte; e nella dieta salutare che impose ai Napolitani affamati, il Conquistatore sostenne le parti di un medico umano ed attento. Le virtù di Totila meritano un'egual lode, sia che procedessero da sana politica, o da principi di Religione, o da istinto di umanità. Egli spesso arringava le sue truppe, e sempre ad esse ripeteva che i vizj e la rovina di una nazione sono cose inseparabilmente congiunte; che la vittoria è il frutto della morale, non meno che della militare virtù, e che i Principi ed anche i Popoli sono risponsabili dei delitti che trascurano di castigare.
Gli amici ed i nemici di Belisario con eguale ardore lo sollecitavano perchè salvasse il paese ch'egli aveva soggiogato; e la guerra Gotica fu imposta al Comandante veterano o come un pegno di fede, o come una specie di esilio. Eroe sulle rive dell'Eufrate, schiavo nel palazzo di Costantinopoli, egli accettò con ripugnanza la penosa cura di sostenere la sua propria fama, e di ammendare i falli de' suoi successori. Aperto era il mare ai Romani. Si raccolsero le navi ed i soldati a Salona, presso il palazzo di Diocleziano. Belisario rinfrescò e passò a rassegna le sue truppe a Pola nell'Istria, costeggiò l'Adriatico, entrò nel Porto di Ravenna, e spedì ordini anzi che ajuti, alle subordinate città. Il primo suo discorso pubblico fu rivolto ai Goti ed ai Romani, in nome dell'Imperatore, il quale aveva sospesa per breve tempo la conquista della Persia, e dato ascolto alle preghiere de' suoi sudditi Italiani. Leggermente egli toccò le cagioni e gli autori dei disastri recenti; cercando di allontanare il timor del castigo per le cose passate, e la speranza dell'impunità per le future, coll'adoperarsi con più zelo che buon successo ad unire tutti i membri del suo Governo in una ferma colleganza di affezione e di obbedienza. Giustiniano, suo grazioso Signore, era propenso a perdonare ed a premiare, ed era loro interesse, ugualmente che loro dovere, di richiamare sulla buona via i loro delusi fratelli, ch'erano stati sedotti dalle arti dell'usurpatore. Nessuno però si lasciò indurre a disertare gli stendardi del Re Goto. Belisario tosto si avvide, che mandato lo avevano a rimanere l'ozioso ed impotente spettatore della gloria di un giovane Barbaro; e la sua lettera all'Imperatore ci offre una genuina e vivace pittura delle angustie di un nobile animo. «Eccellentissimo Principe, noi siamo arrivati in Italia, privi di uomini, di cavalli, di armi e di denaro, cioè di quanto fa bisogno alla guerra. Nell'ultimo nostro giro pei villaggi della Tracia e dell'Illirico, abbiamo raccolto con estrema difficoltà da quattromila reclute, ignude ed affatto inesperte nel maneggio delle armi, e negli esercizj del Campo. I soldati già stanziati nella Provincia sono malcontenti, sbigottiti e senza cuore. Al rumore di un inimico essi abbandonano i loro cavalli e gettano a terra le armi. Non si possono levare contribuzioni, perchè l'Italia è nelle mani dei Barbari; il difetto di pagamento ci ha privato del diritto di comandare, ed anche di ammonire. Siate certo, o temuto Sire, che la maggior parte delle vostre truppe è già passata dalla parte dei Goti. Se la sola presenza di Belisario bastasse a terminare la guerra, il vostro desiderio sarebbe appagato; Belisario è nel mezzo dell'Italia. Ma se bramate di conquistare, si richieggono ben altri apparecchi: senza una forza militare, il titolo di Generale è un nome vano. Sarebbe utile di restituire al mio servizio i miei veterani e le mie guardie domestiche. Prima che io possa entrare in Campo, conviene ch'io riceva un adeguato rinforzo di truppe sì di grave che di leggiera armatura, e senza denaro contante non si può conseguire l'indispensabil ajuto di un poderoso corpo della cavalleria degli Unni111». Un ufficiale, in cui Belisario mettea fiducia, fu spedito da Ravenna per accelerare e condurre i soccorsi; ma negletta ne fu l'ambasciata, ed il messaggiero si trattenne per un vantaggioso matrimonio in Costantinopoli. Il Generale romano, poscia che la sua pazienza fu vinta dall'indugio e dal vedere tutte le sue speranze tradite, ripassò l'Adriatico, ed aspettò in Dirrachio l'arrivo delle truppe, che lentamente venivano raccolte tra i sudditi e gli alleati dell'Impero. Le sue forze erano tuttora insufficienti alla liberazione di Roma, la quale strettamente era assediata da Totila. La via Appia, lunga quaranta giornate di marcia, era coperta dai Barbari, e siccome la prudenza di Belisario voleva evitare una battaglia, egli antepose la sicura e spedita navigazione di cinque giorni dalla costa dell'Epiro alla foce del Tevere.
Il Re dei Goti, poich'ebbe o colla forza o cogli accordi, ridotto all'obbedienza le città di minor conto nelle province mediterranee dell'Italia, passò, non ad assaltare, ma a circondare ed affamare l'antica capital dell'Impero. Roma era tribolata dall'avarizia, e difesa dal valore di Bessa, condottier veterano di estrazione Goto, il quale con un presidio di tremila soldati occupava lo spazioso circuito di quelle venerabili mura. Dalle angustie del Popolo egli traeva un vantaggioso commercio, e segretamente s'allegrava che continuasse l'assedio. In servigio di lui erano stati riempiti i granai. La carità di Papa Vigilio aveva provveduto e fatto imbarcare una gran quantità di grano dalla Sicilia; ma le navi che fuggirono ai Barbari, furono sequestrate da un rapace Governatore, il quale compartiva uno scarso vitto ai soldati, e vendea il rimanente ai facoltosi Romani. Il medinno, ossia la quinta parte di un sacco di grano, si permutava contro sette monete d'oro; e se ne davano sino a cinquanta quando trovavasi un bue; i progressi della carestia accrebbero ancora questi esorbitanti prezzi, e l'avarizia dei mercenari spesso giungeva a privarsi della porzione loro assegnata, che appena era bastante per sostentarne la vita. Un'insipida e mal sana mistura, in cui la crusca superava tre volte la quantità della farina, faceva tacere la fame dei poveri; essi a poco a poco si ridussero a cibarsi di cavalli morti, di cani, di gatti, di sorci, ed avidamente schiantavano le erbe ed anche le ortiche che crescevano fra le rovine della città. Una folla di pallidi e maceri spettri, oppressi il corpo dalle malattie e l'animo dalla disperazione, attorniò il palazzo del Governatore, gli rappresentò con utile verità che il padrone aveva l'obbligo di mantenere i suoi schiavi, ed umilmente richiese ch'egli provvedesse alla sussistenza loro, o permettesse che uscissero dalla città, ovvero ordinasse l'immediato loro supplizio. Bessa, con insensibile calma, rispose che egli non poteva nutrire, non gli conveniva di lasciar partire, e non aveva il diritto di uccidere i sudditi dell'Imperatore. Non pertanto, l'esempio di un cittadino privato avrebbe potuto mostrare a' suoi compatriotti che un Tiranno non può togliere il privilegio di morire. Trafitto dalle grida di cinque figli che vanamente dimandavan del pane, egli ordinò a questi che gli venissero dietro; si avanzò, con tranquilla e tacita disperazione, sopra uno dei ponti del Tevere, e copertosi il volto, si gettò capovolto nel fiume, al cospetto della sua famiglia e del Popolo romano. Ai ricchi e pusillanimi, Bessa112 vendeva il permesso di partire, ma la maggior parte de' fuggiaschi rendeva l'anima sulle pubbliche strade, od era arrestata dai volanti drappelli dei Barbari. In quel mezzo, l'artifizioso Governatore blandiva il maltalento e ridestava le speranze dei Romani colla vaga riferta di flotte e di eserciti che accorrevano in loro aiuto dalla estremità dell'Oriente. Più ragionevol conforto essi trassero dalla sicura nuova che Belisario avea pigliato terra nel porto del Tevere, e senza numerarne le forze, essi fermamente confidarono nell'umanità, nel coraggio e nella perizia del loro grande liberatore.
La previdenza di Totila avea preparato ostacoli degni di un tale antagonista. Novanta stadii sotto la città, nella parte più ristretta del fiume, egli congiunse le due rive, mediante una forte e solida opera di legname nella forma di un ponte, su cui innalzò due gran torri, custodite da' più valorosi de' suoi Goti, e piene di armi scagliabili e di macchine offensive. Una valida e massiccia catena di ferro difendeva l'approccio del ponte e delle torri; e la catena, da un capo all'altro, sulle sponde opposte del Tevere, era guardata da una numerosa e scelta mano di arcieri. Ma l'impresa di sforzare queste barriere e di soccorrere la capitale ci presenta uno splendido esempio dell'ardire e della condotta di Belisario. La sua cavalleria si avanzò dal Porto, lungo la strada maestra, per tenere a freno i movimenti e divertire l'attenzione del l'inimico. L'infanteria e le provvigioni erano distribuite in due cento grossi battelli, ed ogni battello era schermito da un alto riparo di spesse tavole, traforate da molti piccoli pertugi per la scarica delle armi da lanciare. Nella fronte, due grandi navi, insieme legate, sostenevano un castello ondeggiante, che dominava le torri del ponte, e conteneva un magazzino di fuoco, di zolfo e di bitume. La flotta intiera, condotta dal Generale in persona, fu laboriosamente sospinta contro la corrente del fiume. Cedè la catena al peso di essa, ed i nemici che custodivano le rive furono ammazzati o dispersi. Tosto che la flotta toccò la principale barriera, la macchina incendiaria in un momento fu aggrappata al ponte; una delle torri, con dugento Goti dentro, andò in fiamme; gli assalitori alzarono il grido della vittoria, e Roma era salvata, se la cattiva condotta degli Ufficiali di Belisario non avesse sovvertito gli effetti della sua sapienza. Egli precedentemente avea mandato ordine a Bessa di secondar le sue operazioni con un'opportuna sortita dalla città, ed aveva imposto ad Isacco suo luogotenente, di non abbandonare la stazione del Porto. Ma l'avarizia rendè Bessa immobile; mentre il giovanile ardore d'Isacco lo diede nelle mani di un superiore nemico. L'esagerato romore della disfatta di costui rapidamente pervenne all'orecchio di Belisario: egli ristette, lasciò vedere, in quel solo momento della sua vita, qualche emozione di sorpresa e di perplessità, e con ripugnanza fece suonare la raccolta per salvar la sua moglie Antonina, i suoi tesori ed il solo porto che possedesse sulle coste della Toscana. Il travaglio del suo animo gli produsse una febbre ardente e quasi mortale: e Roma rimase abbandonata senza difesa alla clemenza od allo sdegno di Totila. La continuazione delle ostilità aveva invelenito gli odii nazionali; il clero Arriano fu ignominiosamente cacciato di Roma. L'Arcidiacono Pelagio tornò, senza alcun successo, dal campo dei Goti ove era andato ad Ambasciatore, ed un Vescovo Siciliano, inviato o nunzio del Papa, ebbe mutilate ambe le mani per avere ardito di mentire in benefizio della Chiesa e dello Stato.
La carestia aveva rilassato la forza e la disciplina del presidio di Roma. Esso non poteva ricavare alcun servizio efficace da un Popolo moribondo; e l'inumana avarizia del Mercatante finì con assorbire la vigilanza del Governatore. Quattro sentinelle Isauriche, mentre dormivano i loro compagni ed assenti erano gli Ufficiali, si calarono con una corda giù dal bastione, e segretamente proposero al Re Goto d'introdurre le sue truppe nella città. Con freddezza e sospetto fu accolta l'offerta; essi ritornarono senza alcun danno; due volte ripeterono la visita loro; due volte fu esaminata la piazza; si riseppe la cospirazione, ma non vi si pose mente; ed appena Totila ebbe acconsentito al tentativo, essi dischiusero la porta Asinaria, e misero dentro i Goti. Questi fecero alto in ordine di battaglia, sino allo schiarire del giorno, temendo un qualche tradimento od aguato; ma le truppe di Bessa, insieme col lor condottiere, avevano già cercato altrove uno scampo; ed allorquando si fece istanza al Re perchè ne infestasse la ritirata, assennatamente egli rispose che nessuna vista era più grata che quella d'un nemico fuggente. I Patrizii a cui restava qualche cavallo, Decio, Basilio ec. accompagnarono il Governatore: i loro confratelli, tra i quali l'Istorico nomina Olibrio, Oreste e Massimo, cercarono nella chiesa di San Pietro un asilo: ma l'asserzione che non più di cinquecento persone rimasero nella capitale, inspira qualche dubbio intorno alla fedeltà della sua narrazione o del suo testo. Subito che la luce del sole ebbe manifestato intera la vittoria dei Goti, il loro Monarca divotamente visitò la tomba del Principe degli Apostoli; ma nel mentre ch'egli pregava all'altare, venticinque soldati e sessanta cittadini venivano passati a fil di spada nel vestibolo del Tempio. L'Arcidiacono Pelagio113 si fece innanzi a lui, e tenendo in mano il Vangelo esclamò: «oh Signore abbi pietà del tuo servo.» – «Pelagio» disse Totila con insultante sorriso, «il tuo orgoglio ora discende fino alle suppliche». – «Io sono un supplichevole» replicò il prudente Arcidiacono; «Iddio ora ci ha fatti vostri sudditi, e come vostri sudditi noi abbiamo diritto alla vostra clemenza». L'umile sua preghiera salvò le vite dei Romani; e la castità delle vergini e delle matrone rimase intatta dalle passioni dei bramosi soldati. Ma furono essi ricompensati colla libertà del saccheggio, poscia che le più preziose spoglie erano state messe in serbo pel tesoro reale. Le case dei Senatori andavano copiosamente fornite di oro e d'argento; e l'avarizia di Bessa non s'era travagliata con tanto delitto e vergogna se non se in benefizio del Conquistatore. In questa rivoluzione, i figli e le figlie dei Consoli romani sperimentarono la miseria ch'essi avevano o schernito o sollevato; essi andarono errando in cenci per le contrade della città, ed accattarono, forse inutilmente, il pane innanzi alle porte delle ereditarie lor case. Rusticiana, figlia di Simmaco, e vedova di Boezio, aveva generosamente consacrato le sue ricchezze ad alleviare le calamità della fame. Ma i Barbari furono mossi a furore dal racconto ch'ella avesse eccitato il popolo a rovesciare le statue del Gran Teodorico. La vita di questa veneranda Matrona sarebbe stata immolata alla memoria di quel Re, se Totila non avesse rispettato in lei i natali, le virtù ed anche il pio motivo della vendetta. Il giorno seguente, egli proferì due discorsi, uno de' quali, felicitava ed ammoniva i vittoriosi suoi Goti. L'altro rampognava il Senato come si farebbe co' più abbietti schiavi, e l'incolpava di spergiuro, di follia e di ingratitudine; aspramente dichiarando che i loro beni ed onori erano giustamente ricaduti ne' compagni delle sue armi. Nondimeno egli consentì ad obbliare la ribellione loro, ed i Senatori ricambiarono la sua clemenza collo spedire lettere circolari ai loro discendenti e vassalli nelle province d'Italia, colle quali strettamente ingiugnevan loro di togliersi dalle bandiere de' Greci, di coltivare in pace i terreni, e d'imparare dai loro padroni il dovere dell'obbedienza al Re Goto. Inesorabil mostrossi Totila contro la città che per sì lungo tempo avea rattenuto il corso delle sue vittorie: un terzo delle mura, in differenti parti, fu demolito per ordine suo; già si allestivano le fiamme e le macchine per consumare o mandar sossopra le più magnifiche opere dell'antichità. Il Mondo era nello stupore pel fatal decreto che Roma dovesse esser cangiata in un pascolo per gli armenti. Le ferme e moderate rimostranze di Belisario sospesero l'esecuzione della sentenza; egli ammonì il Barbaro di non contaminar la sua fama col distruggere que' monumenti, che formavano la gloria de' trapassati e la delizia dei viventi; e Totila secondò l'avviso di un nemico col preservar Roma qual ornamento del suo Regno, od il miglior pegno di riconciliazione e di pace. Come egli ebbe significato agli Ambasciatori di Belisario il suo proponimento di risparmiar la città, egli collocò un esercito in distanza di cento e venti stadj, ad osservare le mosse del Generale romano. Col rimanente delle sue forze egli avviossi ver la Lucania e l'Apulia, ed occupò sulla vetta del monte Gargano114 uno dei campi di Annibale115. Trascinati furono i Senatori dietro il suo trono, indi confinati nelle fortezze della Campania: i cittadini, con le mogli ed i figli loro furono dispersi in esiglio; e per lo spazio di quaranta giorni Roma non offrì che l'aspetto di una solitudine desolata ed orrenda116.
Roma fu ben presto ricuperata mediante una di quelle azioni alle quali, secondo l'evento, l'opinione pubblica suole applicare i nomi di temerità o di eroismo. Poscia che partito fu Totila, il Generale romano sortì dal Porto conducendo mille cavalli, tagliò a pezzi i nemici che s'opponevano al suo andare, e visitò con pietà e con ossequio lo spazio vacante della città sempiterna.
Deliberato di custodire un posto così riguardevole agli occhi del genere umano, egli raccolse la maggior parte delle sue truppe intorno al vessillo da lui piantato sul Campidoglio. L'amor della patria, e la speranza di trovar cibo, richiamò nella città i suoi antichi abitanti; e le chiavi di Roma furono mandate per la seconda volta all'Imperator Giustiniano. Le mura, ovunque erano state demolite dai Goti, si ripararono con materiali rozzi e dissimili; si ristorò il fosso, si piantarono in abbondanza i triboli117, per guastare i piè dei cavalli, e siccome non si poteva subito rifabbricar nuove porte, si pose a guardia dell'ingresso lo spartano riparo de' più valenti guerrieri. Allo spirare di venticinque giorni, Totila ritornò con frettolose marcie dall'Apulia per vendicare il danno ricevuto e l'offesa. Belisario aspettò ch'egli si avvicinasse. I Goti furono per tre volte respinti in tre generali assalti; essi perdettero il fiore delle lor truppe; il vessillo reale fu lì lì per cadere nelle mani del nemico, e la fama di Totila si affondava, come erasi sollevata, insieme colla gloria delle sue armi. Non rimaneva se non che Giustiniano terminasse con un valido e tempestivo sforzo la guerra ch'egli aveva ambiziosamente intrapresa. L'indolenza e forse l'impotenza di un Principe che disprezzava i suoi nemici ed invidiava i suoi servi, trasse in lungo le calamità dell'Italia. Dopo un diuturno silenzio, si comandò a Belisario di lasciare una sufficiente guernigione in Roma, e di trasportarsi nella Lucania, i cui abitatori, infiammati di cattolico zelo, avevano scosso il giogo dei loro Arriani conquistatori. In questa ignobile guerra, l'Eroe, invincibile contro il potere dei Barbari, fu bassamente vinto dagli indugi, dalla disobbedienza, e dalla codardìa de' suoi propri Ufficiali. Egli si riposò ne' suoi quartieri d'inverno di Crotona, pienamente fidando che i due passi de' colli Lucani fossero custoditi dalla sua cavalleria. Questi passi restarono abbandonati per tradimento o per viltà; e la rapida marcia de' Goti appena diede a Belisario il tempo di salvarsi sulle coste della Sicilia. Alfine si raccolse una flotta ed un esercito per soccorrere Rusciano, o Rossano118, fortezza posta in distanza di sessanta stadj dalle rovine di Sibari, e nella quale i nobili della Lucania s'erano ricoverati. Al primo tentativo le forze romane furono dissipate dalla tempesta. Nel secondo esse avvicinaronsi al lido; ma viddero i poggi coperti di arcieri, il luogo dello sbarco difeso da una linea di lance, ed il Re dei Goti impaziente di venire a battaglia. Il Conquistator dell'Italia si ritirò sospirando, e continuò a languire in inglorioso ed inoperoso ozio, sino al momento in cui Antonina, che s'era portata a Costantinopoli a ricercare soccorso, ottenne, dopo la morte dell'Imperatore, la permissione del suo ritorno.
Le cinque ultime campagne di Belisario dovettero affievolir l'invidia de' suoi competitori, gli occhi dei quali erano rimasti abbagliati ed offesi dallo splendore della prima sua gloria. In vece di liberare l'Italia dai Goti, egli era andato errando come un fuggitivo, lungo la costa, senza osare di internarsi nel paese, o di accettare la baldanzosa e replicata disfida di Totila. Eppure nel sentimento dei pochi che sanno separare i consiglj dagli avvenimenti, e paragonare gli stromenti con l'esecuzione, egli comparve più consumato maestro nell'arte della guerra, che non nei tempi della sua prosperità quand'egli traeva due Re prigionieri innanzi al trono di Giustiniano. Il valore di Belisario non era raffreddato dagli anni; la speranza aveva maturato il suo senno; ma pare che le morali virtù dell'umanità e della giustizia cedessero alla dura necessità dei tempi. La parsimonia o povertà dell'Imperatore costrinse Belisario a deviare dalla regola di condotta che gli aveva meritato l'amore e la confidenza degli Italiani. Si mantenne la guerra, mediante l'oppressione di Ravenna, della Sicilia e di tutti i fedeli sudditi dell'Impero; e la sua severità verso Erodiano, o meritata fosse od ingiusta, condusse questo Uffiziale a dare Spoleto in mano ai nemici. L'avarizia di Antonina, alla quale l'amore altre volte aveva fatto deviamento, regnava allora senza rivale nel cuore di essa. Belisario medesimo aveva sempre pensato che le ricchezze, in un secolo corrotto, sono il sostegno e l'ornamento del merito personale. Nè può presumersi ch'egli macchiasse il suo nome pel servizio pubblico, senza appropriarsi una parte di quelle spoglie. L'Eroe aveva sfuggito la spada dei Barbari119, ma il pugnale della cospirazione lo aspettava nel suo ritorno. In mezzo alle ricchezze ed agli onori, Artabano che aveva punito il Tiranno dell'Affrica, si lamentò dell'ingratitudine delle Corti. Egli aspirò alla mano di Prejecta nipote dell'Imperatore, il quale desiderava di ricompensare il suo liberatore. Ma la pietà di Teodora pose in campo ad ostacolo l'anteriore di lui matrimonio. L'orgoglio della real discendenza venne irritato dalla adulazione, ed il servizio di cui egli andava altero, aveva provato ch'era capace di fatti sanguinosi e superbi. Risoluta fu la morte di Giustiniano, ma i cospiratori ne differirono l'esecuzione, finchè potessero sorprendere Belisario disarmato e senza guardie nel palazzo di Costantinopoli. Non si poteva nutrire alcuna speranza di smuovere la sua fedeltà, da lungo tempo provata; ed essi giustamente paventavano la vendetta o piuttosto la giustizia del veterano Generale, che speditamente poteva adunar l'esercito della Tracia, onde punir gli assassini e forse godere i frutti del loro delitto. La dilazione condusse qualche confidenza indiscreta, e qualche confessione mossa dal rimorso. Artabano ed i suoi complici furono condannati dal Senato; ma l'estrema clemenza di Giustiniano non li punì che col ditenerli prigionieri nel suo proprio palazzo, sino al momento in cui perdonò loro quel criminoso attentato contro il suo trono e la sua vita. Se l'Imperatore dimenticava i suoi nemici, egli cordialmente doveva abbracciare un amico di cui non si ricordavano che le vittorie, e che più caro era fatto al suo Principe dalle recenti circostanze del loro comune pericolo. Belisario riposò delle sue fatiche nell'alta carica di Generale dell'Oriente e di Conte dei Domestici, ed i più antichi Consoli e patrizj rispettosamente cederono la precedenza del grado all'incomparabil merito del primo dei Romani120. Il primo de' Romani continuò ad essere l'umile schiavo della sua moglie; ma il servaggio dell'abitudine e dell'amore divenne men vergognoso, poscia che la morte di Teodora ebbe tolto di mezzo l'abbietto influsso del timore. Giovannina, loro figlia e sola erede dei loro tesori, fu promessa in moglie ad Anastasio, nipote dell'Imperatrice121, l'amorevol interposizione della quale aveva anticipato le gioje dei loro giovanili amori. Ma il potere di Teodora cadde insieme colla sua vita. I genitori di Giovannina cangiarono di consiglio, e l'onore e forse la felicità di essa furono sacrificati alla vendetta di un'insensibil madre che disciolse le imperfette nozze, innanzi che venissero ratificate dalle cerimonie della Chiesa122.
Prima che Belisario partisse, Perugia fu assediata, e poche città si tennero inespugnabili contro le armi de' Goti. Ravenna, Ancona e Crotona tuttavia resistevano a' Barbari; e quando Totila chiese in isposa una delle infanti di Francia, egli fu punto dal giusto rimprovero che il Re d'Italia non meritava questo titolo, finchè non fosse riconosciuto dal Popolo romano. Tremila de' più valorosi soldati rimanevano a difesa della capitale. Per sospetto di monopolio essi trucidarono il Governatore e significarono a Giustiniano, col mezzo di una deputazione del clero, che se non perdonava questa violenza e non faceva pagar loro il soldo arretrato, immediatamente avrebbero accettato le allettanti proposte di Totila. Ma l'uffiziale che succedè al comando (il suo nome era Diogene) meritò la stima e la confidenza loro; ed i Goti, invece di rinvenire una facil conquista, trovarono una vigorosa resistenza per parte de' soldati e del popolo, il quale pazientemente sostenne la perdita del Porto e di tutti i soccorsi che riceveva dal mare. L'assedio di Roma si sarebbe forse levato, se la liberalità di Totila verso gl'Isauri non avesse eccitato al tradimento alcuno dei venali loro compatriotti. In una notte tenebrosa, mentre le trombe Gotiche sonavano da un altro lato, essi tacitamente aprirono la porta di S. Paolo. I Barbari si gittarono nella città; e la fuggente guernigione fu tagliata fuori, prima che potesse raggiugnere il porto di Centumcella. Un soldato, allevato nella scuola di Belisario, Paolo di Cilicia, si ritirò con quattrocento uomini nel molo di Adriano. Essi respinsero i Goti, ma erano minacciati dalla fame, e la loro avversione a mangiar carne di cavallo, gli confermò nel divisamento di arrischiare una disperata e decisiva sortita. Ma il loro ardire a poco a poco raffreddò per le offerte di una Capitolazione. Essi riceverono le loro paghe arretrate, e conservarono le armi e i cavalli, col porsi al servizio di Totila. I loro Capi che allegarono una lodevole affezione alle mogli ed ai figli loro rimasti nell'Oriente, furono licenziati con onore; più di quattro cento nemici che avevano cercato un asilo nei santuarj, andarono obbligati della loro salvezza alla clemenza del vincitore. Egli più non nutriva il disegno di sovvertire gli edifizj di Roma123, città che omai rispettava come la sede del Gotico Regno: il Senato ed il Popolo furono richiamati alla lor Patria; liberalmente si provvide ai mezzi di sussistenza; e Totila, in ammanto di pace, celebrò i giuochi equestri del Circo. Nel tempo ch'egli divertiva gli occhi della moltitudine, si allestivano quattro cento vascelli per imbarcar le sue truppe. Le città di Reggio e di Taranto cederono alle sue armi. Egli passò nella Sicilia, oggetto dell'implacabil suo sdegno, e l'Isola fu spogliata dell'oro e dell'argento che conteneva, dei frutti della terra, e di un infinito numero di cavalli, di greggi e di mandre. La Sardegna e la Corsica obbedirono alla fortuna dell'Italia; ed una flotta di trecento galee si portò sulle coste della Grecia124. I Goti sbarcarono a Corcira e sull'antico Continente dell'Epiro, si trassero fino a Nicopoli, trofeo di Augusto, e a Dodona125, una volta famosa pei responsi di Giove. Ad ogni nuova vittoria, il prudente Barbaro ripeteva a Giustiniano il desiderio che nutriva della pace, vantava il buon accordo dei loro predecessori, ed offeriva di impiegare le armi de' Goti per servire l'Impero.
Giustiniano era sordo alla voce della pace; ma trascurava di sostenere la guerra; e l'indolenza della sua natura tradiva in qualche modo la pertinacia delle sue passioni. L'Imperatore fu tolto di questo salutare letargo dal Papa Vigilio e dal Patrizio Cetego, che si presentarono dinanzi al suo trono, e lo scongiurarono, in nome di Dio e del Popolo, d'imprendere nuovamente la conquista e la liberazione dell'Italia. Il capriccio non meno che il senno influì nella scelta dei Generali. Una flotta, carica di un esercito, e condotta da Liberio, fece vela in soccorso della Sicilia; ma l'avanzata età e la poca esperienza di costui vennero ben presto all'aperto, e gli fu dato un successore, prima che toccassero le spiagge dell'Isola. Il cospiratore Artabano fu tratto dalla prigione ed innalzato agli onori militari nel posto di Liberio, piamente credendosi che la gratitudine avrebbe animato il suo valore, e rinvigorito la sua fedeltà. Belisario riposava all'ombra dei suoi allori, ma il comando dell'esercito principale era serbato a Germano126, nipote dell'Imperatore, che veduto aveva il suo grado ed il suo merito per lungo tempo oppressi dalla gelosia della Corte. Teodora lo aveva offeso nei diritti di cittadino privato, relativamente al matrimonio de' suoi figliuoli, ed al testamento del suo fratello; e quantunque pura ed irreprensibile fosse la condotta di lui, tuttavia Giustiniano sentiva di mal animo che riputato venisse degno della confidenza dei malcontenti. La vita di Germano era una lezione di obbedienza assoluta: nobilmente egli ricusò di prostituire il suo nome ed il suo carattere nelle fazioni del Circo. La gravità de' suoi costumi veniva temperata da un'innocente giovialità; e le sue ricchezze sollevavano senza interesse l'indigenza e il merito de' suoi amici. Il valore di Germano aveva già prima trionfato degli Schiavoni del Danubio, e dei ribelli dell'Affrica. La prima nuova della sua promozione fece risorgere le speranze degli Italiani; e gli si diede in segreto la sicurezza che una flotta di disertori romani abbandonerebbe le bandiere di Totila all'avvicinarsi di lui. Il secondo suo matrimonio con Malasonta, nipote di Teodorico, rendeva Germano accetto ai Goti medesimi: ed essi con ripugnanza si muovevano contro il padre di un fanciullo reale, ultimo rampollo della stirpe degli Amali127. L'Imperatore gli assegnò uno splendido stipendio. Germano contribuì alle spese colle sue private sostanze. I suoi due figli erano attivi e ben veduti dal Popolo; ed egli, nella prontezza e nel buon successo delle leve che fece, superò l'aspettazione degli uomini. Gli fu permesso di scegliere alcuni squadroni di cavalleria Trace. I Veterani ugualmente che i giovani di Costantinopoli e d'Europa, si impegnarono a volontario servigio, e fin dentro al cuore della Germania, la fama e la liberalità del Comandante gli attirò l'ajuto dei Barbari. I Romani si avanzarono sino a Sardica; un esercito di Schiavoni fuggì all'aspetto delle armi loro: ma due giorni dopo la definitiva loro partenza, i disegni di Germano caddero troncati dalla malattia e dalla morte di esso. Nondimeno la spinta ch'egli aveva dato alla guerra d'Italia, continuò ad operare con efficacia e vigore. Le Città marittime, Ancona, Crotona, Centumcella, resisterono agli assalti di Totila. Lo zelo di Artabano ricuperò la Sicilia, e l'armata navale dei Goti fu disfatta presso ai lidi dell'Adriatico. Quasi eguali in forza erano le due flotte, di cui una aveva quarantasette, l'altra cinquanta galee: la perizia e la destrezza dei Greci determinò la vittoria; ma le navi furono così strettamente arraffatte che di quello dei Goti, dodici soltanto scamparono dal disastroso conflitto. Essi affettarono di tenere a spregio un elemento di cui non avevan pratica, ma la propria loro esperienza confermò la verità della massima, che il padrone del mare sempre lo divien della terra128.
Dopo la morte di Germano, le nazioni furono provocate al riso dalla strana novella che il comando degli eserciti Romani era affidato ad un Eunuco. Ma l'Eunuco Narsete129 dee venir posto fra i pochissimi che hanno saputo sottrarre al disprezzo ed all'odio dell'uman genere quel nome infelice.
Un corpo debole e diminutivo nascondeva l'animo di uno statista e di un guerriero. Perduto egli aveva la giovinezza nel trattare la rocca e la spola nei bassi ufficj domestici, e nel servizio del lusso feminile; ma in mezzo a quelle ignobili cure, segretamente egli esercitava le facoltà di una mente vigorosa e perspicace. Straniero nelle scuole e nel campo, egli studiava nel palazzo le arti d'infingere, di adulare, e di persuadere; e tosto che avvicinossi alla persona dell'Imperatore, Giustiniano con sorpresa e piacere diede ascolto ai virili consigli del suo Ciamberlano e Tesoriere privato130. Si sperimentò e si accrebbe l'abilità di Narsete mercè delle frequenti ambascerie: egli condusse un esercito in Italia; acquistò una cognizione pratica della guerra e del paese, ed ebbe l'animo di gareggiare col genio di Belisario. Dodici anni dopo il suo ritorno, l'Eunuco fu scelto a compiere la conquista che il primo dei Generali romani aveva lasciato imperfetta. In luogo di cedere al bagliore della vanità e della adulazione, egli seriamente dichiarò, che se non riceveva forze adeguate all'impresa, mai non consentirebbe ad avventurar la sua gloria e quella del suo Sovrano. Giustiniano accordò al favorito ciò che forse avrebbe negato all'Eroe. La guerra Gotica rinacque dalle sue ceneri, ed i preparativi non furono indegni dell'antica maestà dell'Impero. Fu posta in sua mano la chiave dell'erario per formar magazzini, levar soldati, provvedere armi e cavalli, saldare le paghe arretrate, e adescare la fedeltà dei disertori e fuggiaschi. Le truppe di Germano erano in armi tuttora: esse fecero alto a Salona, aspettando il novello condottiero, e la ben nota liberalità di Narsete gli creò legioni di sudditi e di alleati. Il Re dei Lombardi131 adempì e superò gli obblighi di un trattato col fornire duemila e duecento de' suoi più prodi Guerrieri, coi quali venivano tremila dei loro marziali seguaci. Tremila Eruli combattevano a cavallo sotto Filemuto, nativo loro condottiero; ed il nobile Arato, che aveva adottato i costumi e la disciplina di Roma, comandava una banda di veterani della stessa nazione. Dagisteo fu tratto dalla prigione per capitanare gli Unni, e Kobad, nipote del gran Re, splendeva colla tiara regale alla testa de' suoi fedeli Persiani, che s'erano dedicati alla fortuna del loro Principe132. Assoluto nell'esercizio della sua autorità, più assoluto per l'amore delle sue truppe, Narsete condusse un numeroso e valente esercito da Filippopoli a Salona, d'onde costeggiò il lido Orientale dell'Adriatico sino ai confini dell'Italia, ove fu arrestato il suo andare. L'Oriente non poteva fornire vascelli atti a trasportare tanti uomini e tanti cavalli. I Franchi, i quali in mezzo al generale scompiglio, avevano usurpato la maggior parte della Provincia di Venezia, ricusavano il passo agli amici dei Lombardi. Teja, col fiore delle forze Gote, occupò la stazione di Verona, e quell'abile Capitano aveva coperto l'addiacente contrada di selve abbattute e di acque tratte fuori del letto de' Fiumi133. In questi frangenti, un Ufficiale sperimentato propose un disegno che dalla stessa sua temerità era fatto sicuro; cioè che l'esercito romano cautamente movesse lungo il lido del mare, mentre la flotta, precedendo la sua marcia, avrebbe successivamente gettato un ponte di battelli sulle foci del Timavo, della Brenta, dell'Adige e del Po, fiumi che cadono nell'Adriatico a settentrione di Ravenna. Nove giorni riposò nella città il Comandante romano, raccolse i residui dell'esercito d'Italia, e mosse alla volta di Rimini per accettar la disfida di un insultante nemico.
La prudenza di Narsete lo spinse ad una pronta e decisiva azione. Il suo esercito era l'ultimo sforzo dello Stato; le spese di ciascun giorno crescevano l'enorme debito, e le nazioni non assuefatte alla disciplina ed al travaglio potevano temerariamente condursi a volgere le armi una contro l'altra o contro il loro benefattore. Le stesse considerazioni avrebbero dovuto rattemperare l'ardore di Totila. Ma consapevole egli era, che il Clero ed il Popolo d'Italia agognavano ad una rivoluzione: egli si avvide od insospettì dei rapidi progressi che facea il tradimento, e stabilì di commettere il regno dei Goti alle venture di una giornata campale, in cui i prodi fossero animati dall'imminente pericolo, ed i mal affetti fossero rattenuti dalla reciproca loro ignoranza. Da Ravenna il Generale romano continuò la sua marcia, punì la guernigione di Rimini, traversò in linea retta i Colli di Urbino e riprese la via Flaminia, nove miglia di là dalla Rocca Forata, ostacolo dell'arte e della natura che poteva fermare o ritardare i suoi passi134. Adunati erano i Goti nelle vicinanze di Roma; senza frapporre dimora essi avanzarono all'incontro di un superiore nemico, e i due eserciti si accostarono fra loro alla distanza di cento stadi, fra Tagina135 ed i sepolcri dei Galli136. Il superbo messaggio di Narsete portò l'offerta non di pace ma di perdono. La risposta del Re Goto certificò il suo proponimento di morire o di vincere. «Qual giorno» disse il messaggero «stabilisci tu per la pugna»? «L'ottavo giorno, replicò Totila»: ma tosto, nel mattino seguente, egli tentò di sorprendere un nemico che sospettava della frode, ed era preparato per la battaglia. Diecimila Eruli e Lombardi di provato valore e di dubbia fedeltà, furono collocati nel centro. Ciascuna delle ale era composta di ottomila Romani; la cavalleria degli Unni guardava la destra, e la sinistra veniva coperta da mille cinquecento Cavalieri scelti, i quali, a norma del bisogno, dovevano sostenere la ritirata dei loro amici, o circondare il fianco dell'inimico. Dal posto ch'erasi eletto alla testa dell'ala diritta, l'Eunuco cavalcò lungo la linea, esprimendo colla voce e cogli atti la sicurezza in cui era della vittoria, spronando i soldati dell'Imperatore a punire i delitti e la temerità di una masnada di ladroni, ed esponendo ai loro sguardi le catene d'oro, le collane, e le armille che dovevano essere il guiderdone della militare virtù. Dall'evento di una semplice zuffa, essi trassero un augurio di successo felice, e videro con piacere il coraggio di cinquanta arcieri che difesero una piccola altura contro tre successivi attacchi della cavalleria de' Goti. Gli eserciti in distanza di non più di due tiri d'arco, consumarono la mattina nella terribile aspettativa della tenzone, ed i Romani presero qualche necessario cibo, senza trarsi la corazza dal busto, o torre la briglia ai cavalli. Narsete aspettava che fosse primo ad assalire il nemico; ma Totila differì l'attacco in sino ch'ebbe ricevuto l'ultimo rinforzo di duemila Goti. Il Re, intanto che traeva in lungo le ore mediante inutili pratiche di accordo, mostrò in un angusto spazio la forza e l'agilità di un guerriero; ricche d'oro erano le sue armi: la purpurea sua bandiera ondeggiava all'aure: egli vibrò in alto la lancia, l'afferrò colla destra, la trapassò alla sinistra; si rovesciò indietro, si ricompose sulle staffe, e maneggiò un ardente corsiero in tutti i passi ed in tutte le evoluzioni della scuola equestre. Come fu giunto il rinforzo, egli ritirossi nella sua tenda, prese il vestimento e le armi di un semplice soldato, e diede il segnale della battaglia. La prima linea di cavalli si trasse innanzi con più coraggio che prudenza, e lasciò dietro di sè la fanteria della seconda linea. Essi furono ben presto impegnati tra le corna di una mezza luna, in cui a poco a poco eransi piegate le ali del nimico, e furono assaliti per ogni banda dai tiri di quattromila arcieri. Il loro ardore ed anche lo estremo in cui erano, li trasse a sostenere un disuguale conflitto da presso, in cui non potevano valersi che della lancia contro un nemico che sapeva egualmente maneggiar bene tutte le armi. Una generosa emulazione infiammò i Romani, ed i loro barbarici ajuti; e Narsete, che tranquillamente osservava e regolava i loro sforzi, rimase incerto a chi dovesse aggiudicare la palma dell'intrepidezza maggiore. La cavalleria Gotica fu sconcertata e posta in disordine, incalzata da vicino e messa in rotta, e la linea dell'infanteria, in cambio di presentare le aste, o di aprire i suoi intervalli, venne calpestata sotto i piedi dei fuggenti cavalli. Seimila Goti caddero trucidati senza mercede, nel campo di Tagina. Il loro Principe con cinque seguaci fu sopraggiunto da Asbad della schiatta de' Gepidi: «risparmia il Re d'Italia,» sclamò una voce fedele, ed Asbad cacciò la sua lancia nel corpo di Totila. Vendicato immantinente dai fidi Goti fu il colpo; essi trasportarono il moribondo Monarca sette miglia lungi dalla scena della sua sventura, e gli ultimi suoi momenti non furono amareggiati dalla presenza di un inimico. La compassione gli somministrò il rifugio in un oscuro sepolcro; ma i Romani non si riputarono paghi della loro vittoria finchè non ebbero contemplato il cadavere del Re dei Goti. Il suo cappello, adorno di gemme, e l'insanguinato suo vestimento, furono presentati a Giustiniano dagli ambasciatori del trionfo137.
Narsete, poi ch'ebbe sciolto il debito della pietà verso l'Autore della vittoria e verso la Beata Vergine sua particolare tutela,138 ringraziò, ricompensò e licenziò i Lombardi. I villaggi erano stati ridotti in cenere da questi imperterriti selvaggi: essi avevano stuprato le matrone e le vergini sopra gli altari. La ritirata loro fu diligentemente tenuta d'occhio da un forte distaccamento di forze regolari, inteso a prevenire la ripetizione di somiglianti disordini. Il vittorioso Eunuco condusse il suo esercito per la Toscana; accettò la sommissione de' Goti, udì le acclamazioni e spesso le querele degl'Italiani; e circondò le mura di Roma col resto delle sue formidabili forze. Narsete assegnò a se stesso ed a ciascuno de' suoi luogotenenti il posto di un reale o finto attacco intorno alla vasta circonferenza della città, nel tempo stesso che notava un sito mal guardato e di facile ingresso. Nè le fortificazioni del molo di Adriano, nè quelle del porto, poterono trattenere a lungo i progressi del conquistatore; e Giustiniano ricevè di bel nuovo le chiavi di Roma, la quale, durante il suo regno, era stata cinque volte presa e ripresa139. Ma la liberazione di Roma fu l'ultima calamità del popolo romano. I Barbari, alleati di Narsete, troppo spesso confondevano i privilegi della pace e della guerra: la disperazione de' fuggiti Goti trovò qualche conforto in una sanguinosa vendetta; e trecento giovani delle famiglie più nobili, che erano stati spediti come ostaggi di là del Po, vennero dispietatamente trucidati dal successore di Totila. Il destino del Senato porge un terribile esempio delle vicissitudini delle cose umane. Fra i Senatori che Totila aveva bandito dalla patria loro, alcuni furono riscattati da un ufficiale di Belisario, e trasportati dalla Campania nella Sicilia; nel mentre che altri erano troppo colpevoli per fidare nella clemenza di Giustiniano o troppo poveri per procacciarsi cavalli, e giugnere al lido del mare. I loro confratelli languirono per cinque anni in uno stato di miseria e di esiglio. La vittoria di Narsete ravvivò le loro speranze; ma i furibondi Goti impedirono il prematuro loro ritorno alla Metropoli; e tutte le fortezze della Campania furono tinte di sangue patrizio140. Dopo un periodo di tredici secoli l'istituzione di Romolo fu estinta; e se i nobili di Roma continuarono a prendere il titolo di Senatore, poche tracce in seguito si possono scorgere di pubbliche adunanze o d'ordine costituzionale. Salite seicent'anni all'insù, e contemplate i Re della terra in atto di ricercare udienza, quali schiavi e liberti del Senato Romano141!
La guerra Gotica era viva tutt'ora. I più valorosi della nazione si ritirarono oltre il Po, e Teja con unanime consenso fu eletto per succedere all'estinto Eroe e per vendicarlo. Il nuovo Re tostamente mandò un ambasciatore ad implorarono per meglio dire a comprare l'ajuto dei Franchi, e nobilmente profuse per la pubblica salvezza le ricchezze che erano state raccolte nel palazzo di Pavia. Il rimanente del tesoro reale era custodito dal suo fratello Aligerno dentro Cuma nella Campania; ma la rocca fortificata da Totila, era strettamente assediata dalle armi di Narsete. Il re Goto con rapide e segrete mosse si avanzò dalle Alpi al piè del Vesuvio, in soccorso dell'assediato fratello, ingannò la vigilanza dei Capi romani, e piantò il suo campo sulle rive del Sarno o Draco,142 che da Nocera discende nel golfo di Napoli. Il fiume separava i due eserciti; si consumarono sessanta giorni in combattimenti dati in distanza e senza alcun frutto, e Teja mantenne questo posto importante, finchè fu abbandonato dalla sua flotta e da ogni speranza di ricevere vettovaglie. Con ripugnanti passi egli salì sul monte Lattario, dove i medici di Roma, dal tempo di Galeno in poi, mandavano i loro malati per godere i benefizj dell'aria e del latte143. Ma i Goti bentosto si appresero ad un più generoso partito che fu di calar giù del colle, di licenziare i loro cavalli, e di morire colle armi in mano anzi che perdere la libertà. Il Re marciava alla lor testa, portando nella destra una lancia, ed un ampio scudo nella sinistra: colla prima egli stese morti i primi assalitori; coll'altro si schermiva dall'armi che ogni mano ambiva di scagliare contro di lui. Dopo una pugna di più ore, il suo braccio sinistro si sentì affaticato dal peso di dodici giavellotti ch'erano conficcati nel suo scudo. Senza muoversi dal suo posto, nè sospendere i colpi, l'Eroe ad alta voce gridò ai suoi seguaci che gli recassero un altro scudo; ma nel momento in cui il suo fianco rimase scoperto, fu trafitto da un dardo mortale. Egli cadde: ed il suo capo, levato in alto sopra una lancia, significò alle nazioni che il regno de' Goti aveva cessato di essere. Ma l'esempio della sua morte non servì che ad animare i compagni che giurato avevan di perire insieme col lor condottiere. Così pugnarono finchè le tenebre calarono sopra la terra. Essi riposarono la notte armati. Si rinnovò il combattimento col ritorno della luce, e si mantenne egualmente accanito sino alla sera del secondo giorno. Il riposo di una seconda notte, la mancanza d'acqua, e la perdita dei loro campioni più prodi, determinò i Goti superstiti ad accogliere i facili patti d'accordo che l'avvedimento di Narsete si piegò a proporre. Essi accettarono l'alternativa di risiedere in Italia, come sudditi e soldati di Giustiniano, o di partirne con una porzione delle private loro ricchezze per andare in traccia di qualche independente contrada144. Non pertanto, il giuramento di fedeltà o l'esiglio fu del pari rigettato da un migliajo di Goti, che si dischiusero una via, prima che fosse firmata la convenzione, ed audacemente effettuarono la loro ritirata sin dentro le mura di Pavia. Il coraggio, non meno che la situazione di Aligerno, lo mosse ad imitare anzi che a deplorar suo fratello: robusto e destro arciere egli trapassava con una sola freccia l'armatura e il petto del suo antagonista, e la militare sua condotta difese Cuma145 oltre un anno contro le forze de' Romani. L'industria loro avea scavato l'antro della Sibilla fino a farne una prodigiosa mina146; una quantità di combustibili, vi fu introdotta onde incendiare le travi alzate a sostenere il terreno: le mura e la porta di Cuma sprofondarono nella spelonca, ma le rovine formarono un profondo ed inaccessibil precipizio. Aligerno stette solo ed imperturbato sui rottami di una rupe; fintantochè tranquillamente ebbe osservato la disperata condizione del suo paese, e giudicato più onorevol partito essere l'amico di Narsete che lo schiavo de' Franchi. Dopo la morte di Teja, il Generale romano separò le sue truppe per ridurre all'obbedienza le città dell'Italia. Lucca sostenne un lungo e fiero assedio; e tale fu l'umanità o la prudenza di Narsete, che la ripetuta perfidia degli abitanti non potè provocarlo a punire di morte i loro statichi; sani e salvi essi furono rimandati indietro, ed il riconoscente loro zelo finalmente vinse l'ostinazione de' loro concittadini147.
Prima che Lucca si fosse arresa, l'Italia fu allagata da un nuovo diluvio di Barbari. Teodebaldo, giovine e debole principe, nipote di Clodoveo, regnava sui popoli dell'Austrasia ossia sui Franchi orientali. I suoi tutori avevano freddamente e con ripugnanza ascoltato le magnifiche promesse degli ambasciatori Goti. Ma il valore di un popolo guerriero soverchiò i timidi consigli della Corte: i due fratelli, Lotario e Buccellino148, duchi degli Alemanni, assunsero la condotta della guerra d'Italia: e settantacinquemila Germani calarono, nell'autunno, giù dalle Alpi Retiche nella pianura di Milano. La vanguardia dell'esercito Romano era stanziata presso il Po, sotto la condotta di Fulcari, baldanzoso Erulo, il quale temerariamente opinava, che la bravura personale sia il solo dovere e merito di un comandante. Nel mentre che senz'ordine e precauzione egli moveva lungo la via Emilia, un'imboscata di Franchi subitamente saltò fuori dell'anfiteatro di Parma: sorprese restarono le sue truppe e poste in rotta: ma il loro capitano ricusò di fuggire dichiarando nell'estremo istante, che la morte era meno terribile che il corrucciato aspetto di Narsete. La morte di Fulcari, e la ritirata dei duci rimasti in vita, determinarono l'ondeggiante e ribelle naturale dei Goti; essi corsero sotto i vessilli de' loro liberatori, e gli ammisero dentro le città che tuttor resistevano alle armi del generale Romano. Il conquistatore dell'Italia aperse un libero varco all'irresistibile torrente de' Barbari. Essi passarono sotto le mura di Cesena, e risposero con minacce e rimproveri all'avviso di Aligerno, che i tesori Gotici più non poteano pagare i travagli di un'invasione. Duemila Franchi furono distrutti dalla perizia e dal valore di Narsete stesso, che sortì di Rimini alla testa di trecento cavalli, onde punire la licenza e la rapina, che contrassegnavano la loro marcia. Sui confini del Sannio, i due fratelli spartirono le forze loro. Coll'ala destra Buccelino imprese di saccheggiare la Campania, la Lucania ed il Bruzio: colla sinistra, Lotario si accinse allo spogliamento della Puglia e della Calabria. Seguitaron essi la costa del Mediterraneo e dell'Adriatico, sino a Reggio e ad Otranto, e le estreme terre dell'Italia furono il termine del distruttivo loro avanzarsi. I Franchi ch'erano cristiani e cattolici, si contentarono del semplice sacco e di qualche uccisione accidentale. Ma le chiese, risparmiate dalla lor pietà, furono poste a ruba dalla sacrilega destra degli Alemanni, che sacrificavano teste di cavalli alle native loro divinità de' boschi e de' fiumi149, essi fusero o profanarono i sacri vasi; e le rovine degli altari e de' tabernacoli furono macchiate del sangue de' Fedeli. Buccelino era mosso dall'ambizione, Lotario dall'avarizia. Il primo aspirava a ristabilire il regno dei Goti: il secondo, dopo d'aver promesso al fratello di riportargli sollecitamente soccorso, tornò per la stessa strada a porre in sicuro i suoi tesori oltre l'Alpi. La forza de' loro eserciti era già ridotta a male dal cambiamento del clima e dal contagio delle malattie: i Germani s'inebbriarono de' vini d'Italia, e l'intemperanza loro vendicò in qualche guisa le calamità di un popolo senza difesa.
All'entrare della primavera, le truppe imperiali che avean difese le città, si adunarono in numero di diciottomila uomini nelle vicinanze di Roma. Le ore loro d'inverno non s'erano consumate nell'ozio. Seguendo gli ordini e l'esempio di Narsete, esse avean ripetuto ogni giorno i loro militari esercizj a piedi ed a cavallo, aveano assuefatto il loro orecchio al suono della tromba, e praticato i passi e le evoluzioni della danza Pirrica. Dallo stretto della Sicilia, Buccelino con trentamila Franchi ed Alemanni lentamente si mosse verso Capua, occupò con una torre di legno il ponte di Casilino, coprì la sua destra col fiume Volturno, ed assicurò il resto del suo campo con un riparo di acuti pali con un cerchio di carri, le cui ruote erano conficcate nel suolo. Con impazienza egli aspettava il ritorno di Lotario, ignorando ahi misero! che il suo fratello non poteva più ritornare, e che il condottiero col suo esercito era perito per una strana malattia150 sulle rive del Benaco, fra Trento e Verona. Le insegne di Narsete ben tosto si avvicinarono al Volturno, e gli occhi dell'Italia stavano ansiosamente fissi sopra l'evento di questa finale contesa. Forse l'abilità del generale Romano molto era superiore nelle tranquille operazioni che precedono il tumulto di una battaglia. I giudiziosi suoi movimenti intercettarono i viveri ai Barbari, li privarono de' vantaggi del ponte e del fiume, e nella scelta del terreno e del momento dell'azione, li ridussero a conformarsi alla volontà del nemico. Nel mattino di quell'importante giornata, quando le file erano già formate, un servo, per qualche triviale mancamento, fu ammazzato dal suo padrone, uno de' Capi degli Eruli. Si commosse la giustizia o la collera di Narsete: egli intimò all'offensore di comparirgli dinanzi, e senza ascoltarne le discolpe, diede il segnale all'esecutor della morte. Se il crudel padrone non avea infranto le leggi della sua nazione, l'arbitrario supplizio non era meno ingiusto di quel che pare essere stato imprudente. Gli Eruli sentirono l'oltraggio: essi fecero alto: ma il generale Romano, senza calmare il loro sdegno od aspettarne la risoluzione, proclamò ad alta voce che se non si affrettavano ad occupare il lor posto, avrebbero perduto l'onore della vittoria. Disposte erano le sue truppe in una lunga fronte, colla cavalleria sulle ale151: nel centro erano i fanti di grave armatura: gli arcieri ed i frombolieri occupavano la retroguardia. I Germani si avanzarono sotto la forma di un triangolo o di un cono. Essi penetrarono il debole centro di Narsete che li raccolse con un sorriso nel laccio fatale, ed ordinò alle sue ale di cavalleria di girare lentamente sui loro fianchi e di circondare la lor retroguardia. Le forze de' Franchi e degli Alemanni erano composte di fanteria: una spada ed uno scudo pendevan loro dal fianco, ed essi usavano per offensive lor armi una pesante scure ed un giavellotto uncinato, ch'erano solamente formidabili nel combatter corpo a corpo, ovvero da presso. Il fiore degli arcieri Romani a cavallo, ed armati di tutto punto, scaramucciava senza pericolo intorno a questa immobile falange, suppliva colla prestezza de' moti alla debolezza del numero, ed appuntava i suoi strali contro una moltitudine di Barbari, i quali, in cambio di corazza e di elmetto, erano coperti da un lungo vestimento di pelli o di tela. Questi soffermaronsi, sbigottirono, confuse ne andaron le file, e nel decisivo momento, gli Eruli, preferendo la gloria alla vendetta, piombarono con rapida furia sulla testa della loro colonna. Il loro duce Sindballo ed Aligerno, principe de' Goti, meritarono il premio di un sommo valore; ed il loro esempio trasse le truppe vittoriose a compiere colle spade e coll'aste la distruzione dell'inimico. Buccelino e la miglior parte della sua armata, perì sul campo di battaglia, nelle acque del Volturno, o per le mani dei contadini furenti: ma può sembrare impossibile che una vittoria152, alla quale non sopravvissero più di cinque Alemanni, non abbia costato che la perdita di ottanta soldati ai Romani. Settemila Goti, residui della guerra, difenderono la fortezza di Campsa sino all'altra primavera: ed ogni messo di Narsete annunziava la riduzione di qualche italiana città, i cui nomi venivano corrotti dalla ignoranza o dalla vanità dei Greci153. Dopo la battaglia di Casilino, Narsete entrò nella Capitale: le armi ed i tesori dei Goti, dei Franchi e degli Alemanni pubblicamente furono posti in mostra: i soldati, inghirlandati il capo, cantavano le glorie del Conquistatore, e Roma per l'ultima volta vide la similitudine di un trionfo.
Dopo un regno di sessant'anni, il trono dei re Goti fu tenuto dagli Esarchi di Ravenna, che in pace ed in guerra rappresentavano l'Imperator de' Romani. La giurisdizione loro fu ben presto ridotta ai limiti di una ristretta provincia; ma Narsete, primo e potentissimo degli Esarchi, amministrò per forse quindici anni l'intero regno d'Italia. Come Belisario, egli avea meritato gli onori dell'invidia, della calunnia e della disgrazia: ma il favorito Eunuco tuttor godeva la confidenza di Giustiniano, o veramente il condottiere di un esercito vittorioso intimoriva e reprimeva l'ingratitudine di una Corte vigliacca. Nondimeno Narsete non usò di una debole e nociva indulgenza per assicurarsi l'amor delle truppe. Immemore del passato, e non curante dell'avvenire, esse male spendevano le presenti ore della prosperità e della pace. Le città dell'Italia risuonavano allo strepito de' stravizzi e de' tripudj: le spoglie della vittoria si consumavano in sensuali piaceri, e null'altro (dice Agatia) più rimanea da farsi, se non se cangiare gli scudi e gli elmi contro il molle liuto e l'anfora capace154. In una virile concione, non indegna di un censore Romano, l'Eunuco biasimò questi disordinati vizj, che svergognavano la fama de' guerrieri, e ne mettevano la salute in periglio. I soldati arrossirono ed obbedirono: si confermò la disciplina, si restaurarono le fortificazioni: fu sovrapposto un duca alla difesa ed al militare comando di ciascuna delle principali città155
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Sarà un piacere non una pena pel lettore lo scorrere Erodoto (l. VII c. 104, 134 p. 550, 615). Il colloquio fra Serse e Demarato alle Termopili è una delle più interessanti e morali scene dell'istoria. L'aspetto delle virtù della sua patria formava il tormento del regale Spartano, che con angoscia e rimorso le rimirava.
Veggasi quest'orgogliosa iscrizione in Plinio (Hist. nat. VII. 27). Pochi uomini hanno meglio assaporato le dolcezze della gloria e le amarezze della sventura, nè poteva Giovenale (Sat. X) offrire un più vivo esempio delle vicende della fortuna e della vanità degli umani desiderii.
Γραικους … εξ ων τα προτερα ουδενα ες Ιταλιαν ηκοντα ειδον, οτι μη τραγωδους, και ναυτας λωποδυτας. Quest'ultimo epiteto di Procopio troppo nobilmente si traduce col termine di pirati: ladri navali è la parola propria, e significa gente che spoglia, sia per rubare sia per oltraggiare (Demostene contra Conon. negli Oratori greci di Reiske, t. 2, p. 1264)
Vedi il libro 3 e 4 della Guerra Gotica; lo scrittore degli Aneddoti non può aggravar questi abusi.
Agatia, l. 5 p. 157, 158. Egli ristringe questa debolezza dell'Imperatore e dell'Impero alla vecchiezza di Giustiniano; ma, pur troppo, Giustiniano non fu mai giovane.
Questa dannosa politica, che Procopio (Aneddoti c. 19) imputa all'Imperatore, si manifesta nella sua lettera ad un principe Scita, il quale era capace d'intenderla (Agatia l. V p. 170, 171).
Gens Germana feritate ferociore, dice Vellejo Patercolo, parlando de' Germani (II 106). Langobardos paucitas nobilitat. Plurimus ac valentissimis nationibus cincti, non per obsequium, sed praeliis et periclitando tuti sunt (Tacito, de Moribus German., c. 40). Vedi parimente Strabone l. 7 p. 446. I migliori geografi li collocano di là dell'Elba, nel vescovato di Maddeborgo e la Marca di mezzo di Brandeborgo. Questa situazione si accorda colla patriottica osservazione del conte di Hertzberg, che la maggior parte dei conquistatori Barbari uscirono dagli stessi paesi che ora partoriscono gli eserciti della Prussia.
L'origine Scandinava dei Goti e dei Lombardi, come è asserita da Paolo Warnefrido, soprannominato il Diacono, viene impugnata dal Cluvier (Germania antiqua, l. 3 c. 26 p. 102 ecc.), natìo Prussiano, e difesa da Grozio (Proleg. ad hist. Goth., p. 28 ecc.) ambasciatore di Svezia.
Due fatti nel racconto di Paolo Diacono (l. 1 c. 20) esprimono i costumi nazionali: 1. Dum ad tabulam luderet, mentre giuocava alle dame. 2. Camporum viridantia lina. La coltivazione del lino suppone la proprietà, il commercio, l'agricoltura e le manifatture.
Mi sono servito, senza pretendere di conciliarli insieme, de' fatti recati da Procopio (Goth. l. 2 c. 14, l. 3 c. 33, 34, l. 4 c. 18, 25); da Paolo Diacono (de Gestis Langobardorum, l. 1 c. 1-23; in Muratori, Script. rer. ital., t. 1 p. 405-419); e da Giornandes (de success. Regn., p. 242). Il lettore paziente può trarre qualche lume da Mascou (Storia de' Germani, ed Annot. XXIII) e dal Buat (Hist. des Peuples, ecc. t. ix, x, xi).
Adotto la denominazione di Bulgari, seguendo Ennodio (in Panegyr. Theodorici, Opp. Sirmond, t. 1 p. 1598, 1599), Giornandes (de Rebus Geticis, c. 5 p. 194, e de Regn. success. p. 242), Teofane (p. 185), e le Cronache di Cassiodoro e Marcellino. Il nome di Unni è troppo vago: le tribù de' Cutturgurii ed Utturgurii formano divisioni troppo minute, ed offrono nomi di troppo aspra pronuncia.
Procopio (Goth. l. 4 c. 19). Quest'imbasciata verbale (egli confessa da se di essere un Barbaro senza lettere) vien riportata in forma di una lettera. Selvaggio n'è lo stile, pieno di figure ed originale.
Risulta questa somma da una lista particolare, che trovasi in un curioso frammento manoscritto del 550, che sussiste nella Biblioteca di Milano. L'oscura geografia di quei tempi eccita ed esercita la pazienza del conto di Buat (t. XI p. 69-189). Il ministro francese spesso perdesi in un deserto che richiede una guida Sassone o Polacca.
Panicum, milium. Vedi Columella, l. 2 c. 9 p. 430, ed. Gesner; Plinio, (Hist. Nat. XVIII, 24, 25). I Sarmati facevano una polenta di miglio, mista con latte o sangue di cavalla. Nell'ubertà del nostro moderno stato domestico, il miglio serve a nudrire i polli e non gli eroi. Vedi i Dizionarii di Bomare e di Miller.
Quanto al nome, alla nazione, alla situazione ed a' costumi degli Schiavoni, vedi le testimonianze originali del VI secolo in Procopio (Goth. l. 2 c. 26, l. 3 c. 14), e ciò che ne dice l'Imperatore Maurizio (Stratagemat. l. 2 c. 5 ap. Mascou, Annot. XXXI). Gli stratagemmi dell'Imperatore Maurizio non furono stampati, per quanto io sappia, che in fine alla Tattica di Arriano, edizione di Scheffer, in Upsala, 1664 (Fabr., Bibliot. Graec. l. 4 c. 8 t. 3 p. 278), libro raro e che non mi venne fatto di avere.
Antes eorum fortissimi… Taysis qui rapidus et vorticosus in Histri fluenta furens devolvitur (Giornandes, c. 5 p. 194 ed. Muratori. Procopio, Goth. l. 5 c. 14, e de Edif. l. IV c. 7). Pure lo stesso Procopio ricorda i Goti e gli Unni come vicini, Γειτονουντα, il Danubio (de Edif. l. 4, c. 1).
Il titolo nazionale di Anticus, preso nelle leggi ed iscrizioni da Giustiniano, fu adottato da' suoi successori, e vien giustificato dal pio Ludewig (in vit. Justinian. p. 515). Esso ha stranamente intricato i giureconsulti del medio evo.
Procopio, Goth. l. 4 c. 25.
Un'irruzione degli Unni viene unita da Procopio coll'apparizione di una cometa, forse quella del 531 (Persic. l. 2 c. 4); Agatia (l. 5 p. 154, 155) toglie a prestito dal suo predecessore varj fatti più antichi.
Procopio riferisce od ingrandisce le crudeltà degli Schiavoni (Goth. l. 3 c. 29, 38). Quanto al mite e liberale loro procedere co' prigionieri, possiamo appellarci all'autorità, alquanto più recente, dell'imperatore Maurizio (Stratagem. l. 2 c. 5).
Topiro giaceva presso Filippi nella Tracia o Macedonia, dirimpetto all'isola di Taso, dodici giornate distante da Costantinopoli (Cellario, t. 1 p. 676, 840).
Se pongasi fede alla maligna testimonianza degli Aneddoti (c. 18), queste incursioni aveano ridotto le province meridionali del Danubio allo stato delle solitudini Scitiche.
Da Caf a Caf; che una geografia più ragionevole può forse interpretare dall'Imao al monte Atlante. Secondo la filosofia religiosa de' Maomettani, la base del monte Caf è di smeraldo, il cui riflesso produce l'azzurro del cielo. La montagna è dotata di un'azione sensitiva nelle sue radici o nervi; e la vibrazion loro, dipendente dal cenno di Dio, produce i terremoti (D'Herbelot, p. 230, 231).
Il ferro della Siberia è il migliore ed il più abbondante del mondo, e, nelle parti meridionali, l'industria dei Russi ne scava al presente più di sessanta miniere (Strahlenberg, Storia della Siberia, p. 342, 387. Voyages en Siberie par l'abbé Chappe d'Auteroche, p. 603-608, ediz. in 12. Amsterdam, 1770). I Turchi offrivano ferro per sale: eppure gli ambasciatori Romani, con istrana ostinazione, persistevano in credere, che un artifizio era desso, e che il loro paese punto non ne produceva (Menandro in Excerpt. Leg. p. 152).
Di Irgana-Kon (Abulghazi Kan, Hist. Généalog. des Tatars, P. 2 c. 5, p. 71, 77 c. 15 p. 155). La tradizione conservata da' Mogolli de' 450 anni ch'essi passaron ne' monti, concorda coi periodi Chinesi dell'istoria degli Unni e dei Turchi (De Guignes, t. 1 P. 2 p. 376) e colle venti generazioni dalla loro restaurazione sino a Zingis.
Il paese de' Turchi, ora de' Calmucchi, è descritto benissimo nella Storia Genealogica p. 521-562. Le curiose note del traduttore Francese sono ampliate e riordinate nel secondo volume della Traduzione inglese.
Visdelou, p. 141, 151. Questo fatto si può qui introdurre, benchè, strettamente parlando, esso appartenga ad una tribù subordinata e che venne dopo.
Procopio, Persic. l. 1 c. 12, l. 2 c. 3. Peyssonel (Observ. sur les Peup. Barb. p. 99, 100) stabilisce la distanza che corre tra Caffa e l'antica Bosforo, in 16 lunghe leghe tartare.
Vedi, in una Memoria del De Boze (Mem. de l'Acad. des Inscrip., t. VI p. 549-565), gli antichi Re e le medaglie del Bosforo Cimmerio; e la gratitudine di Atene, nelle orazioni di Demostene contro Leptine (negli Oratori Greci di Reiske, t. 1 p. 466, 467).
Intorno all'origine ed alle rivoluzioni del primo impero Turchesco, ne ho tolto le particolarità dal De Guignes (Hist. des Huns, t. 1 P. 2 p. 367-462), e da Visdelou (suppl. à la Biblioth. Orient. d'Herbelot, p. 82-114). I cenni Greci e Romani sono raccolti in Menandro (p. 108-164) ed in Teofilacte Simocatta (l. VII c. 7, 8).
Il fiume Til, o Tula, secondo la geografia di De Guignes (t. 1 P. 2 p. 58 e 352), è una piccola ma gentil riviera del deserto, che cade nell'Orhon, Selinga, ecc. Vedi Bell, Viaggio da Pietroburgo a Pechino (vol. 2 p. 124); non per tanto la descrizione ch'egli fa del Keat, giù pel quale discese nell'Oby, rappresenta il nome e gli attributi del fiume nero (p. 139).
Teofilacte, l. 7 c. 7, 8. Nondimeno i veri Avari sono invisibili anche agli occhi di De Guignes, e che può averci di più illustre de' falsi? Il diritto de' fuggitivi Ogori a questa denominazione nazionale viene riconosciuto dagli stessi Turchi (Menandro, p. 108).
Si trovano gli Alani nell'Istoria Genealogica de' Tartari (p. 617) e nelle carte di Danville. Essi affrontarono le mosse dei generali di Zingis intorno al mar Caspio, e furono disfatti in una gran battaglia (Hist. de Gengiscan, l. 4 c. 9 p. 447).
Le ambascerie e le prime conquiste degli Avari si possono leggere in Menandro (Excerpt. Legat. p. 99, 100, 101, 154, 155), in Teofane (p. 196), nell'Historia Miscella (l. XVI p. 109) ed in Gregorio di Tours (l. 4 c. 23, 29; negl'Istorici di Francia, t. 2 p. 214, 217).
Teofane (Chron. p. 204) e l'Historia Miscella (l. 16 p. 110), come interpreta il De Guignes (t. 1 P. 2 p. 354), sembrano parlare di un'ambasceria Turca allo stesso Giustiniano; ma quella di Maniaco, nel 4 anno del suo successore Giustino, è positivamente la prima che sia pervenuta a Costantinopoli (Menandro, p. 108).
I Russi hanno scoperto caratteri, rozzi geroglifici, lungo le rive dell'Irtish e del Genissì, intagliati sopra medaglie, tombe, idoli, rocce, obelischi, ecc. (Strahlenberg, Storia della Siberia, p. 324, 346, 406, 429). Il D. Hide (de Religione veterum Persarum, p. 521 ecc.) ha pubblicato due alfabeti del Tibet e degli Eigori. Io sono, da lungo tempo, in sospetto che tutto il sapere degli Sciti, ed un poco e forse assai del sapere Indiano, sia derivato dai Greci della Battriana.
Tutte le particolarità delle ambascerie Turchesca e Romana, così curiose nell'istoria degli umani costumi, sono levate dagli estratti di Menandro (p. 106-110, 151-154, 161-164), in cui sovente è dispiacevole la mancanza di ordine e di connessione.
Vedi d'Herbelot (Biblioth. Orient. p. 568, 929). Hyde (de Relig. vet. Pers. c. 21 p. 290, 291); Pocock (specimen Hist. Arab. p. 70, 71); Eutichio (Annal. t. 2 p. 176); Texeira (in Stevens, Storia della Persia, l. 1 c. 34).
La fama della nuova legge per la comunanza delle donne si propagò in Siria ben presto (Asseman. Bibl. Orient. t. 3 p. 402) ed in Grecia (Procopio, Persic. l. 1 c. 5).
Egli offrì la propria moglie e la sorella al profeta; ma le preghiere di Nushirvan salvarono la madre; e lo sdegnato monarca mai non dimenticò l'umiliazione a cui avea dovuto discendere la sua filiale pietà: pedes tuos deosculatus (disse egli a Mazdak), cujus foetor adhuc nares occupat (Pocock, specimen Hist. Arab. p. 71).
Procopio, Persic. l. 1 c. 11. Non fu Proclo savio più del dovere? Non fu per avventura immaginario il pericolo? La scusa almeno era offensiva per una nazione che non ignorava le lettere: ου γραμμασι οι βαρβαροι τους παιδας ποιουνται αλλ’οπλων σκευη. Dubito che in Persia vi fossero forme di adozione in uso.
Appoggiandosi a Procopio ed Agatia, il Pagi (t. 2 p. 543, 626) ha provato che Cosroe Nushirvan salì al trono nel 5 anno di Giustiniano (A. D. 431 1. di aprile; A. D. 532, 1 di aprile). Ma la vera cronologia che consente coi Greci e cogli Orientali, è stabilita da Gio. Malala (t. II p. 211). Cabade, o Kobad, dopo un regno di 43 anni e due mesi, ammalò agli 8, e morì ai 13 di settembre, A. D. 531, in età di 82 anni. Secondo gli annali di Eutichio, Nushirvan regnò 47 anni e 6 mesi; onde si dee porre la sua morte nel marzo del 579.
Procopio, Persic. l. 1 c. 23. Brisson. de Regn. Pers. p. 494. La porta del palazzo d'Ispahan è, od era, la scena fatale del disfavore o della morte (Chardin, Viaggio in Persia, t. 4 p. 312, 313).
In Persia, il principe delle acque è un ufficiale di Stato. Il numero de' pozzi e de' canali sotterranei è molto diminuito ed insieme con essi è diminuita la fertilità del suolo: si sono perduti recentemente 400 pozzi vicino a Tauris, e se ne contavano altre volte 42,000 nella provincia di Korasan (Chardin, t. 3 p. 99, 100. Tavernier, t. 1 p. 416).
Il carattere ed il governo di Nushirvan vien qui rappresentato talvolta colle proprie parole di d'Herbelot (Bibl. Orient. p. 680 ecc. da Khondemir); ora con quelle di Eutichio (Annal. t. 3 p. 179, 180 ecc. che son molto ricchi), di Abulfaragio (Dynast. VII p. 94, 95 ch'è molto povero), di Tarikh Schikard (p. 144-150), di Texeira (in Stevens, l. 1 c. 35), di Assemanno (Bibl. Orient. t. 3 p. 404-410), e dell'Ab. Fourmont (Hist. de l'Acad. des inscript. t. 7 p. 325-334), il quale ha tradotto uno spurio o genuino testamento di Nushirvan.
Mille anni prima ch'egli nascesse, i giudici di Persia aveano proferito una solenne opinione. τω βουσιλευoντι Περσεων εξειναι ποιειν το αν βουληται (Erodoto l. 3 c. 31 p. 210, ediz. Wesseling). Nè questa massima costituzionale era già stata negletta come un'inutile e sterile teoria.
Per tutto ciò che spetta allo stato letterario della Persia, alle versioni greche, ai filosofi, ai sofisti, alla scienza ed ignoranza di Cosroe, Agatia (l. 2 c. 66-71) mostra di esser male informato e fortemente pregiudicato.
Asseman. Bibl. Orient. t. 4 p. DCCXLV, VI, VII.
Il Shà Nameh, o libro dei Re, è forse l'originale monumento d'istoria che fu tradotto in greco dall'interprete Sergio (Agatia l. 5 p. 141), conservato dopo la conquista dei Maomettani, e posto in versi nell'anno 994, dal poeta nazionale Ferdussi. Vedi d'Anquetil (Mem. dell'Accad. t. 31 p. 379), e il cav. Guglielmo Jones (Ist. di Nadir Shà p. 161).
Nel 5 secolo il nome di Restomo, o Rostam, eroe che pareggiava la forza di dodici elefanti, era familiare agli Armeni (Mosè da Corene, Stor. Armena, l. 2 c. 7 p. 96, ed. Whiston). Nel principio del 7 secolo, il romanzo Persiano di Rostam ed Isfendiar era applaudito alla Mecca (Koran., ed. di Sale, c. 31 p. 335). Eppure Maracci non ci dà quest'esposizione del ludicrum novae historiae (Refut. Alcoran, p. 544-548).
Procop. Goth. l. 4 c. 10. Kobad aveva un medico greco per favorito, ch'era Stefano di Edessa (Persic. l. 2 c. 26). Antica era l'usanza, ed Erodoto racconta le avventure di Democede di Crotona (l. 3 c. 125-137).
Vedi Pagi, t. 2 p. 626. In uno de' trattati che fece, s'inserì un onorevole articolo per la tolleranza de' Cattolici, e per la loro sepoltura (Menandro, in Excerpt. Legat. p. 142). Nushizad, figlio di Nushirvan, fu un Cristiano, un ribelle ed un martire (D'Herbelot, p. 681).
Intorno alla lingua Persiana ed a' suoi tre dialetti, si consulti d'Anquetil (p. 339-343) e Jones (p. 152-185). Αγρια τινι γλωττη και αμουσοτατω, è il carattere che Agatia (l. 2 p. 66) ascrive ad un idioma rinomato nell'Oriente per la poetica sua dolcezza.
Agatia specifica il Gorgia, il Fedone, il Parmenide e il Timeo. Renaudot (Fabricio, Bibl. gr. t. 12 p. 246-261) non fa menzione di questa barbarica traduzione di Aristotele.
Di queste favole ho veduto tre copie in tre lingue differenti: 1. in Greco, tradotte da Simeone Seth (A. D. 1100) dall'Arabo, e pubblicate da Starck a Berlino nel 1697 in-12; 2. in Latino, versione dal greco, intitolata: Sapientia Indorum, inserita dal P. Pussino al fine dell'edizione di Pachimero (p. 547-620, ed Rom.); 3. in Francese, versione dal turco, dedicata, nel 1540, al sultano Solimano. Contes et Fables indiennes de Pilpay et de Lokman, par MM. Galland et Cardonne. Paris, 1778, 3 vol. in-12. Il Warton (Storia della Poesia inglese, vol. 1 p. 129, 131) si prende un campo più largo.
Vedi l'Historia Shahiludii del Dott. Hyde (Syntagm. Dissert. t. 2 p. 61-69).
La pace perpetua (Procopio, Persic. l. 1 c. 21) fu conchiusa o ratificata nel 6. anno e nel consolato 3. di Giustiniano (A. D. 533, tra il primo di gennaio e il primo di aprile. Pagi, t. 2 p. 550). Marcellino, nella sua Cronaca, usa lo stile dei Medi e dei Persiani.
Procopio, Persic. l. 1 c. 26.
Almondar, re di Hira, fu deposto da Kobad e ristabilito sul trono da Nushirvan. La madre di lui, per la sua bellezza, fu soprannominata l'Acqua celeste, nome che divenne ereditario, e fu esteso per una più nobil cagione (la liberalità in tempo di carestia) ai principi Arabi della Siria. Pocock, Specimen Hist. Arab. p. 69, 70.
Procopio, Persic. l. 11 c. 1. Non conosciamo l'origine e l'oggetto di questo strata, via selciata di dieci giornate di viaggio da Auranite a Babilonia (Vedi una Nota latina nella Carta dell'Impero Orientale di Delisle). Vesseling e Danville non ne fan cenno.
Ho fuso, in una breve diceria, le due orazioni degli Arsacidi dell'Armenia, e degli ambasciatori Goti. Procopio, nella sua istoria pubblica, sente e ci fa sentire che Giustiniano fu il vero autor della guerra. Persic. l. II c. 2, 3.
L'invasione della Siria, la rovina di Antiochia, ecc., vengono raccontate regolarmente e per disteso da Procopio (Persic. l. II c. 5-14). Si può trarre qualche altro aiuto dagli Orientali. D'Herbelot (p. 680) avrebbe dovuto arrossire quando li biasima di far contemporanei Giustiniano e Nushirvan. Danville (l'Euphrate et le Tigre) spiega con chiarezza la geografia del teatro di quella guerra.
Nell'istoria pubblica di Procopio (Persic. l. II c. 16, 18, 19, 20, 21, 24, 25, 26, 27, 28). Con qualche piccola eccezione, noi possiamo ragionevolmente chiuder l'orecchio alle maligne insinuazioni degli Aneddoti (c. 23 colle note, secondo il solito, dell'Alemanno).
La guerra Lazica, la contesa di Roma e della Persia sul Fasi, è noiosamente tessuta in molte pagine da Procopio (Persic. l. II c. 15, 17, 28, 29, 30. Gothic. l. IV c. 7-16) e da Agatia (l. II, III, p. 55-132, 141).
Sallustio descrisse in Latino, ed Arriano in Greco il Periplo, ossia la navigazione intorno al mare Eussino. 1. Debrosses primo Presidente del Parlamento di Digione ha restituito con singolar cura l'opera del primo che più non esiste (Hist. de la Republique Romaine, t. II l. III p. 199-298). Egli ha il coraggio di assumere il carattere dello storico romano. La sua descrizione dell'Eussino è ingegnosamente formata di tutti i frammenti dell'originale, e di tutti gli autori Greci e Latini che Sallustio potè copiare, o da cui potè esser copiato. Il merito dell'esecuzione fa perdonare la stranezza del disegno. 2. Il Periplo di Arriano è indirizzato all'Imperatore Adriano (in Geograph. Minor. Hudson, t. I), e contiene tutto ciò che il Governatore del Ponto avea veduto da Trebisonda a Dioscurias, tutto ciò che aveva udito da Dioscurias al Danubio, e tutto ciò che sapeva dal Danubio a Trebisonda.
Oltre i molti cenni che ne fanno per occasione i poeti, gli storici, ecc., dell'antichità, possiamo consultare le geografiche descrizioni del Colco, lasciate da Strabone (l. XI p. 760-765) e da Plinio (Hist. Nat. VI, 5, 19, ecc.).
Ho fatto uso di tre descrizioni moderne della Mingrelia e de' paesi adiacenti. 1. Del Padre Arcang. Lamberti (Relations de Thevenot, part. I p. 31-52 con una Carta), il quale aveva tutta la dottrina e tutti i pregiudizi di un Missionario. 2 Di Chardin (Voyages en Perse, t. I p. 54, 68-168); giudiziose ne sono le osservazioni; e le avventure a lui seguite in quel paese, instruiscono più delle sue osservazioni. 3. di Peyssonel (Observations sur les Peuples barbares, p. 49, 50, 51, 58, 62, 64, 65, 71, ecc. ed un trattato più recente sur le Commerce de la mer Noire, t. II p. 1-53): lungo tempo egli è vissuto a Caffa, in qualità di Console di Francia: la sua erudizione val meno della sua sperienza.
Plinio, Hist. Nat. l. XXXIII, 15. Le miniere aurifere ed argentifere della Colchide trassero colà gli Argonauti (Strabone, l. I p. 77). Il sagace Chardin non potè rinvenir oro nelle miniere, nei fiumi, od altrove. Eppure un Mingrelio perdè una mano ed un piede per aver mostrato in Costantinopoli alcuni saggi d'oro nativo.
Erodoto, l. II c. 104, 105, p. 150, 151. Diodoro Siculo l. I p. 33, ediz. Wesseling. Dionisio Perieget, 689, ed Eustazio ad loc. Scholiast. ad Apollonium Argonaut. l. IV, 282-291.
Montesquieu, Espr. des Lois, l. XXI c. 6. L'Isthme… couvert de villes et de nations qui ne sont plus.
Bougainville (Memoires de l'Acad. des Inscr. t. XXVI p. 33) sopra il viaggio affricano di Annone ed il commercio dell'antichità.
Un istorico greco, Timostene, ha asserito, in eam CCC nationes dissimilibus linguis descendere; ed il modesto Plinio si contenta di aggiugnere: et a postea a nostris CXXX interpretibus negotia ibi gesta (VI, 5); ma le parole nunc deserta ricoprono una moltitudine di antiche finzioni.
Buffon (Hist. Nat. t. III p. 433-437) raccoglie l'unanime suffragio dei naturalisti e de' viaggiatori. Se, al tempo di Erodoto, essi erano veramente μελαγχες e ουλοτριχεσ (ed egli osservati gli aveva con cura), questo prezioso fatto è un esempio dell'influenza del clima sopra una colonia straniera.
Un Ambasciatore mingrelio arrivò a Costantinopoli con duecento persone; ma le mangiò (vendè) una ad una, finchè non rimase che con un secretario e due servitori (Tavernier, t. I p. 365). Un Signore mingrelio vendette ai Turchi dodici preti e la sua moglie per comperarsi una concubina.
Strabone, l. XI p. 765. Lamberti, Relation de la Mingrelie. Non conviene però cadere nell'altro estremo di Chardin, che non dà alla Mingrelia più di 20,000 abitanti per supplire ad un'annua esportazione di 12,000 schiavi: assurdità indegna di quel giudizioso viaggiatore.
Erodoto, l. III c. 97. Vedi nel libro VII c. 79 le armi ed il servizio loro nella spedizione di Serse contro la Grecia.
Senofonte che s'era azzuffato co' Colchi nella sua ritirata (Anabasis, l. IV p. 130, 343, ed. Hutchinson; e la Dissertazione di Forster, p. LIII-LVIII nella versione inglese di Spelmann, vol. II) li chiama αυτονομοι; prima della conquista di Mitridate, sono denominati da Appiano αρειμανες (de bello Mithrid. c. 15 t. 1 p. 661 dell'ultima e miglior edizione di Gio. Schweighaeuser, Lipsia, 1785, 3 vol. in 8 gr.).
Appiano (de bello Mithrid.) e Plutarco (in vita Pomp.) parlano della conquista della Colchide, fatta da Mitridate e da Pompeo.
Possiamo rintracciare l'origine e la caduta della famiglia di Polemone in Strabone (l. XI p. 755, l. XII p. 867), in Dion Cassio o Zifilino (p. 588, 593, 601, 719, 754, 915, 946, ed. Reimar), in Svetonio (in Ner. c. 18, in Vespas. c. 8), in Eutropio (VII, 14), in Gioseffo (antiq. Judaic. l. XX c. 7 p. 970, ediz. Havercamp) ed in Eusebio (Chron. colle Animadv. di Scaligero).
Al tempo di Procopio non v'erano Fortezze romane sul Fasi. Pizio e Sebastopoli furono sgombrate al sentire che i Persiani si avvicinavano (Goth. l. IV c. 4); ma l'ultima di queste piazze fu restaurata da Giustiniano (de Edif. l. IV c. 7).
A' giorni di Plinio, di Arriano e di Tolomeo, i Lazi formavano una particolare tribù sul confine settentrionale della Colchide (Cellario, Geograph. ant. t. 11 p. 222.) Nell'età di Giustiniano, si sparsero, od almeno regnarono su tutto il paese. Al presente, hanno trasmigrato lungo la costa verso Trebisonda, e compongono un rozzo popolo, dedito alla pescagione, che parla un linguaggio particolare (Chardin, p. 149. Peyssonel. p. 64).
Gio. Malala, Cron. t. 11 p. 134-137. Teofane, p. 144 Hist. Miscel. l. XV p. 103. Autentico è il fatto, ma la data par troppo recente. Nel parlare della loro alleanza persiana, i Lazi contemporanei di Giustiniano usano obsolete parole: εν γραμμασι μινιμεια, προγονοι. – Potevano queste parole appartenere ad un'alleanza che da soli vent'anni era sciolta?
Non rimane altro vestigio di Petra che negli scritti di Procopio e di Agatia. La maggior parte delle città e castella della Lamica si può ritrovare col paragonare i nomi, e la posizione loro colla carta della Mingrelia, in Lamberti.
Vedi le piacevoli lettere di Pietro della Valle, viaggiatore romano (Viaggi, t. 2 p. 207, 209, 213, 215, 266, 286, 300, t. III p. 54, 127). Negli anni 1618, 1619 e 1620, egli conversò con Shà Abbas e vivamente incoraggiò un disegno che avrebbe unito la Persia e l'Europa contro il Turco, loro comune inimico.
Vedi Erodoto (l. 1 c. 140 p. 69), il qual parla con diffidenza (Larcher, t. 1 p. 399-401. Notes sur Herodote), Procopio (Persic. l. 1 c. 11), e Agatia (l. 2 p. 61, 62). Questa pratica, conforme al Zendavesta (Hide, de Relig. Pers. c. 34 p. 414-421); dimostra che la sepoltura dei Re persiani (Senofonte, Cirop. l. 8 p. 658, Τι γαρ τουτου μακαριωτερον του τῃ γῃ μιχθηναι), è una finzione greca, e che le tombe loro non potevano essere che cenotafi.
Il supplizio di scorticare un uomo vivo non potè esser introdotto in Persia da Sapore (Brisson, de Regn. Pers. l. 2, p. 578), nè copiato dalla insulsa storiella di Marsia, suonatore di Frigia, più insulsamente citata, come esempio, da Agatia (l. 4 p. 132, 133).
Nel palazzo di Costantinopoli v'erano trenta silenziarj, che si chiamavano hastati ante fores cubiculi, της σιγης επισαται, onorevol titolo, che conferiva il grado di Senatore, senza imporne i doveri (Cod. Teodos. l. 6 tit. 23. Coment. del Gotofred. t. 2 p. 129).
Intorno a queste orazioni giudiciali, Agatia (l. 3 p. 81-89, l. 4 p. 108-119) spende diciotto o venti pagine di una falsa e fiorita rettorica. L'ignoranza o trascuranza di lui giunge al segno di passare in silenzio il più forte argomento contro il Re di Lazica cioè l'antecedente sua ribellione.
Procopio espone l'usanza della Corte gotica di Ravenna (Goth. l. 1 c. 7). Gli Ambasciatori stranieri sono stati trattati con gelosia e rigor non diverso in Turchia (Busbechio, ep. 3 p. 149, 242 ecc.), in Russia (Viaggio di Oleario), e nella China (Relazione del sig. di Lange ne' viaggi di Bell, vol. 2 p. 189-311).
Le pratiche ed i trattati tra Giustiniano e Cosroe si spiegano copiosamente da Procopio (Persic. l. 2 c. 10, 13, 26, 27, 28. Goth. l. 2 c. 11, 15), da Agatia (l. 4 p. 141, 142) e da Menandro (in Excerpt. Legat. p. 132-147). Si consulti Barbeyrac, Hist. des anciens Traités, t. 2 p. 154, 181-184, 193-200.
D'Herbelot, Bibliot. Orient. p. 680, 681, 294, 295.
Vedi Buffon, Hist. Natur. t. 3 p. 449. La forma dei lineamenti arabi, ed il colore della lor pelle, che han durato per 3400 anni (Ludolph. Hist. et Comment. Æthiop. l. 1 c. 4) nella colonia dell'Abissinia, può giustificare il sospetto, che la razza ugualmente che il clima abbiano contribuito a formare i Negri delle regioni adiacenti e simili fra loro.
I Missionari portoghesi, Alvarez (Ramusio, t. 1 f. 204 rect. 274 vers.), Bermudez (Purcha's Pilgrims, vol. 2 l. V c. 7 p. 1149-1188), Lobo (Relation etc. par M. Legrand, con XV Dissertazioni. Parigi 1728) e Tellez (Relation de Thévenot, part. IV) non han potuto riferire della moderna Abissinia che quanto essi hanno veduto od inventato. L'erudizione di Ludolfo (Hist. Ætiop. Francoforte, 1681, Commentario, 1691. Append. 1694) in venticinque lingue, non potè aggiungere gran cosa all'istoria antica di quel paese. Non pertanto la fama di Caled od Ellisteo, conquistatore dell'Yemen, vien celebrata in canti nazionali e in leggende.
Le negoziazioni di Giustino cogli Axumiti o Etiopi son ricordate da Procopio (Persic. l. 1 c. 19, 20) e da Giovanni Malala (t. 2 p. 163-165, 193-196). L'istorico di Antiochia cita la relazione originale dell'ambasciatore Nonnoso, della quale un curioso estratto ci venne serbato da Fozio (Bibl. Cod. 3).
Il commercio degli Axumiti sulle coste dell'India e dell'Affrica e nell'isola di Ceilan, è curiosamente descritto da Cosma Indicopleuste (Topogr. Christ. l. 2 p. 132, 138, 139, 140, l. 11 p. 338, 339).
Ludolfo, Hist. et Comment. Æthiop. l. 2 c. 3.
La città di Negra, o Nag'ran, nell'Yemen, è circondata da palme, e giace sulla strada maestra fra la capitale Saana e la Mecca; distante dieci giornate di una carovana di cammelli dalla prima, e venti dalla seconda (Abulfeda, Descript. Arabiae, p. 52).
Il martirio di S. Areta, Principe di Negra, e de' suoi trecento e quaranta compagni, è abbellito nelle leggende di Metafraste e di Niceforo Callisto, copiato dal Baronio (A. D. 522, n. 22-26. A. D. 523, n. 16-29), ed è confutato, con oscura diligenza dal Basnagio (Hist. des Juifs, t. 12 l. 8 c. 2 p. 333-348), il quale investiga lo stato degli Ebrei nell'Arabia e nell'Etiopia.
Alvarez (in Ramusio, t. I f. 219 vers. 221 vers.) vide il florido stato di Axuma nell'anno 1520, luogo molto buono e grande. Axuma cadde in rovina per un'invasione de' Turchi. Non rimangono ora più di 100 case; ma la rimembranza della sua passata grandezza vien tuttavia serbata dall'incoronazione dei Re (Ludolfo, Hist. et Comment. l. 2 c. 11).
Le rivoluzioni dell'Yemen nel sesto secolo si debbono raccogliere da Procopio (Persic. l. I c. 19, 20), da Teofane Bizantino (apud Phot. cod. 63 p. 80), da S. Teofane (in Chronograph. p. 144, 145, 188, 189, 206, 207, ch'è piena di strani abbagli), da Pocock (Specimen Hist. Arab. p. 62, 63), da D'Herbelot (Bibliot. Orient. p. 12-477) e dal Discorso preliminare e Corano di Sale (c. 105). La rivolta di Abrahah è ricordata da Procopio; e la sua caduta, benchè annuvolata da miracoli, è un fatto istorico.
Per le turbolenze dell'Affrica, io non ho, nè desidero di aver altra guida fuorchè Procopio, il qual vide co' proprj occhi i memorabili avvenimenti de' suoi tempi, o ne raccolse colle proprie orecchie il racconto. Nel secondo libro della guerra Vandalica, egli narra la ribellione di Stoza (c. 12-24), il ritorno di Belisario (c. 15), la vittoria di Germano (c. 16, 17, 18), la seconda amministrazione di Salomone (c. 19, 20, 21), il governo di Sergio (c. 22, 23), di Areobindo (c. 24), la tirannia e morte di Gontari (c. 25, 26, 27, 28); nè posso discernere alcun segno di adulazione o di malevolenza nei suoi diversi ritratti.
Non posso però ricusargli il merito di pingere, con vivaci colori, l'assassinio di Gontari. Uno degli uccisori manifestò sensi non indegni di un cittadino romano: «Se io fallisco, disse Artasire, il primo colpo, uccidetemi immediatamente, affinchè le torture non abbiano da strapparmi di bocca la confessione de' miei complici».
Le guerre contro i Mori sono per occasione introdotte nel racconto di Procopio (Vandal. l. II c. 19, 23, 25, 27, 28. Gothic. l. IV c. 17); e Teofane aggiunge alcuni avvenimenti, prosperi ed avversi, che si riferiscono agli ultimi anni di Giustiniano.
Ora Tibesh nel regno d'Algeri. È bagnata dal fiume Sujerass, che cade nella Mejerda (Bagradas). Tibesh è tuttora osservabile per le sue mura di grosse pietre, simili a quelle del Coliseo di Roma, e per una fontana ed un boschetto di castagni: la contrada è fertile, ed i vicini Bereberi sono una guerriera tribù. Si chiarisce da un'iscrizione, che sotto il regno di Adriano, la strada da Cartagine a Tebeste, fu costruita dalla terza legione (Marmoll. Description de l'Afrique, tom. II p. 442, 443. Shaw's Travels, p. 64, 65, 66).
Procopio, Aneddoti, c. 18. La serie della storia affricana attesta questa malinconica verità.
Nel secondo (c. 50) e nel terzo libro (c. 1-40) Procopio continua l'istoria della guerra gotica dal quinto sino al decimoquinto anno di Giustiniano. Siccome gli eventi sono meno importanti che nel primo periodo, il suo racconto occupa metà dello spazio per un tempo del doppio maggiore. Giornande e la Cronica di Marcellino ci somministrano qualche altro lume. Il Sigonio, il Pagi, il Muratori, il Mascou ed il Buat porgono soccorsi di cui ho profittato.
Silverio, vescovo di Roma, fu da principio trasportato a Patara, nella Licia, e finalmente fatto morire di fame (sub eorum custodia inedia confectus) nell'isola di Palmaria, A. D. 538, mese di giugno (Liberat. in Breviar. c. 22. Anastasius, in Sylverio. Baronius. A. D. 540 n. 2, 3. Pagi, in Vit. Pont. Tom. I pag. 285, 286). Procopio (Aneddoti, c. 1) accusa soltanto l'Imperatrice ed Antonina.
Palmaria, isoletta che giace dirimpetto a Terracina, ed alla costa dei Volsci (Cluver. Ital. Antiq. 1. III c. 7 p. 1024).
Siccome il Logoteta Alessandro e la maggior parte de' suoi colleghi civili e militari erano caduti in disgrazia o in disprezzo, l'Autore degli Aneddoti (c. 4, 5, 18) non adopera colori molto più neri che nell'istoria Gotica (l. III c. 1, 3, 4, 9, 20, 21, ecc.).
Procopio (l. III c. 2, 8 ecc.) rende giustizia ampia e spontanea al merito di Totila. Gli storici Romani, da Sallustio e Tacito in poi, si compiacevano nel dimenticare i vizj dei loro concittadini, riguardando alle virtù dei Barbari.
Procopio, l. III c. 12. L'anima di un eroe è profondamente impressa in questa lettera, nè possiamo noi confondere tali atti genuini ed originali insieme con le elaborate e spesso vuote concioni degli storici Bizantini.
Procopio non dissimula l'avarizia di Bessa (l. III c. 17, 20). Questi espiò la perdita di Roma con la gloriosa conquista di Petra (Goth. l. IV c. 12): ma gli stessi vizj lo seguitarono dal Tevere al Fasi (c. 13); e l'istorico narra con egual verità i meriti e i difetti del suo carattere. Il castigo che l'autore del romanzo di Belisario ha inflitto all'oppressore di Roma è più conforme alla giustizia che all'istoria.
Durante il lungo esilio di Vigilio, e dopo la sua morte, la chiesa romana fu governata dall'arcidiacono, indi Papa (A. C. 555) Pelagio, il quale fu creduto non innocente dei mali sofferti dal suo predecessore. Vedi le vite originali dei Papi sotto il nome di Anastasio (Muratori, Script. rer. italicarum, tom. III P. 1 p. 130, 131. il quale narra varj curiosi accidenti degli assedj di Roma e delle guerre d'Italia).
Il monte Gargano, ora monte S. Angelo, nel regno di Napoli, si prolunga trecento stadj nel mare adriatico (Strab. l. VI p. 436), e nei secoli tenebrosi fu illustrato dall'apparizione, dai miracoli e dalla chiesa di S. Michele Arcangelo. Orazio, nativo di Apulia o Lucania, avea veduto le querce e gli olmi del Gargano, sbattuti e muggenti per la forza del vento settentrionale che soffiava su quell'alta costa (Carm. II, 9. Epist. II, I, 201).
Non posso determinare esattamente la posizione di questo campo di Annibale; ma gli alloggiamenti Punici stettero lungo tempo e spesso nelle vicinanze di Arpi (Tito Livio, XXII, 9, 12; XXIV, 3, ecc.).
Totila… Romani ingreditur… ac evertit muros, domos aliquantas igni comburens, ac omnes Romanorum res in praedam accepit, hos ipsos Romanos in Campaniam captivos abduxit. Post quam devastationem, XL aut amplius dies, Roma fuit ita desolata, ut nemo ibi hominum, nisi (nullae?) bestiae morarentur (Marcellin. in Chron. p. 54).
I Triboli sono ferri con quattro punte, una delle quali si pianta in terra, e le tre altre sorgono verticali od oblique (Procopio, Got. l. III c. 24. Giusto Lipsio, Poliorcete, l. V c. 3). La metafora è tolta dai triboli, pianta che produce frutti spinosi, comune in Italia (Martino, ad Virgil. Georg. I, 153, vol. II p. 33).
Ruscia, il Navale Thuriorum, fu trasferita in distanza di sessanta stadj a Ruscianum, Rossano, arcivescovato senza suffraganei. La repubblica di Sibari è ora una terra del duca di Corigliano (Riedesel, viaggi nella Magna Grecia e nella Sicilia, p. 166-171).
Questa cospirazione vien riferita da Procopio (Goth., l. III c. 31, 32) con tal ingenuità e candore, che la libertà degli Aneddoti non gli porge più nulla da aggiungere.
Gli onori di Belisario sono con piacere rammemorati dal suo segretario (Procopio, Goth. l. III c. 35; l. IV c. 21). Il titolo di Στρατηγος è mal tradotto, almeno in questa occasione, col praefectus praetorio; e trattandosi di una carica militare, sarebbe meglio dire magister militum (Ducange, Gloss. Graec. p. 1458, 1459).
Alemanno (ad Hist. Arcan. p. 68), Ducange (Familiae Byzant. p. 98) ed Eineccio (Hist. juris civilis, p. 434) rappresentano tutti tre Anastasio come figlio della figlia di Teodora; e l'opinione loro saldamente si appoggia sulla chiarissima testimonianza di Procopio (Aneddoti, c. 4, 5, θυγατριδω, due volte ripetuto). Tuttavia io farò notare, 1. che nell'anno 547, Teodora poteva difficilmente avere un nipote giunto alla pubertà; 2. che noi siamo affatto al bujo di questa figlia e del suo marito; 3. che Teodora nascondeva i suoi bastardi, e che il suo nipote dal lato di Giustiniano sarebbe stato l'erede presuntivo dell'Impero.
Gli αμαρτηματα, od errori dell'eroe in Italia e dopo il suo ritorno, sono manifestati απαρακαλυωτως, e più probabilmente ingrossati dall'autore degli Aneddoti (c. 4, 5). I disegni di Antonina erano favoriti dalla fluttuante giurisprudenza di Giustiniano: sopra la legge del matrimonio e del divorzio quest'Imperatore era trocho versatilior (Eineccio, Elem. juris civilis ad ordinem Pandect. P. IV n. 233).
I Romani erano tuttora affezionati ai monumenti dei loro maggiori; e secondo Procopio (Got. l. IV c. 22) la galera di Enea, di un solo ordine di remi, larga 25 piedi, e lunga 120, conservavasi intera nel Navalia presso il Monte Testaceo, ai piedi dell'Aventino (Nardini, Roma antica, l. VII c. 9 p. 466. Donato, Roma antica, l. IV c. 13 p. 334). Ma tutti gli autori antichi nulla dicono di questa reliquia.
In que' mari, Procopio cercò invano l'isola di Calipso. In Feacea o Corcira, gli fu mostrata la nave impietrita di Ulisse (Odyss. XIII, 163); ma egli trovò che era una fabbrica recente, composta di molte pietre, e dedicata da un mercatante a Giove Cassio (l. IV c. 22). Eustazio aveva supposto che fosse la fantastica rassomiglianza di una rupe.
Il Danville (Mem. de l'Acad. tom. XXXII p. 513-528) illustra il golfo di Ambracia; ma non può determinare la situazione di Dodona. Un paese che giace in vista della Italia è men conosciuto che i deserti dell'America.
Vedi gli atti di Germano nell'istoria pubblica (Vandal. l. II c. 16, 17, 18. Got. l. III c. 31, 32) e nell'istoria segreta (Aneddoti, c. 5); e quelli di suo figlio Giustino, in Agatia (l. IV p. 130, 131). Non ostante un'espressione ambigua di Giornande, fratri suo, Alemanno ha trovato che egli era figlio del fratello dell'Imperatore.
Conjuncta Aniciorum gens cum Amala stirpe, spem adhuc utriusque generis promittit (Giornande, c. 60 p. 703). Egli scrisse in Ravenna prima della morte di Totila.
Il terzo libro di Procopio termina colla morte di Germano (Add. l. IV c. 23, 24, 25, 26).
Procopio riferisce tutta la serie di questa seconda guerra gotica e della vittoria di Narsete (l. IV c. 21, 26-35). Splendido quadro! Fra i sei argomenti di poema epico che il Tasso volgeva in mente, egli esitava tra la conquista d'Italia fatta da Belisario e quella fatta da Narsete (Hayley's Works, vol. IV p. 70).
Ignota è la patria di Narsete, poichè non si dee confonderlo col Persarmeno. Procopio gli dà il nome di (Got. l. II c. 13) Βασιλικων χρηματων ταμιας, Paolo Varnefrido (l. II c. 3 p. 776) lo chiama Chartularius: Marcellino aggiunge il titolo di Cubicularius. In un'iscrizione sul ponte Salario egli vien chiamato Ex-Consul, Ex-Praepositus, Cubiculi Patricius (Mascou, Storia dei Germani, l. XIII c. 25). La legge di Teodosio contro gli eunuchi era caduta in disuso o abolita (annot. XX). Ma la sciocca profezia dei Romani sussisteva in tutto il vigore (Procop. l. IV c. 21).
Il Lombardo Paolo Varnefrido racconta con compiacenza i soccorsi, i servigi e l'onorevol congedo de' suoi paesani. Reipublicae Romanae adversus aemulos adjutores fuerant (l. II c. 1 p. 774, ediz. Grot.). Mi fa stupore che Alboino, guerriero lor re, non conducesse in persona i suoi sudditi.
Egli fu, se non un impostore, il figlio del cieco Zame, salvato per compassione ed allevato nella Corte di Bisanzio pei differenti motivi di politica, di generosità e di orgoglio (Procop. Persic. l. I c. 23).
Al tempo di Augusto e nel medio evo, tutto il territorio che si stende da Aquileja a Ravenna era coperto di boschi, di laghi e di paludi. L'uomo ha vinto la natura, e si coltivò la terra dopo che cacciate od imprigionate ne furon le acque. Vedi le erudite ricerche del Muratori (Antiquitat. Italiae Medii aevi, tom. I, dissert. XXI p. 253, 254) tratte da Vitruvio, Strabone, Erodiano, dai vecchi diplomi, e dalla cognizione de' luoghi.
La via Flaminia, secondo le correzioni del Danville, fatte dietro gl'itinerari e le migliori carte moderne (Analyse de l'Italie, p. 147-162), può determinarsi nel modo che segue: da Roma a Narni, 51 miglia romani; a Terni, 57; a Spoleto, 75; a Foligno, 88; a Nocera, 103; a Cagli, 142; ad Intercisa, 157; a Fossombrone, 160; a Fano, 176; a Pesaro, 184; a Rimini, 208; circa 189 miglia inglesi. Egli non parla della morte di Totila; ma Vesselingio (Itinerar. p. 614) in luogo del campo di Tagina mette l'incognito nome di Ptanias in distanza di otto miglia da Nocera.
Tagina, o veramente Tadina, vien ricordata da Plinio; ma la sede vescovile di questa oscura città, posta nella pianura distante un miglio da Gualdo, fu riunita nel 1007 a quella di Nocera. Si conservano i segni dell'antichità nei nomi dei luoghi, come Fossato (il campo), Capraja (Caprea), Bastia (Busta gallorum). Vedi Cluverio (Italia antiqua, l. II c. 6 p. 615, 616, 617), Luca Olstenio (Adnot. ad Cluver. p. 85, 86), Guazzesi (dissert. p. 177-217, che di ciò tratta ex professo), e le carte dello Stato ecclesiastico pubblicate da Le Maire, e Magini.
Avvenne questa battaglia nell'anno di Roma 458, ed il Console Decio, col sacrificare la propria vita, assicurò il trionfo della sua patria e del suo collega Fabio (Tito Livio, X, 28, 29). Procopio ascrive a Camillo la vittoria di Busta Gallorum; ed il suo errore vien impugnato da Cluverio col nazionale rimprovero di Graecorum nugamenta.
Teofane, Chron. p. 193. Hist. Miscell. l. XVI p. 108.
Evagrio, l. IV c. 24. L'inspirazione della Vergine rivelò a Narsete il giorno e la parola d'ordine della battaglia. (Paolo Diacono, l. II c. 3 p. 776).
Επι τουτου βασιλευοντος το πεμπτον εαλω. (Regnando lui presa cinque volte). Nell'anno 536 da Belisario, nel 546 da Totila, nel 547 da Belisario, nel 549 da Totila, e nel 552 da Narsete. Maltrate si è apposto male traducendo sextum; errore che egli ritratta in appresso: ma il male era fatto; e Cousin, con una mano di lettori francesi e latini, era caduto nell'inganno.
Si paragonino due passi di Procopio (l. III c. 26; l. IV c. 24), i quali, aggiungendovi qualche lume tolto di Marcellino e da Giornande, illustrano lo stato del Senato spirante.
Vedi, nell'esempio di Prusia, come trovasi nei frammenti di Polibio (excert. legat. XCVII p. 927, 928) un curioso ritratto di uno schiavo regale.
Il Δρακων di Procopio (Goth. l. IV c. 35) è manifestamente il Sarno. Cluverio ne accusa od altera con violenza il testo (l. IV c. 3 p. 1156); ma Camillo Pellegrini di Napoli (Discorsi sopra la Campania Felice, p. 330, 331) ha provato con antichi documenti che sia dall'anno 822 quel fiume chiamavasi il Dracontio, o Draconcello.
Galeno (De Method. Medendi, l. V apud Cluver. l. IV c. 3 p. 1159, 1160) descrive il sito elevato, l'aria pura ed il prezioso latte del monte Lattario, i cui benefici effetti erano egualmente conosciuti e ricercati al tempo di Simmaco (l. VI epist. 18) e di Cassiodoro (Var. XI, 10). Nulla or ne rimane, tranne il nome della città di Lettere.
Il Buat (tom. XI p. 2 ec.) fa passare in Baviera, suo prediletto paese, questo avanzo di Goti, i quali da altri vengono sepolti nei monti di Uri, o restituiti alla natia lor isola di Godlanda (Mascou, annot. XXI).
Io lascio che Scaligero (Animadvers. in Euseb. p. 59) e Salmasio (Exercitat. Plinian. p. 51, 52) contendano fra loro intorno all'origine di Cuma, la più antica delle colonie greche in Italia (Strab. l. V p. 372. Vellejo Patercolo, l. I c. 4), già quasi deserta al tempo di Giovenale (Satir. III), ed ora in rovina.
Agatia (l. I c. 21) mette la grotta della Sibilla sotto le mura di Cuma; egli in ciò si accorda con Servio (ad l. VI Aeneid.); nè io scorgo perchè l'opinione loro sia rigettata da Heyne, eccellente editore di Virgilio (tom. II p. 650, 651). In urbe media secreta religio! Ma Cuma non era ancor fabbricata; ed i versi di Virgilio (l. VI 96, 97) diverrebbero ridicoli, se Enea si trovasse in una città greca.
Avvi qualche difficoltà nel connettere il capitolo 35. del libro IV della guerra Gotica di Procopio insieme col libro primo dell'istoria di Agatia. Ci è forza ora lasciare uno statista ed un soldato per seguire i passi di un poeta e di un retore (l. I p. 11; l. II p. 51, ediz. Louvre).
Tra le favolose imprese di Buccellino si trova che egli sconfisse ed uccise Belisario, soggiogò l'Italia e la Sicilia, ec. Vedi, negli Storici di Francia, Gregorio di Tours (tom. II l. III c. 32 p. 203) ed Aimoino (tom. III l. II. De Gestis Francorum, c. 23 p. 59).
Agatia parla della loro superstizione con filosofico stile (l. I p. 18). A Zug, nella Svizzera, l'idolatria dominava ancora nell'anno 613. San Colombano e San Gallo furono gli apostoli di quel selvaggio paese; e quest'ultimo fondò un romitorio, che, crescendo, divenne un principato ecclesiastico ed una città popolosa, sede della libertà e del commercio.
Vedi la morte di Lotario in Agatia (l. II p. 38) ed in Paolo Varnefrido, soprannominato il Diacono (l. II c. 3 p. 775). I Greci lo fanno divenir frenetico e mangiarsi la propria carne. Egli avea saccheggiato le chiese.
Il P. Daniele (Hist. de la Milice françoise, t. I p. 17-21) ha fatto di questa battaglia una descrizione a capriccio, alquanto nel genere del cavaliere Folard, l'editore una volta famoso di Polibio, il quale accomodava, a norma delle sue abitudini ed opinioni, tutte le operazioni militari dell'Antichità.
Agatia (l. II p. 47) riferisce un epigramma greco di sei versi sopra questa vittoria di Narsete, che favorevolmente vien paragonata alla battaglia di Maratona e di Platea. La differenza principale, a dire il vero, sta nelle conseguenze loro: – così triviali nel primo caso – così durevoli e gloriose nel secondo.
In cambio del Beroi e del Brincas di Teofane o del suo copista (p. 201) si dee leggere ed intendere Verona e Brixia.
Ελιπετο γαρ οιμαι, αυτοις υπο αβελτελτεριας τας ασπιδας τυχον και τα κρανη αμφορεως οινου βαρβιτου αποδοσθαι. «Rimanea solo, io penso, alla loro stoltezza, il contrattare scudi e cimieri con fiaschi di vino, e con chitarre». (Agatia, l. II p. 48) Nella prima scena del Riccardo III, Shakespeare ha bellamente amplificato questa idea di cui probabilmente non andava obbligato all'istorico Bizantino.
Il Maffei ha provato (Verona illustrata, P. I l. X p. 257, 289), contro l'opinione comune, che i Duchi d'Italia furono instituiti avanti la conquista dei Lombardi dallo stesso Narsete. Nella Sanzione Prammatica (n. 23), Giustiniano ristringe gli iudices militares.