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La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I

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La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I / Conferenze fiorentine – Storia

Invece di Prefazione

Queste Letture Fiorentine su la Vita italiana nei vari secoli, iniziate ott'anni sono, a cura d'una Società di gentiluomini1, hanno fin qui ottenuto una grande e non immeritata fortuna. Per sei anni consecutivi ebbero la signorile ospitalità d'uno di quei nostri palazzi, in cui la gentilezza e il buon gusto son domestica gloria, e presero nome di «Conferenze del Palazzo Ginori»; poi quando il cresciuto favore crebbe altresì il numero delle ascoltatrici e degli uditori devoti, convenne alla Società mutar sede. E la fortuna le fu novamente propizia nell'ottenere ospitalità in un altro palazzo, quasi di fronte a quello Ginori, in una sala già famosa per antiche letterarie adunanze, adornata dal pennello di un geniale pittore. Il Palazzo Riccardi e la Sala di Luca Giordano, offerta con premurosa cortesia dalla Deputazione Provinciale, sempre amica agli studii, videro crescer nell'inverno e nella primavera del 1896 e del 1897 il numero dei fedeli a queste letture, per le due ultime serie, quella sulla vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero, e l'altra che or vede la luce sui primi quindici anni del Risorgimento italiano. Soggetti attraentissimi, trattati con l'usata maestria da' lettori più noti e pregiati, ormai familiari al nostro uditorio, e ai quali si aggiunsero nuovi e valorosi oratori anche per riempire i vuoti che nell'eletta schiera ha pur troppo fatto la morte, togliendoci due cari e indimenticabili amici: Enrico Nencioni e Diego Martelli. E di questi l'opera e l'ingegno commemorava con caldezza d'affetto e felice eloquenza, Enrico Panzacchi preludendo al corso di quest'anno con la conferenza sul Romanticismo che sarà pubblicata nel terzo volume.

Il periodo assegnato alle ultime conferenze che toccano di eventi a noi più vicini, è senza dubbio il più curioso e importante; anche perchè questa recentissima storia, che abbiam visto quasi svolgersi sotto gli occhi nostri, è ne' suoi particolari, nelle sue ragioni politiche, ne' suoi documenti men nota. La Società di pubbliche letture, cui da prima convenne affrettarsi nel suo cammino per non indugiarsi ne' secoli più tetri della vita italiana, poi che vide di aver in gran parte colorito il vagheggiato disegno, pensò di svolgere con maggiore larghezza questo periodo del Risorgimento dividendolo nei suoi momenti storici principali, di cui piantò i contrassegni Giosuè Carducci; negli anni di contrasto, di confusione, di aspettazione che arrivano fino al 1830, e in quelli di ravviamento, di svolgimento, di risolvimento che vanno dal 1831 al 1870.

Anche le piacque tentare un'altra novità, e chiamare letterati stranieri che avessero a parlare di certi argomenti una particolare competenza, procurando così quello scambio di opinioni e di idee che giova nella storia a serbare la serenità dei giudizi, affinchè l'opera, che esce da queste conferenze, viva e feconda, e si perpetua nel libro letto e cercato nei salotti, nelle scuole, da' giovani, dalle gentildonne, in Italia e fuori, non sia panegirico di vuota rettorica, ma offra de' tempi, de' casi, degli uomini, un quadro animato e veritiero. Perchè il segreto del favore onde le Conferenze fiorentine sono accolte, quando si pubblicano per le stampe, e quello dell'efficacia che ormai hanno e possono avere sulla cultura nazionale, in due cose consiste: nel nesso ideale che le congiunge, e nell'aver reso piacevole la storia, invitando a trattarne quanti sanno renderne più facile l'intelligenza, e più attraente la narrazione.

Ricordo un desiderio del Giusti: quello d'esser delle più difficili questioni addottrinato da persone competenti, che le cose più astruse spiegassero senza sussiego, con quella semplicità onde si discorre tra amici a fin di tavola. Allora, quando il Giusti scriveva, le «conferenze» non erano state inventate, per soddisfare appunto cotesto desiderio d'imparare senza fatica e senza perdita di tempo. Imparare? E perchè no, se gli uomini più illustri non disdegnano, anzi ricercano, di farsi ascoltare dalle uditrici della Sala di Luca Giordano, e se gl'immortels dell'Académie Française tengono ad onore sedere su quella poltrona di damasco rosso, che ha ormai sentito il peso di tutta la scienza e la letteratura italiana?

La Società di letture, fatta certa del favore onde fu accolto il suo disegno, non pensa di disertare il campo, fra tre o quattr'anni, quando il programma della prima serie sulla Vita Italiana sembri compiuto. Essa si propone di continuare nel suo assunto, poichè il pensiero che lo inspirava ha superato una difficile prova: quella di pigliar la forma d'un libro che si fa leggere.

Guido Biagi.

LA GENESI STORICA DELL'UNITÀ ITALIANA

CONFERENZA
DI
ISIDORO DEL LUNGO

I

Altezze Reali 2,

Signore, Signori.

Sul cader dell'autunno del 1852, un italiano ritirato a Parigi moriva nottetempo, solo, in un modesto quartierino da studente. Era il triste decennio che successe alla caduta delle speranze italiane; e sei anni ancora dovevano passare, sei anni d'indecoroso servaggio, di aspirazioni mal represse, di angosciose trepidazioni, prima che i patimenti della patria nostra si accogliessero, da regione a regione, in quel grido di dolore che sulle labbra del Primogenito di Carlo Alberto fu squillo di guerra, della guerra trionfale per la giustizia e per la libertà. Sopra il letto di quel glorioso solitario, da ambasciatore del suo Piemonte fattosi esule e restituitosi banditore dei nazionali destini, due libri si trovarono aperti, i due ultimi a cui fossero consacrate le veglie di quella gran mente: i Promessi Sposi, l'Imitazione di Cristo. Il filosofo che le ragioni del diritto italico congiungeva con le funzioni provvidenziali dei popoli nella cristiana civiltà; lo scrittore che nella parola italica cercava il suggello indelebile della nazione; ebbe da que' due libri immortali le visioni alla mente, le ispirazioni al cuore, supreme; ebbe l'affidamento delle magnanime speranze per la patria terrena, delle speranze cristiane nella divina finalità. Su quella «deserta coltrice» scendevano dall'alto alla morte di Vincenzo Gioberti consolazioni degne.

La vita di quell'uomo fu tutta una contemplazione in ispirito, e un apostolato in azione, della potenziale e attuale grandezza della patria italiana. Di vocazione sacerdote e filosofo; per abito d'ingegno e vigoria di spiriti, divulgatore d'idee; integratore e innovatore negli ordini morali e civili, con larga e razionale comprensione storica dai loro ideali principii all'auspicato avvenire; il Gioberti segna nella storia del pensiero italiano il compiuto svegliarsi della coscienza nazionale, che, dal Parini evocata, si era con l'Alfieri, quasi sobbalzando, riscossa. E come questo riscuotersi fu violento e convulso, così quello svegliamento veniva a diffondersi in una specie di estasi, i cui fantasmi, le idealità del Primato, erano sovrapposizioni luminose a quel «vero» che, secondo il concetto dantesco, si sogna «presso al mattino.» Ma il mattino era l'età nuova d'Italia; e il vero, la realtà destinata, di quei sogni augurali era il rinnovamento civile d'Italia, sotto l'egemonia politica del Piemonte guerriero e dinastico, e ne' santi auspicii dell'unità della Patria.

Il Gioberti, che aveva veduto svanirsi dinanzi agli occhi, nel vorticoso turbine delle contingenze mondane, le splendide fantasie del Primato, non sopravvisse alla profezia di quel Rinnovamento, del quale designò, con la lucidità d'un veggente biblico, in Vittorio Emanuele e in Cammillo Cavour gli eroici iniziatori. Ma il nome di lui è con que' due nomi indissolubilmente congiunto; mentre poi, nella storia dei nostri fatti e del nostro pensiero, egli è quello che, mediante il largo avvolgimento delle sue sintesi, conserta i tempi nuovi dell'Italia che tra il 1815 e il 1870 ha compiuta la sua laboriosa evoluzione, con le età precedenti, durante le quali l'evo barbarico e medio, i Comuni e le libertà, i Principati e le domestiche o straniere servitù, contengono di quella Italia e trattengono i germi.

Che se verso quel fortunoso passato un altro nobilissimo e vigoroso pensatore subalpino, Cesare Balbo, spinse più addentro, con pazienti e sagaci analisi, l'acume della ricerca storica, e si studiò di rannodare le memorie d'Italia con le speranze, il termine ultimo a cui queste per impulsione provvidenziale si spingevano; fu tuttavia il Gioberti che di grado in grado lo attinse, e lo determinò, e lo additò con sicuro intuito alla generazione che sorgeva quand'egli, adempiuti in breve spazio gli uffici di una lunga vita, scendeva nel sepolcro. Tale testimonianza è doveroso rendergli oggi noi, che posseditori di fatto della unità della patria, ci accorgiamo aver già bisogno di ravvivarne le generose idealità, e che i giovani abbiano presente da quali vicende preparata e disposta, a quale susseguita irrequieto alternarsi di condizioni di fatto deficienti d'un diritto supremo e reale, da quali contrasti emersa, l'unità di nazione abbia finalmente coronata di legittima corona la storia d'Italia.

Fra le letture di quest'anno sul Risorgimento italiano, non Vi dispaccia che una, ed è questa mia, rimonti pe' tempi, e rannodi e rattesti con l'antica storia della patria italiana l'ordine nuovo di cose, che ha trasformate le relazioni nostre con le altre nazioni, integrando il diritto, iniquamente impeditoci, d'essere una di esse. La genesi storica dell'unità italiana, che io mi studierò di tracciar sommariamente nella breve ora concessami, dimostra che l'unità nella quale l'Italia oggi si afferma ed è, non ce l'hanno data gl'impeti della rivoluzione, nè i maneggi delle sètte, nè le espansioni d'un'ambizione dinastica; ma che ad essa per lento e involuto procedimento hanno dovuto far capo, col non fermarsi mai in nessun'altra forma organica e sospinti sempre dalla coscienza del pensiero italiano, gli elementi costitutivi della nostra nazionalità.

Il tema, come vedete, esce alquanto, da capo e da piedi, fuor de' limiti cronologici delle Conferenze di quest'anno, proponendomi io, fra la Vita italiana dei passati secoli e il Risorgimento italiano, dal quale avrà nella storia titolo d'onore il secolo nostro, disegnarvi come una linea di congiunzione, i cui estremi risalgono e discendono, fuori di quei confini, necessariamente. A ogni modo, se riuscirò a cattivarmi, come altre volte, la vostra attenzione benevola, meglio avere sconfinato non dispiacendovi, che se vi avessi, dentro i confini dal 15 al 31, fatta parer lunga o vuota quest'ora del 97 che mi fate l'onore di passare con me.

II

La tesi della tradizione unitaria (com'è stata chiamata in lodati studi di questi ultimi decennii), della tradizione unitaria nella storia d'Italia, è una di quelle che richiedono, ad essere tenute ne' loro veri termini, la maggiore indipendenza di spirito da ogni, sia pur generoso, preconcetto ideale, come la maggior cautela contro o le gretterie d'una critica troppo materiale e letterale ai fatti, o le negazioni passionate e partigiane. Che innanzi al decennio dal 1861 al 1870 la unità non soltanto politica, ma anche la storica, o etica che voglia dirsi, sia mancata, la prima sempre, la seconda quasi sempre, nella vita reale ed effettiva di quella che per l'idioma è pur da dieci secoli la nazione italiana, apparisce innegabile. Che, d'altro lato, la figura della unità nazionale abbia balenato; sia dai fatti, nel loro atteggiarsi e connettersi; sia in idea, o a menti elette di pensatori, o alla ispirata fantasia di poeti, o al sentimento magnanimo di cittadini operanti; si comprova positivamente senza sussidio di interpretazioni. Ma accettata l'una cosa e l'altra, rimane a vedersi come questo disgregato procedimento di quasi altrettante storie; quante le regioni che il dialetto e la geografia fisica ha differenziate, e quante altresì le energie di Comune vivacissime e contrastanti nel seno stesso di ciascuna regione; abbia, questo procedimento, pur fatto capo all'unità: e non per violenze di conquista, nè per isforzamento settario contro la volontà e l'acquiescenza dei più, ma vi abbia fatto capo siccome ad una suprema necessità di diritto e di fatto, ed inoltre siccome ad una giustizia dinanzi alla quale debba inchinarsi chi voglia conservar fede in una Provvidenza che prepara e indirizza a destinati termini le cose umane.

III

Conquistata, più faticosamente che tutto il resto del mondo, dalla predestinata fra le città sue ad essere, di civiltà in civiltà, l'urbe mondiale; l'Italia, che da questa sua figlia superba, Roma, non aveva potuto avere una unità latina, vi si trovò (strano a dirsi) più prossima, dopo che il giardino peninsulare, dalle valli gallo-padane alla costiera greco-italica, venne a mano dei Barbari, che vi eseguivano ferocemente le vendette della umanità conculcata. Da Teodorico a Carlo Magno, la storia di cotesti Barbari, che con Odoacre avean rovesciato il simulacro d'Impero rimasto a Roma disfatta, è pure, ciò che non era mai stata la storia dell'Impero, una storia d'Italia; e la gesta Gotica, e la rivendicazione Bizantina, e il poderoso regno Longobardico, hanno sempre per obietto e subietto, sia regno, sia esarcato, siano ducati in vincolo di regia signoria, hanno, dico, per loro base, uno stato e dominio italiano. È quindi fatalmente logico, che col restaurarsi dell'Impero d'Occidente, tale condizione di cose, nata dalle rovine di quello, si muti: sotto il quale rispetto, la caduta dei Longobardi, quando anche si giungesse a provare che le loro relazioni con le plebi latine furono assolutamente di tiranni verso schiavi, riman tuttavia la caduta d'una forza, assimilatrice, fosse pur violenta, di elementi italiani a costituire nazione italiana. Catastrofe degna, invero, che il più grande Poeta nostro di questa età ripensatrice del passato, il Manzoni, vi abbia esercitate sopra le mirabili facoltà dell'acume suo critico, per circondarla poi di tanta pietà, quanta emana dalla virtù guerriera di Adelchi, dalle cocenti lacrime del vecchio re tradito e consegnato, dalla perdonatrice agonia della ripudiata Ermengarda.

Carlo Magno restaura nominalmente l'Impero, e instaura effettivamente il Papato politico: e condanna l'Italia a neanche pensare l'unità sua di nazione: subordinare il concetto della libertà ai diritti supremi di cotesto Impero ideale; di cui addiviene «il giardino», ma non la casa; e la propria indipendenza tollerare mescolata alle vicende di esso e alle relazioni di esso coi Pontefici, diventati per donazione, questa volta non fittizia pur troppo (sebbene mal definita e sin da principio litigiosa), sovrani in Italia, senza ch'e' possano mai, perchè obbligati al loro universal magistero affermarsi ed operare da sovrani italiani. E da Carlo Magno, attraverso a quella sua fantasmagoria di Regno Italico associato alla dignità Imperiale, e poi per gli Ottoni, gli Svevi, gli Asburgo, i Lussemburgo, gli Austriaci, sino a Carlo V, l'Impero e il Papato politico sovrastanno alla vita italiana di ben sette secoli; lungo i quali la evoluzione del Comune, feconda di operosità sociale, splendida di rinnovata civiltà, si compie energicamente, e si dissolve nei Principati, senza che nessuna delle maggiori Repubbliche, nessuna di quelle ambizioni comitali o durali, nessuna di quelle avventure di regia conquista dopo che sul cadere del secolo XV l'Alpe è dischiusa novamente alle armi straniere, raccolga intorno a sè in un concetto o in un proposito, foss'anche solamente d'una lega nazionale, l'Italia. Vengono sì a questa Italia i Cesari tedeschi a cingervi la corona di Roma: ma una corona storica: poichè l'«alma Roma» è diventata in realtà «il loco santo» dove il Papa incoronatore pontefica e, non senza contrasti anche sanguinosi, signoreggia e regna: e Cesare e Papa, sovrani e signorie regionali comunali, ciascuno procacciante per sè, sono, rispetto all'italianità della penisola, altrettante forze negative, il cui positivo resultato è che una Italia non sia. Non sia: mentre fra i contrasti di coteste forze, nell'esercizio delle quali è trasferita e dispersa la legittima virtù dell'esser suo di nazione, tuttavia si contesse l'istoria d'Italia: atteggiandosi spesso il Papato politico a propugnatore di diritti italici, e talvolta l'Impero accennando a voler essere, non una nominalità, bensì una cosa, italiana: ma in effetto ambedue le istituzioni subordinando ciascuna all'immanente interesse proprio queste mutabili contingenze della loro politica. Così nella rivendicazione che le città della gloriosa Lega lombarda fanno dei loro diritti contro l'Impero ferocemente invasore, Alessandro III benedice le loro armi contro il comune nemico: ma appena riconciliato col Barbarossa, abbandona i vincitori di Legnano, che la pace di Costanza restituirà fedeli al Cesare inutilmente vinto. Così Innocenzo III seconderà l'impresa italica di Ottone IV, favorirà altresì fino ad un certo segno le libertà dei Comuni; ma l'una cosa e l'altra sottoponendo a quel preconcetto di teocrazia, che iniziato vigorosamente dall'austero e virtuoso Gregorio VII, non sarà da Innocenzo sospinto alla massima altezza, che per finire, non ancor passati cent'anni, nelle mondane macchinazioni di Bonifazio VIII tanto ignobilmente, quanta è la distanza morale che disgiunge il trionfo di Canossa dallo sfregio d'Anagni. Che se guardiamo agli imperatori, e propriamente ai tre che soli, forse, ebbero ed accettarono dai fatti occasione ed impulso a favorire in Italia un assetto politico nazionale, Ottone IV, Federigo II, Arrigo VII, l'opera loro, ove ben si consideri, non assunse mai il carattere d'una obiettiva costituzione delle cose italiane, qualunque dovesse poi o potesse essere la forma del reggimento; ma fu piuttosto un destreggiarsi tra la fazione loro imperiale e quella chiesastica, con intenzioni più o men generose verso la libertà popolare. Le quali buone intenzioni certo non mancarono nemmeno ad alcuni Pontefici; però fatalmente negli uni e negli altri, pontefici o imperatori, vincolate a ciò: che quel doppio diritto pontificio e cesareo si sovrapponesse al fatto, di per sè non giuridico, dell'esserci questa Italia, le cui cittadinanze, mal compaginate di elementi latini e barbarici, travagliate fra impossenti grandigie feudalesche e irrequiete democrazie, gran mercè se avessero balìa d'insanguinare con le loro discordie le bandiere, neanch'esse italiane, anzi mancipate esse pure o all'Impero o alla Chiesa, le bandiere malaugurate di Ghibellino e di Guelfo.

Quando poi dai Comuni, pel gradino delle Signorie, si ascese ai Principati, l'una e l'altra delle due grandi Potestà politiche preoccupanti le funzioni vitali dell'organismo italiano, si trovarono a molto miglior agio per maneggiare e patteggiare le respettive ambizioni. E d'allora in poi l'Impero tradizionale si straniò sempre più dall'Italia, ma sanzionando e convalidando i Principati che a ventura se la spartivano, ed esso rimanendo come quasi un padrone locatore di questa sua ideale proprietà. Nei Pontefici poi fermentarono sempre più acremente i maligni umori, pei quali sullo spirituale prevalse il politico o, a dirlo con appropriata parola, la mondanità: la mondanità che rinnegava il santo vangelo di Cristo – non essere di questo mondo il suo regno – ; la mondanità, che cooperò all'annullamento di quel grande moto di civiltà cristiana, che vollero, e avrebber potuto, essere le Crociate; la mondanità, che dopo aver cagionato Avignone e lo scisma d'Occidente, segnò il ritorno della sede pontificia al legittimo centro della cattolica civiltà. Roma, lo segnò e lo disonorò con le spedizioni di sanguinarii Legati per tutta Roma-magna: in quella Romagna dove un secolo appresso il duca Valentino avrebbe, condegnamente al padre suo papa Borgia, menata la infausta gesta del poter temporale, e Giulio II avrebbe sfruttato, a solo benefizio di questo malaugurato potere, il nobilissimo sentimento della nazionale indipendenza. Infausto il poter temporale, alla Chiesa, poichè assorbiva in una signoria del tutto secolaresca le aspirazioni teocratiche, che, se non evangeliche, erano state almeno sacerdotali: infausto all'Italia, nella quale cotesto fatto suggellava la impossibilità di essere nazione una ed intera; pregiudicandosene poi immensamente la religione, in quanto si mescolavano le cose dello spirito e gl'interessi materiali, con scandalo delle anime pie e dei più nobili intelletti. E lo scandalo addivenne presto una irreparabile calamità della Chiesa, quando nello splendido pontificato mediceo di Leone X dilagata la corruzione, se ne rompeva con la Protesta nordica l'unità religiosa, che lo Scisma orientale aveva già lacerata.

E intanto la barbarie Musulmana, invano deprecata dall'ultimo e quasi postumo Papa Crociato, il buono e magnanimo Pio II, si era insediata minacciosa di qua dal Bosforo, calpestando le ultime realtà dell'Impero latino e cristiano: la barbarie Musulmana: questa sozza, che troppo lungamente si è poi alimentata di sangue cristiano… e di egoismo europeo. Fra la Protesta di Lutero e a pochi anni di distanza l'Assedio di Firenze: fra il papato di Leone e l'altro quasi immediato papato mediceo di Clemente VII, alle cui mani le orde imperiali rinnovano col Sacco di Roma le geste dei Goti e dei Vandali; patiscono gli estremi danni, degnamente congiunte, le due divine animatrici di tanta italiana grandezza nell'età dei Comuni, la fede e la libertà. Il rogo del Savonarola, che ha sperato di salvarle insieme, illumina sinistramente la loro rovina, e investe di sanguigni riflessi la corona dei Cesari che papa Clemente pone sul capo di Carlo V, il gran bargello d'Europa; corona consacrata da mani fatte a ciò degne pel consumato matricidio fiorentino! Oggi cotesti due pontefici, Leone e Clemente, riposano l'uno dirimpetto all'altro nella Minerva di Roma: ma l'urna che in mezzo ai due monumenti superbi custodisce alla pia ombra dell'altare le ossa verginali di Caterina senese, l'eroina dell'amore e della carità, che ben altro sperò alla fede di Cristo riconducendone da Avignone a Roma i vicarii, cotesta urna in mezzo a quelle due statue, inchiude la più acerba condanna che, in nome di tuttociò che è santo, possa aggravarsi sul papato mondano e politico.

Con la caduta della libertà d'Italia, e la consegna di lei schiava e mutilata nelle mani dei non aventi, dinanzi all'eterna giustizia, alcun diritto su lei, la storia de' suoi Popoli cessa per non essere più che la storia de' suoi Stati. E possiamo dire de' suoi Principi: e principi stranieri più o meno, o portati o retti dallo straniero: senza che facciamo grande torto al poco, e non bene, sopravvissuto di Stati repubblicani: sol che si rilevino (oltre quella, tutta a sè, dello Stato Ecclesiastico) due eccezioni gloriose: – una grande Repubblica, Venezia, cui l'intendimento all'Oriente alienò, ne' secoli suoi vigorosi, da qualsiasi egemonia italica; e che, rinchiusa nel suo aristocratico pomerio, fu distrutta di lenta decrepitezza anche prima che d'un colpo a tradimento finita; – e un Ducato alpigiano, domestico retaggio di valorosi, che bilanciate alcun poco le proprie aspirazioni fra il di là e il di qua de' suoi monti, si affermava risolutamente italiano, quando appunto addosso all'Italia si aggravò la servitù: e sulla fronte di quei Duchi la corona di Re era predestinata a divenire la corona popolare d'Italia.

Ma prima che ciò fosse, doveva l'Italia discendere tutta intera la via dolorosa della politica decadenza, sino all'annientamento suo in espressione geografica, terra di morti, nazione da carnevale, paese (tutt'al più) dove i poeti venissero a veder fiorire il cedro e l'arancio, il mirto e l'alloro: dovevano i suoi Stati esser ridotti alla condizione di merce quotabile e permutabile nel mercato della diplomazia europea: dovevano, non per la gloria del nome italiano, ma per la vita nostra utile di nazione, andar frustrati e dispersi il lavorio scientifico sperimentale del secolo XVII; il movimento di civili e sociali riforme del XVIII, che anticipava negli ordini ideali la rivoluzione francese; e finalmente, doveva non essere per l'Italia che una fuggitiva luminosa meteora il grande travolgimento napoleonico: nel quale però il braccio italiano si ritemprava alle armi, e il Regno italico non rinnovava soltanto una memoria od un nome che suona nazione, ma rifioriva senno e operosità di cittadinanza cosciente, e la corona di Monza cingeva, per que' pochi anni di gloria e di ebra violenza, la fronte cesarea dell'abolitore del Sacro Romano Impero.

Col secondo decennio del secolo che ora tramonta, e propriamente con l'infausto 1815, il ribadimento delle imperiali catene trisecolari, la servitù dei popoli concordata in Santa Alleanza dalle Potenze, la sanzione del Pontefice, restaurato re, a quest'altra riattiva violenza, furono i provvidenziali flagelli, sotto il cui stimolo la coscienza nazionale si svegliò finalmente, per non assopirsi più mai. Ammaestrava gl'Italiani tutto un passato d'illusioni, di sventure, di errori, di colpe, dominato fatalmente dalla bugiarda idealità dell'Impero, che subordinando l'Italia ad una sopravvivenza nominale di Roma pagana, aveva insieme e impedito la sua personalità reale di nazione moderna, e soggettata la Chiesa di Gesù alle funzioni d'un ministero essenzialmente politico. Ammaestramento che era sublimato dalle eroiche prove, confermato dalle repressioni sanguinose, consacrato dal martirio: le fosse dello Spielberg, le forche di Modena, i Bandiera fucilati a Cosenza, preparavano l'era nuova d'Italia. Il moto dei popoli sforzava la coscienza dei principi: e la prima guerra d'indipendenza, che si svolge tra la benedizione del Pontefice piamente ribelle, per breve ora, all'Impero, e il sacrifizio del Re che, devoto al patto giurato, non abbandona il campo dell'ultima battaglia che per cercare l'esilio di Oporto; quella prima guerra, in cui tutta Italia, se non ancora con le armi, ma coi cuori, combatte; alla quale Milano dà le cinque giornate, Toscana i giovanetti veterani di Curtatone e Montanara, Messina Venezia Roma gli assedii gloriosi, Palermo e Bologna i vittoriosi impeti del braccio plebeo, Brescia lo strazio de' suoi eroici insorti, Napoli le sue galere nobilitate dal fior dell'ingegno e del cuore, e il Piemonte tutto sè stesso: quella guerra, di nazione e di popolo, annunzia al mondo che l'Italia ha finalmente ritrovato il vero esser suo. La sconfitta delle armi è vittoria dell'idea: lo spergiuro dei Principi, legittimi per convenzione diplomatica, ma non nel diritto storico della nazione, toglie di mezzo il generoso equivoco di quel primo movimento: e la questione italiana, imposta ormai alla vecchia tenace Europa di Carlo V e di Metternich, la questione italiana maturata con ben altri auspicii nel decennio di preparazione alla guerra seconda, trionferà in questa e nelle sue conseguenze, e trionferanno con essa il diritto e la civiltà. Nel marzo del 1861 l'Italia, nel suo primo parlamento, proclama il suo Re e la sua capitale. E quando l'Emanuele della nazione mancherà, innanzi tempo, ai destini di lei rivendicata e costituita, non ne accoglieranno la salma lacrimata i sotterranei dell'avita Superga, ma il Pantheon d'Agrippa, il grande monumento imperiale, darà in Roma cattolica la tomba legittima all'unificatore d'Italia: legittima in Roma, e non altrove che in Roma, al cui nome politicamente abusato fu incatenata per secoli, con doppia catena, la statuale esistenza d'Italia e la sua unità di nazione.

Se l'alba d'un lieto giorno spunterà mai, che annunzi conciliate, nell'augusta serena libertà del pensiero, le energie della fede e della scienza verso il divino ignoto che, volenti o ribelli, consapevoli o ignari o dimentichi, ci predomina tutti; quel giorno incoroneranno quella tomba i fiori d'una primavera italica, che noi non siamo destinati a vedere; e la civiltà umana, novellamente attratta verso la cosmopoli eterna, segnerà forse dall'unità d'Italia un nuovo ordine di secoli, nel quale sia restituita ai popoli anche la consolatrice unità del consentire almeno in una speranza non offuscata da vapori mondani.

IV

Ma questa unità d'Italia, che si è svolta latente, avanzando sempre per progressi e regressi, finchè, giunta l'ora sua, si è rivelata come il termine destinato e non removibile, al quale, e solo a quello, si doveva arrivare; questa unità, che già da secoli sarebbe stata l'ordine, quando gli elementi dell'organismo nazionale si attraevano per natura, e per contingenza si respingevano; sarebbe stata la pace, quando le discordie bruttavano di sangue fraterno le nostre contrade; sarebbe stata la forza, quando gli stranieri vi calavano alla preda; la unità nazionale fu, siccome quella necessità che era, fu ella intuita da quel grande anticipatore dei fatti umani, che è l'umano pensiero? fu, in quel doloroso secolare problema di «essere o non essere» che pareva sciogliersi col «morire, dormire… null'altro», fu ella il sublime «sognare forse» con che Amleto riattacca il filo della vita? sorrise la unità nostra alla fantasia di quei profeti delle nazioni, che sono i grandi poeti? suscitò, prima del secol presente, alcuni di quei generosi tentativi, la cui vittima trasmette all'avvenire, con la vendetta, la riuscita? A queste domande fu risposto con più d'una di quelle diligenti e sottili analisi che caratterizzano gli studi nostri in questo scorcio di secolo; e che a me, nel conferire, gentili Signore, con voi, altra parte non lasciano che di condensarne in breve tratto le conchiusioni somme, e lumeggiarne qualche figura.

Quella «umile Italia», che i compagni d'Enea salutano, nel verso di Virgilio, dall'alto mare, come la meta della venturosa peregrinazione in cerca d'una patria seconda; e che nel verso di Dante accomuna gli eroi della guerra laziale, «Camilla Eurialo Turno e Niso», coi nuovi destini italici, che il Poeta dei Guelfi Bianchi augura dalla ricacciata della negra Lupa curiale nell'inferno per opera del Papa Angelico che il Medio Evo inutilmente aspettò; è, quella Italia de' due sacri poeti di nostra gente, è, ben dessa, la figura d'una patria unica, che si sposò fedelmente alle immaginazioni di quanti, con dolente pietà di figliuoli o con fierezza di propugnatori del materno diritto, han poetato di patria nella lingua del sì. Patria unica, che si sovrapponeva idealmente alle condizioni di fatto della penisola italiana. Dante, che sollecita l'Imperatore a «drizzare Italia», e compiange che non sia ancora a ciò «disposta» questa «Italia, serva» non tanto, per allora, di genti straniere, quanto della guerra intestina che «intorno dalle prode delle sue marine», e nel «seno» suo, la diserta: – il Petrarca, che su «le piaghe di quel bel corpo» sospira, e vuol essere interprete delle «speranze» che dalle rive del Tevere, dell'Arno, del Po congiuntamente si levano a Dio: – l'Ariosto, che impreca alla calata delle «Arpie» straniere sulle mense d'Italia, invocando il giorno ch'ella richieda ai «figli neghittosi» la sua libertà: – il Tasso che vagheggia la unione delle «voglie divise e sparse» da tutto il paese che «i monti e i fiumi» dividere non possono, perchè «quel che partì natura, amor congiunge»: – e nello sfacelo d'Italia lungo il Cinquecento fatale, la voce d'un virtuoso prelato, il Guidiccioni, che in nobilissimi versi consacra al medesimo rimpianto la violata libertà nazionale e il disonor dell'Impero e la fede pericolante di Cristo: – e poi, nell'aggravarsi della servitù e della decadenza, i cortigiani stessi di quei principati sotto tutela, levarsi contro la obbrobriosa tirannide iberica, e convertire come il Tassoni la poesia giocosa in filippiche per il conculcato diritto d'Italia, e volgersi con arcano presentimento a un Duca irrequieto e valoroso di casa Savoia, Carlo Emanuele I, che risponde ancor egli con versi italiani: – e da quelle medesime aule, sia di corte sia d'accademia, qualche alata apostrofe di retorica generosa, o sulla culla d'un Principe pur di cotesta Casa acclamare col Manfredi «Italia, Italia, il tuo soccorso è nato», o deplorare nel sonetto del Filicaia la «funesta bellezza» che le ha tirato addosso, con le straniere cupidigie, la condanna di «servir sempre o vincitrice o vinta»: – finchè l'Alfieri, prenunciatore della libertà che si approssima, dedichi l'opera sua tragica e fatidica «al popolo italiano futuro»: – è tutta, insomma, una non interrotta comunicazione come di una sacra parola, di secolo in secolo, da Dante all'Alfieri, la quale attesta e proclama una Italia, che impedita d'essere nel fatto, vive, come nel decreto divino, così nel cuore e nella fantasia de' suoi fedeli poeti.

E non per questo diremo che la poesia d'Italia fosse una cospirazione a conseguire in effetto l'unità politica della patria italiana; tradurre in atto, con determinati mezzi e deliberata intenzione, quel sentimento italico che empiva i petti e li dilatava in un'aspirazione generosa, o vibrava nei raggi luminosi della visione poetica. A noi, che scendiamo ormai la curva del mezzo secolo nella vita civile della patria costituitasi libera ed una, non si addicono davvero, se anche fossero ormai possibili, certi entusiasmi, ne' quali, aspettando i nuovi tempi, o nella prima esultanza dell'avvento loro, si compiacque l'accademia e la scuola d'allora; quando Italia libera ed una pareva la parola d'ordine che le fide scolte del pensiero italiano si fossero trasmesse perpetuamente dall'uno all'altro dei vigilati posti d'arme; e la rivelazione dei precursori vaticinati, nuova maniera di oroscopia a rovescio, addiveniva esercizio di fantasie quotidiane; e quel povero Veltro dantesco «salute dell'umile Italia» veniva tramutato in tuttociò che tornasse opportuno farlo essere, ma soprattutto nella figura del Re liberatore: di che la Maestà di Vittorio Emanuele è lecito credere che sotto i gran baffi molto di cuore ridesse.

La poesia, o, altramente atteggiato, il saluto del pensiero italiano, non mancò (questo è vero; e i moderni studi critici ne hanno aggiunto preziosi documenti ai già noti) non mancò di augurare, od anco di secondare, a più d'una di quelle che potremmo chiamar geste regionali, non molte del resto, che in diversi momenti della storia d'Italia, allettarono questa o quella, più o meno generosa o interessata, iniziativa, sia di principi, sia di tribuni o cospiratori.

Se anche non è a Cola di Rienzo che il Petrarca abbia indirizzata l'altra delle sue magnanime canzoni italiche, certo accompagnò con altre espresse manifestazioni la impresa repubblicana di lui; la quale, come già quasi quattro secoli prima quella di Crescenzio, poteva, col mutare le condizioni di Roma rispetto al Papato, aprire nuove strade ai destini d'Italia. Ed era naturale che il Petrarca, sì gagliardamente compreso di patriottica latinità, e così fervidamente intento a restaurarla negli studi, si volgesse, con la mobile fantasia, ad accogliere, come una promessa di rinnovamento italico anche negli ordini civili, qualsifosse evento o persona, che più o meno direttamente accennassero a tanto: fosse oggi quel suo re angioino Roberto, che nel trono di Napoli, e nel capitanato di Parte Guelfa in tutta Italia, avrebbe avuto (se non era il «re da sermone» ben proverbiato da Dante) solido fondamento alle medesime ambizioni di supremazia italica, che su codesto trono avean circondata la corona di Federigo II re ghibellino; o fosse domani l'Impero, se anche nella persona del più dappoco di tutti quei Cesari posticci, Carlo IV di Lussemburgo.

Nel modo stesso, quando, pochi anni dopo, un'altra ambizione, e ben altramente audace e invasiva, quella del Conte di Virtù Giangaleazzo Visconti, fattosi con le armi il ducato di Milano, compratane dall'Impero l'investitura, sentì angusti i confini del Po e dell'Appennino; – e fu quello, in tutta la triste storia frammentaria delle Signorie e Principati domestici, il solo momento che una di codeste avventure (poichè non fu la sola) per una piccola tirannide più o meno italica parve poter essere generatrice d'una forza concentrativa e unitaria in benefizio della nazione; – non più allora la voce di alcun grande poeta, ma voci molte di minori si levarono; non tutte di consenso e d'applauso, ma tutte di apprensione per cosa grande e vitale alla patria italiana. E come in nome d'Italia («Sappi ch'i' sono Italia che ti parlo») avevano vituperato quel «di Lucimburgo ignominioso Carlo»; così ora a questa nuova, ma non degna, speranza d'Italia e di Roma esclamavano:

Roma vi chiama: – o Cesar mio novello,
I' sono ignuda, e l'anima pur vive:
Or mi coprite col vostro mantello.
Poi francherem colei, che Dante scrive
Non donna di provincie, ma bordello;
E piane troverem tutte sue rive.

Non degna speranza, e ambizioni bieche, codeste del Visconti: alle quali il più libero de' nostri Comuni, Firenze, nido e seggio ormai d'italianità intellettuale, contrastò fieramente, nel nome di quella tradizione di libertà municipali, che si era concretata in centri a raggio anche men che regionale, Stati sia di Popolo, sia di Signore o Tiranno; fronteggianti l'uno l'altro, e amici e bonvicini non a più larga stregua che del respettivo tornaconto. Tale tradizione, era, un secolo appresso, da Lorenzo de' Medici fermata e consolidata in equilibrio, ma pe' soli pochi anni che al Pericle fiorentino bastò la vita per la vagheggiata grandezza di questa Atene fatta retaggio suo e de' suoi. Cotesto equilibrio di Stati (che il Guicciardini nel Proemio alla sua storia descrive) imperniato da Lorenzo nella intrinsichezza con Roma papale, e il cui turbamento, loscamente macchinato dal Moro, segna l'era nefasta della intrusione straniera nelle cose d'Italia, fu pur sempre bilanciamento di soli interessi. E ben si addiceva ne descrivesse i congegni il Guicciardini, questo grande scettico della unità di nazione in omaggio alla libertà dei municipii, contro la quale finì egli poi ministro di tirannide; lo descrivesse con quel suo tatto pratico schivo d'ogni idealità, e con la sua impassibile Liviana magnificenza. L'equilibrio che possiamo, da Cosimo il Vecchio al magnifico Lorenzo, chiamare Mediceo, fu maneggiato con quel sentimento pagano di realtà, o quotidiana o archeologica, che caratterizza la politica e la cultura dell'umanismo: e come indarno vi cercheremmo un'alta ispirazione, che dal passato domestico e d'ieri aleggi verso l'avvenire della patria, così da nessuno dei togati umanisti esce pur uno di que' magnanimi accenti d'evocazione, ne' quali il Petrarca, iniziatore di cotesta scuola, con tanta passione congiungeva la Roma antica dominatrice del mondo e quella ch'egli avrebbe voluto veder risorgere, Roma italiana e cristiana, dalle gloriose rovine. Gli accademici vivono nell'antico; i politici lavorano al presente, con tutte le brutali energie della forza e le perfidie sanguinose della frode: finchè un generato e da quelle accademie e da quelle cancellerie, ma sovrano intelletto, Niccolò Machiavelli; – dopo avere nelle ambascerie del suo Comune esercitato le arti di cotesta politica, e nel silenzio campestre del suo studiolo investigato ansiosamente sulle storie di Roma repubblicana il segreto della potenza e della grandezza; – testimone e sperimentatore, e complice egli stesso, di quella collisione di forze, tutte insieme ripugnanti e discordi ad unificarsi, od anche soltanto ad unirsi, e nessuna valida a subordinare le altre o a schiacciarle; – consapevole di quanto egli valga, e fremente di nulla potere; – ficcherà, egli solo fra tutti gli uomini del suo tempo, l'acuto sguardo nell'avvenire, nell'avvenire disperato e lontano; e lo invocherà, e lo attrarrà a sè, con le più generose parole forse che mai, duranti i secoli che Italia non fu, siano uscite da petto italiano. «Provvedetevi» dice egli a quel suo Principe, che nè un Borgia nè un Medici erano degni di essere, nè doveva essere ciò che egli allora era condotto a volere che fosse «Provvedetevi d'armi proprie… che si vedano comandare da loro Principe… per potersi con virtù italiana difendere dagli stranieri… Era necessario che l'Italia si conducesse ne' termini presenti, e che la fusse più schiava che gli Ebrei, più serva che i Persi, più dispersa che gli Ateniesi; senza capo, senz'ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa; ed avesse sopportato d'ogni sorta rovine… Vedesi come la prega Dio che le mandi qualcuno che la redima… Vedesi ancora tutta prona e disposta a seguire una bandiera, purchè ci sia alcuno che la pigli… L'Italia vegga dopo tanto tempo apparire un suo redentore. Nè posso esprimere con quale amore ei fussi ricevuto in tutte le provincie…; con qual sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se gli serrerebbono? quali popoli gli negherebbono la obbedienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio?..» Parole fatidiche, le quali non possiamo noi Italiani ripetere senza che il cuore presti alla voce il suo accento; ma che sopraffatte, vivente pure il Machiavelli, dalla violenza delle due grandi Potestà in nome di Roma contro l'Italia alleate, non osò egli stesso riadattare a un altro Medici, il condottiero delle Bande Nere, che con ben altra vigoria avrebbe alzata quella bandiera, se bandiera solamente soldatesca fosse potuta essere: nè furono certamente, coteste parole, nemmen ripensate negli efimeri episodii che quel medesimo secolo ebbe, di qualche cospirazione (quella del Morone, quella del Burlamacchi) contro la signoria straniera. Solo ai giorni nostri, sugli albori ancora incerti del risorgimento nazionale, il Gioberti le convertiva in apostrofe a Carlo Alberto, quando ancora nè il Re aveva vinti gl'intimi contrasti che formavano il suo segreto, nè al filosofo stava in cospetto, come poi sull'estremo limitare della vita, la visione della nuova Italia. Pochi anni ancora: e il successore di quel Re ebbe adempito, fra il 59 e il 70, il vaticinio di Niccolò Machiavelli.

Nè questa volta erano fatti moderni, ai quali, dopo il grande lavorio di tutta una letteratura civile, quanta intercede dall'Alfieri al Carducci, fosse adattato quasi per parafrasi un simbolo tradizionale della nostra storia e della nostra poesia. Non era l'aquila cesarea di Dante, addestrata col logoro retorico a roteare in larghi giri attorno alla corona dell'Italia plebiscitaria, e librar goffamente su quella corona le vecchie ali spennacchiate: non la navicella d'Enea navigante dalla Sicilia alle foci del Tevere con seco i fati latini, che mostrasse il solco a quella sulla quale Garibaldi e i suoi Mille dallo scoglio di Quarto cercavano «l'isola del fuoco», per muovere di laggiù, con l'Italia di Vittorio Emanuele sulle invitte spade, verso Roma destinata. Erano, questa volta, senza simboli e senza interpretazioni, tali quali il Segretario fiorentino aveva, con fioca o forse già soffocata speranza, invocato, erano finalmente l'Italia redenta e il suo Re.

È poi notabile, che se altre voci, di ben minore portata, si levarono in quel triste splendido secolo iniziativo del nostro servaggio, mosse da affetto di patria ad augurare dondechessia un liberatore, non furono indirizzate verso quella regione d'Italia di dove la Provvidenza dovea suscitarlo. Scriveva Benedetto Varchi, rilevando l'interessata politica di Venezia nelle cose italiane, e altresì la necessità d'una egemonia nazionale sulle forze vive della penisola, «non essere le fatiche e gl'infortunii d'Italia mai per cessare, infino che i Veneziani (poichè sperare da' Pontefici un cotal benefizio non si dee) o alcuno prudente e fortunato principe non ne prenda la signoria»: e ciò, forse, con qualche intenzione, del tutto cortigiana, al suo duca Cosimo de' Medici; certo, con nessuna ai duchi di Savoia. Nè altri che Venezia e i Pontefici, «Marco e Piero», pensava il Guidiccioni possibili propugnatori dell'indipendenza italica: ma soggiungeva dolorosamente, non avere speranza alcuna dell'opera loro. Nel quale concetto dovevano quei nostri del Cinquecento essere indótti dal considerare lo Stato ecclesiastico e il dominio di San Marco siccome le sole provincie d'Italia, cui non investisse quel complicato intrico d'interessi dinastici paesani, alleati sinistramente con la rapacità straniera, nelle maglie del quale era irretita, per tutto il rimanente, la patria nostra infelice. Ma e il Guidiccioni e il Varchi, uomini di chiesa ambedue, sentivano pure, quanto ai Pontefici, come questa potenziale attitudine del loro Principato a benefizio d'Italia fosse da altre condizioni storiche o contingenze di fatto impedita: il che si era veduto in Giulio II, e si vide poi in Paolo IV; confermandosi sempre la tremenda sentenza con la quale il Machiavelli e il Guicciardini ebbero, quasi con identiche parole, condannata la Signoria temporale dei Pontefici e la corrottissima Curia, dello avere e fatto «diventar gl'Italiani senza religione e cattivi» e «impedita l'unione d'Italia». E quando il Gioberti disegnò e radiosamente colorì l'apoteosi civile del Papato, non però gli resse l'entusiasmo, nè gli bastò l'eloquenza, ad attribuirgli una iniziativa che innanzi tutto bisognava fosse guerriera; ma di questa riconobbe e i caratteri storici e le condizioni giuridiche nel suo Piemonte, anche senza evocare, come avrebbe potuto, le tradizioni di quella che, gesta ambiziosa e di ereditaria ambizione, ma fu pur gesta d'indipendenza italiana, di Carlo Emanuele I. D'allora in poi, dico dal 1848, fu nella egemonia subalpina fermato il concetto, e anticipato con auspicii immanchevoli il fatto, prima, dell'unione, poi dell'unità, d'Italia: di questa unità, alla quale fin dal 1821 era volato il verso di Alessandro Manzoni; della unità italiana, in nome della quale, nel 31, a Carlo Alberto che ascendeva il trono, Giuseppe Mazzini avea mandato il saluto o la minaccia (scegliesse egli) del pensiero italiano; di questa sacra unità, che il venerando Gino Capponi (raccolgo dalle labbra di lui una parola non dimenticabile) diceva essere stata, agli uomini della sua generazione, il primo dei desiderii, l'ultima, perchè la più bella, delle speranze.

V

Se non che all'unità politica avea precorso da secoli l'unità intellettuale: l'unità che emerge dal solo fatto del concepire e rappresentare, e il concetto e l'immagine atteggiare esteriormente secondo un ideale e sopr'uno stampo, che è quello e non altro che quello. Nella parola de' suoi poeti, nella mente de' suoi pensatori, nei miracoli dell'arte emulatrice a quella di Grecia e di Roma, nella sospirosa melodia de' suoi canti, nella musica perpetua della sua lingua, l'Italia sempre era stata, e splendidamente era stata. Il sentimento di questa immanente sopravvivenza ai fenomeni transitorii, anche nei tempi più depressi e desolati della nostra storia, si salvò sempre, e con esso fu salva la parte di noi più preziosa: la coscienza di essere, ed esser noi. Non eravamo «in eterno periti», come nella voce di Giacomo Leopardi sonava nel 1818 il pianto d'Italia serva: «In eterno perimmo?»: poichè, rispondeva il poeta,

Voi, di che il nostro mal si disacerba,
Sempre vivete, o care arti divine,
Conforto a nostra sventurata gente,
Fra l'itale ruine
Gl'itali pregi a celebrare intente.

E salutava il sorgere nel tempio di Santa Croce d'un altro di quei monumenti, dai quali, e dalla storia del nostro pensiero, aveva Ugo Foscolo invocati gli auspicii al risorgimento d'Italia.

Ben può oggi affermarsi, che il primo passo alla unificazione politica fu, in quei primi decennii del secolo, la restaurazione della italianità nel pensiero e nella lingua: della qual restaurazione furono benemeriti anche tali che, nelle conseguenze sue estreme, non avrebber certo voluta preparare l'altra unità; ma questa aveva, lo abbiamo veduto, ragioni di necessità e di diritto che di secolo in secolo l'hanno avviata e guidata, spingendola innanzi anche quando è sembrato che ristesse e indietreggiasse, finchè si sia potuto dire: Siam giunti, e qui stiamo: hic manebimus optime! Non pensava certo a un'Italia dell'avvenire, o ne avrebbe avuto sgomento, il buon padre Cesari, quando straniandosi valorosamente dal gergo italo-franco che aveva finito col sostituirsi alla lingua italiana, scriveva le novellette boccaccevoli, o assettava nel suo artefatto trecento Orazio e Cicerone, e nel volgar fiorentino del Cinquecento manipolava la commedia latina: ed è certo altresì che la Proposta di correzioni al Vocabolario, con la quale il Monti si atteggiò a guerra di lombardo a toscani, attesta, più ancora che della sua dottrina di lingua e vivacità di spiriti indomita, della senile sua incoscienza politica. Ma bene a questa Italia aveva pensato l'Alfieri, quando protestava contro la soppressione che i pedanti della filosofia riformatrice avean fatto dell'Accademia della Crusca: ci pensava il Foscolo quando si appellava alla nazione, dalla sentenza del Gran Consiglio Cisalpino contro la lingua latina: era purista cittadino il Giordani, quando incorando negli amici suoi lo stile greco e la lingua del Trecento, si sottoscrive fratello nel nome dell'«augusta e cara nostra mamma l'Italia»: e filologia preveggente era quella di Niccolò Tommasèo, il quale dalla critica delle dottrine del Perticari, dalla vagliatura fiorentina dei sinonimi, dovea condursi con Daniele Manin al Palazzo dei Dogi, prigioniero prima, poi Ministro della Repubblica, e, fino agli estremi delle armi del colèra e della fame, sostenitore d'un diritto nazionale che al Dalmata si era fin da giovanetto fatto sentire nel caro idioma d'Italia. Sì, il purismo è stato anch'esso una potenza benefica alla costituzione della patria, ravvivando e rivendicando le ragioni della lingua, dagli stranieri influssi e preponderanze corrotta: al corpo poi, così risanato, un possente interprete del pensiero e del sentimento umani, restituiva il vivo alito della toscanità, cioè dell'idioma d'Italia: Alessandro Manzoni. La unità idiomatica avea suggellato del suo stampo il Poema, sul cui fondo, disteso fra «cielo e terra», rilevava in figure immortali il Medio Evo italiano: la unità idiomatica, ricondotta al suo principio vivente, reintegrò quel medesimo suggello sopra un altro, esso pure grande poema, dove la servitù e la corruttela italiana, lungo i più lacrimevoli anni suoi, era ritratta e condannata nella storia di due egualmente immortali figure, di due poveri perseguitati Promessi Sposi del contado lombardo. Ed è questa italianità, di pensiero e di forma, che noi dobbiamo oggi, insieme con la unità che ce la garantisce, custodire gelosamente e propugnare: è questa italianità che noi con trepido affetto consegnamo, raccomandiamo, ai nostri figliuoli. La santa centenaria bandiera, per la quale combattono, soffrono, muoiono da eroi, i nostri soldati, non si difende solamente sui campi di battaglia: ogni cittadino operante è per essa soldato.

Altezze Reali, Signore, Signori,

Quella «storia ideale eterna» che Giambatista Vico idealeggiava, «sopra la quale corrono in tempo tutte le nazioni», assunse nell'alta mente di lui, la figura d'un circolo: dove però il corso dal male al bene soggiacerebbe alla legge del ricorso dal bene al male; e simbolo della vita civile, sarebbe quella linea circolare che «sè in sè rigira», e a cui gli Aristotelici attribuivano maggior perfezione che non alla linea retta, apponendo a questa la manchevolezza dell'essere non finita. Ma Galileo rispose agli Aristotelici; e le teorie del Vico, detrattone quel che di a priori scolastico si aggravava sopr'esse, possono conciliarsi con una legge positiva di progresso, che saldi in armonia scientifica le tradizioni e le speranze del genere umano. Pure, se ad un elemento della vita delle nazioni rimane tuttavia adattabile puntualmente cotesta imagine vichiana del circolo, è a quell'elemento che in sè comprende i caratteri essenziali e distintivi di ciascuna nazione, pe' quali esse rassomigliano a un conserto di famiglie, il cui padre unico sovrasta alle cose terrene. Nel circolo della italianità, nessun progresso è interdetto alla patria nostra: sfasciandosi quello, i movimenti non avrebbero più nè cammino diritto nè meta sicura. Il pensiero e la lingua, gli studi del vero e le arti del bello, le istituzioni e le leggi, descrivono la circonferenza di cotesto circolo: ma nel centro sta, somma di tutte le forze, principio di vita necessario, fortezza ed altare, l'unità della Patria.

LA LOMBARDIA ALLA CADUTA DEL REGNO ITALICO

CONFERENZA
DI
GEROLAMO ROVETTA

Signore e Signori,

Il secolo non è finito ancora, e già se noi ci volgiamo indietro a considerare gli avvenimenti che ne agitarono il principio, essi ci appaiono lontani lontani, estranei affatto alla vita nostra, quasi che tra essi e noi intercedesse l'ombra di un intero evo storico, non lo spazio di una vita d'uomo.

A mano a mano che la ricerca erudita, fatta oramai positiva e serena, studia quei casi snebbiandoli dalle leggende che già vi si formarono intorno, e corregge gli errori, ripara alle ingiustizie, assolve i calunniati e condanna gli usurpatori di gloria; mentre la critica si affatica sui documenti e la verità torna in luce; in noi, strano a dirsi, nell'impressione comune di chi oggi ripensa a quegli anni fortunosi, nella coscienza della gente anche istruita, la distanza tra la fine e il principio del secolo cresce di continuo; e gli uomini e i fatti del tempo che segnò la giovinezza dei nostri nonni par che si ritraggano sempre più rapidamente nel buio del passato, vi si avvolgano di una nebbia sempre più densa, impiccioliscano, scompaiano dalla memoria delle moltitudini.

Napoleone, la sua sanguinosa e trista epopea, le catastrofi di Russia e di Germania, quell'avvicendarsi di avvenimenti che soltanto sette od otto decine d'anni fa mettevano a soqquadro l'Europa… e le nostre famiglie, che insidiavano gli averi di cui ora noi stessi godiamo e turbavano e scompigliavano gli amori dai quali i nostri padri sono nati, tutto non sembra – se ci pensiamo – appartenere ad un'altra epoca ben più remota?

La critica moderna «vergine di codardi oltraggi» ma implacabile nelle sue deduzioni positive, ha relegato «l'uomo fatale» tra i malinconici nefasti della storia, fra gli antichi maniaci per la guerra, violenti ed infelici: ed il feticismo che per lui nutrivano i suoi soldati, a noi almeno, appare come un caso diffuso di allucinazione morbosa delle moltitudini.

– Come mai? Donde tanta disparità del vivere e del sentire? – Io credo che tale enorme allontanamento dalla coscienza nostra di uomini e di cose storicamente vicine, non provenga tanto dai molti e varî casi intervenuti tra loro e noi, quanto dal velocissimo, anzi precipitoso cammino compiuto dalle idee in questo intervallo di tempo, che, se per sè medesimo è breve, relativamente alla importanza storica contiene la materia non di uno, ma di più secoli!

Ciò che non è d'oggi o di ieri è già per noi antico: tanto s'è slargato innanzi a noi il mondo, tanto volo abbiamo spiccato incontro all'avvenire! Le idee han soverchiato i fatti, han dato una nuova anima battagliera, feconda, a questo vecchio secolo pieno di esuberanze giovanili, hanno oramai tolto di mezzo quanto del passato poteva esser loro d'impaccio, e abbandonato negli avelli della storia tutto ciò che non era vivo e germogliante… come la calce sparsa sulle rovine di un disastro cela agli sguardi le macerie e i cadaveri insieme.

Ed è per ciò che debbono avere la acuta e perspicace pazienza degli archeologi, coloro che vanno frugando in un mondo pur così vicino a noi, e come gli archeologi debbono saper dar vita alle pietre e parole alle tombe e leggere tra le righe dei non ancora ingialliti documenti, e scrutare il senso riposto delle satire, delle caricature, delle canzoni, delle arguzie, delle tradizioni popolari: debbono svestirsi d'ogni propria passione politica, debbono cercare la luce vera che illuminava quei tempi e giudicare gli odii, e gli amori d'allora come gli odii e gli amori d'adesso, cioè come passioni umane, fallaci quindi ed ingiuste il più delle volte, torbide dispensatrici di fama… e d'infamia, non sempre meritata.

Questo non è cómpito per le mie forze, nè per i miei gusti. Io penso, invece, con intimo compiacimento d'artista che, mentre tutte quelle cose e quella gente ci appaiono così come se le guardassimo col canocchiale a rovescio, l'arte e gli artisti sono rimasti così vicini a noi, così nostri e del nostro tempo da indurre noi pure – imbevuti di tanto scetticismo! – in quella fede classica che vate chiamava il poeta, cioè veggente nell'avvenire, ed eterna proclamava l'arte, cioè immortale nei secoli.