Eccovi un altro mio lavoro – questo lo dedico a voi, non perchè sia migliore degli antecedenti, ma perchè voi troverete dei fatti compiuti dai vostri antesignani e fedelmente narrati da me, testimonio oculare.
Il male che dico del governo, credo sia inferiore ai meriti dello stesso, e desidero si creda che non per sistema io lo maledico, ma per puro convincimento di far bene, accennando al male.
Che la Monarchia per interesse proprio abbia secondato le aspirazioni nazionali nell’unificazione patria credo assurdo il negarlo, siccome assurdo sarebbe il negare aver la Democrazia seminato i campi di battaglia coi suoi martiri nell’intento solo generoso dell’unificazione dell’Italia e della sua emancipazione dal dominio straniero e teocratico.
Alcuni pochi che nelle fila della Democrazia pugnarono per il proprio avvenire, oggi si trovano nel Consorzio Monarchico, e quindi divisi dalla stessa, ed obbligati a continuar col governo la via di perdizione.
Il governo italiano modellato su quello imperiale di Francia, in tutto lo somiglia, ne segue esattamente le traccie, ed avrà le stesse conseguenze.
Non credano i moderni Machiavelli d’Italia d’esser più furbi dell’uomo di Sédan; essi lo ponno uguagliare in malvagità, non in malizia.
Come quello, questi edificano su fondamenta putride della sacerdotale menzogna, e come quello saranno sepolti nelle immondizie da loro stessi accumulate.
Perseguitino pure l’Internazionale, cioè la miseria da loro creata e mantenuta – spargano pure sulla superficie dell’Italia, colla solita intenzione di corromperla, i soliti agenti del corruttore supremo di Roma – ed invece di costruire degli Ospizi d’asilo per i tanti condannati a morir di fame in questo inverno di carestia, comprino pure delle nuove tenute di caccia per divertirsi – e nuovi palazzi vescovili – vedremo come se la intenderanno colla fame della moltitudine.
In Germania, tutti lo dicono, non v’è più un solo individuo che non sappia leggere e scrivere. La Francia grida: istruzione ad ogni costo. E l’Italia prodiga il suo erario a pagare dei vescovi e simili agenti delle tenebre.
Ripeto: ve la intenderete colla fame – !
Dei preti dico poco male, me lo perdoneranno i miei concittadini, considerando che pur qualche cosa dovevo mollare alle paterne ammonizioni dello Spigolatore Bolognese all’Unità Italiana (giornale) sulle mie antifone contro i preti.
Sui meriti della gioventù Romana, per cui ho una predilezione speciale, alcuni mi troveranno esagerato. Ebbene, se sono largo di elogi agli odierni discendenti dei Quiriti, ciò sia un pegno per il loro contegno avvenire.
Essi, sin ora sotto la diretta educazione del prete, ed in presenza delle sue carceri, de’ suoi birri, e de’ suoi istrumenti di tortura, dovevano essere ciò che erano veramente.
Oggi però, abbenchè poco meglio governati, essi non sono più sudditi o schiavi del clero – e devono sottrarsi intieramente da quel vergognoso servaggio, abiurarlo, maledirlo, distruggerlo sino alle ultime vestigia – ricordandosi che dal clero, essi, dall’apice delle Nazioni furono precipitati all’infimo grado della scala umana.
E che non vengano qui gli uomini a dottrine che puzzano di sagristia e di ceppi a dottoreggiare, che non conviene agli operai (come si preconizza in Roma oggi) di trattare di politica.
Se io, povero mozzo, non m’inganno, politica significa affare dei molti – ed intendo i molti dover essere coloro che menan le braccia nella società quando ben costituita – ed i molti naturalmente interessati a sapere se la barca va negli scogli o a salvamento.
La gioventù Romana – operai od altro – deve quindi occuparsi di politica – e convincersi che il suo contegno calmo, dignitoso, ma energico nello stesso tempo nella insofferenza d’oltraggi od esigenza di diritti – il suo contegno, dico, deve servire di stella polare alle città sorelle, per ottenere un’Italia prospera e rispettata nel mondo.
Posta così a capo del progresso nazionale – e partecipando alla buona ed alla cattiva fortuna del resto della Penisola, la vecchia matrona – sarà impossibile esser la nostra bella patria trascinata indietro nell’anfiteatro del fanatismo e della tirannide.
Emancipata dall’idolatria, e spinta col suo culto del vero e della giustizia verso la fratellanza universale, Roma potrà salutar finalmente l’alba d’un terzo periodo intellettuale nell’immortale ed impareggiabile sua esistenza.
La nazione ha quindi il diritto di sperare nel buon andamento che il popolo dell’illustre Capitale saprà dare alla Vita Italiana.
Vecchio – e poco più atto, o nulla, all’azione materiale – devo limitarmi a consigliare i giovani che ponno utilizzare la mia esperienza.
Accennerò alle esagerazioni.
Non credete voi che le esagerazioni dell’ultima rivoluzione di Parigi l’abbiano perduta? Io lo credo – e credo le esagerazioni dei dottrinarii manterranno ancora per molto tempo l’Internazionale in uno stato spaventoso per le classi agiate – ciocchè servirà di puntello e di propugnacolo alle monarchie ed al clero per combatterla.
Dall’altra parte noi diremo ai governi:
«Combattete il male di cui siete artefici, e non l’Internazionale, se ne siete capaci.
«I creatori dell’Internazionale e delle rivoluzioni siete voi. – Giacchè se voi combattete il vero e la fratellanza umana, non valete più dei preti abbagliati dalla luce, e che condannano alle fiamme chi non crede alle loro menzogne.
«Se continuate nella via del privilegio, voi rinnegate il diritto e la giustizia, e l’Internazionale – complesso della classe soffrente – finirà per rovesciarvi e distruggervi – E se mal diretta, per precipitare il mondo in uno di quei cataclismi da far tremare la terra.
«Istigatori del malcontento e delle miserie, voi siete i creatori del brigantaggio sempre crescente – e siccome siete la malizia e la fallacia – profittate degli stessi disordini suscitati da voi per accrescere il numero dei vostri puntelli. E vediamo quindi ogni giorno un aumento di preposti, di questurini e di benemeriti, di cui la nazione vi dà vistoso contingente, perchè povera e depravata da voi.
«Correggete tutti cotesti cancri, se lo potete, e non cercate di distruggere l’Internazionale – opera vostra e composta di vostre vittime – di cui non potete passarvi perchè poltroni e lussuriosi. L’Internazionale, dico, è emanazione dei vostri vizii!»
Troppo aspri i miei detti troveranno molti, ma scendano un istante costoro nella loro coscienza, e mi dicano se normale sia il presente stato d’Italia.
A che impoverire la maggior parte della Nazione per mantener la parte minore nell’agiatezza e nelle lussurie?
E non è forse questo stato anormale, che mantiene la rivoluzione in uno stato latente, ma inevitabile?
Le lezioni dell’Impero Napoleonico a nulla han servito dunque! Poichè si vedono i governanti, alunni di quello, marciare come prima alacremente verso l’abisso seguendo il sentiero tracciato dall’uomo che rovinò la Francia.
Io non capisco come si chiamino conservatori gli uomini che appartengono a tale sistema.
Cosa diavolo conservano? il marciume, ma questo – entrando nell’appannaggio dei vermi – porta già l’impronta d’uno schifoso passato.
Cotesti conservatori siedono perennemente sul cumulo di un vulcano, i di cui crateri tempestano sotto i loro piedi, e finiranno, riunendosi in uno solo, coll’esplodere la montagna ed inghiottirli nelle latebre della terra.
Io ho la coscienza di non appartenere a setta nè a partiti – vorrei vedere il mio paese prospero e rispettato – vorrei vedere gli uomini del capitale conformarsi ai progressi dei tempi presenti – e persuadersi che le masse d’oggi non devonsi guidare cogli espedienti del passato.
In tutti i tempi, quasi, i popoli si son governati coll’ignoranza e la violenza – cioè coi preti e coi soldati.
«Porque tal es mi voluntad – yo il Rey!» era la firma del re di Spagna.
«L’Etat c’est moi» diceva Luigi XIV.
La Spagna e la Francia provano oggi che quei tempi son passati – e se si pensa alle convulsioni cagionate dalla cecità ed ostinatezza di quei signori – credo i conservatori moderni, che somigliano certamente agli antichi – si persuaderanno di conservar nulla alla fine – e le nazioni pure procureranno di non ritentar le prove spaventose.
Perchè dunque non evitar il pericolo?
Sarebbe cosa facile: i tanti che mangiano per cinquanta, contentarsi di mangiare per venticinque.
Per persuadersi che i tempi sono cambiati, date un colpo d’occhio all’Austria. Chi non preferisce oggi la condizione d’un onesto contadino a quella ormai ridicola di cotesto imperatore e re?
Non vi par di vedere un cacciatore, cui una caduta ha mandato la gabbia in pezzi, faticantesi a correr dietro agli uccelli fuggiti e ben contenti di seguir ognuno la loro via liberissima nello spazio?
Poveri imperatori! Ed è strano vederne dei nuovi che – per la sventura umana – si aggraffano a troni putridi e maledetti.
Il lavoro presente avrà certo l’impronta della trascuratezza – per tanti motivi, ai più conosciuti – e per esser stato ripreso tante volte.
Finisco contando sulla vostra simpatia nel credere ch’io avrei desiderato d’esser capace di far meglio.
Caprera, 21 e 22 gennaio 1873.G. Garibaldi.
Quel che giurâr ottennero,
Han combattuto, han vinto,
Sotto il tallon del forte
Giace lo sgherro estinto.(Berchet).
O Mille! in questi tempi di vergognose miserie – giova ricordarvi – l’anima si sente sollevata pensando a voi – rivolta a voi – quando, stanca di contemplar ladri e putridume pensando che non tutti – perchè la maggior parte di voi ha seminato l’ossa su tutti i campi di battaglia italiani – non tutti ma bastanti ancora per rappresentare la gloriosa schiera – restante – avanzo superbo ed invidiato – pronto sempre a provare ai boriosi nostri detrattori, che tutti non son traditori e codardi – non tutti spudorati sacerdoti del ventre in questa terra dominatrice e serva!
«Ove vi sono dei fratelli che pugnano per la libertà Italiana – là bisogna accorrere» voi diceste.
«Essi combattono per liberarsi dalla dominazione d’un tiranno; per affratellarsi alla grande famiglia Italiana».
E non trovaste il codardo pretesto – se la loro bandiera era più o meno rossa. – Anzi – Repubblicani veri – voi faceste non solo il sacrifizio della vita, ma delle convinzioni politiche vostre. Come Dante repubblicani – come lui diceste: «Facciam l’Italia anche col diavolo!»
E ben faceste, perchè ai dottrinarii che predican principii che non praticano, voi vittoriosamente potrete sempre rispondere: «Noi non conosciamo altri principii se non che i due, del bene e del male. – E per l’Italia sarà sempre principio del bene quello di volerla unificare. – Far il bene della patria è la nostra Repubblica».
Voi cercaste il pericolo in soccorso di fratelli senza chiedere s’eran molti i nemici, se sufficiente il numero dei volenterosi – se bastanti i mezzi per l’impresa.
Voi accorreste sfidando gli elementi, i disagi, le privazioni, i pericoli con cui ne attraversavano la via nemici e sedicenti amici.
Invano il Borbone, con numeroso naviglio, stringeva in un cerchio di ferro la Trinacria, gloriosa, insofferente di giogo, e solcava in tutti i sensi il Tirreno, per profondarvi nei suoi abissi. Invano!
Vogate! Vogate pure Argonauti della libertà – là sull’estremo orizzonte di Ostro splende un astro, che non vi lascierà smarrire la via, che vi condurrà per la mano al compimento della grande impresa – l’astro che scorgeva il grandissimo cantore di Beatrice, e che scorgevano i grandi che gli successero, nel più cupo delle tempeste – la Stella d’Italia!
Ove sono i piroscafi che vi presero a Villa Spinola e vi condussero attraverso il Tirreno salvi nel piccolo porto di Marsala? Ove? Son forse essi nuovi Argo, gelosamente conservati, e segnati all’ammirazione dello straniero e dei posteri, simulacro della più grande e più onorevole delle imprese italiane? Tutt’altro; essi sono scomparsi. – L’invidia e la dappocaggine di chi regge l’Italia, hanno voluto distruggere quei testimoni delle loro vergogne.
Chi dice: Essi furon perduti in premeditati naufragi. – Chi li suppone a marcire nel più recondito d’un arsenale, – e chi venduti agli ebrei per pochi soldi, come vesti sdruscite.
Vogate però, vogate impavidi —Piemonte e Lombardo1, nobili veicoli d’una nobilissima banda – la storia rammenterà i vostri illustri nomi, a dispetto dell’invidia e della calunnia. – E voi, giovani che mi leggete, lasciate pur gracchiare il dottrinarismo. Ove in Italia si trovino Italiani che pugnano contro tiranni interni e soldati stranieri, correte in aiuto dei fratelli, e persuadetevi che il programma di Dante «Fare l’Italia anche col diavolo» vale ben quello dei moderni predicatori di principii che millantano il titolo di partito d’azione, avendo passato tutta la vita in ciarle.
Quando l’avanzo dei Mille, che la falce del tempo avrà risparmiato – seduti al focolare domestico, racconteranno ai nepoti la quasi favolosa impresa a cui ebbero l’onore di partecipare – oh! essi ben ricorderanno alla gioventù attonita i gloriosi nomi che formavano l’intrepidissimo naviglio, e la santa soddisfazione provata d’esser corsi alla riscossa degli schiavi.
Vogate! Vogate! voi portate i Mille a cui si aggregheranno i milioni, il giorno in cui queste masse ingannate, capiranno esser il prete un impostore, e le monarchie un mostruoso anacronismo.
Com’eran belli, Italia, i tuoi Mille! in borghese – pugnando contro i piumati, gl’indorati sgherri – spingendoli davanti a loro come se fosse un gregge. – Belli, belli! e vario-vestiti come si trovavano nelle loro officine quando, chiamati dalla tromba del dovere! Belli, belli! erano coll’abito ed il cappello dello studente, colla veste più modesta del muratore, del carpentiere, del fabbro2. E davanti a quella non uniformata, pochissimo disciplinata gente, fuggivano i grassi, argentati, pistagnati, spallinati venditori della coscienza.
Belli i tuoi Mille, Italia! Essi rappresentavano il tuo esercito dell’avvenire. Non più mille allora, ma milioni, ripeto – ed allora? Allora spariranno dalla tua terra, bella infelice! i boriosi tuoi dominatori – e con loro chi infamemente speculava sulle tue miserie e le tue vergogne!
I Mille, ricordatelo, giovani Italiani, devono essere sostituiti dal Milione, e dieci eserciti indorati fuggiranno davanti a voi, come fumo spinto dal vento!..
Allora il frutto del vostro sudore sarà vostro. – Tutte quelle benedizioni di cui vi fu prodiga natura, saranno vostre, ed allora la vergine a cui avete consacrato un amore italiano – caldo come le lave dei vostri vulcani – la vergine a cui avete consacrato una vita intemerata, sarà vostra – e vostra pura dal contatto appestato d’uno sgherro.
Ma non fate i sordi il giorno della chiamata, e ricordatevi, che per esser pochi molte generose imprese furono fallite!
Mentre il sacro suolo ove nasceste è calpestato dal soldato straniero, accorrete – ed accorrete qualunque sia lo squillo di tromba che vi chiami – sia esso dell’Esercito Italiano o dei Volontarii – basta ch’essi si trovino alle mani contro l’oppressore. Non ascoltate, come a Mentana, la voce di certi traditori che fecero defezionare migliaia di giovani col pretesto di tornare a casa a proclamare la Repubblica ed innalzar barricate.
Mieux vaut mourir
Que vivre misérable!
Pour un esclave
Est-il quelque danger?(Muta di Portici).
O notte del 5 maggio rischiarata dal fuoco dei mille luminari con cui l’Onnipotente adornò lo spazio!
Bella, tranquilla, solenne, di quella solennità che fa palpitar le anime generose che si lanciano all’emancipazione degli schiavi! Io ti saluto!
E vi saluto, o miei giovani compagni, oggi provetti, e la maggior parte mutilati o segnati con gloriosissime cicatrici.
Salve a voi – forse la parte migliore della schiera – che seminaste le nobili ossa su dieci campi di battaglia per la redenzione patria o per la redenzione d’altri oppressi, ma sempre contro la tirannide, fosse essa avvolta nella tiara o nella clamide imperiale!
Brulicando sul litorale dell’orientale Liguria, silenziosi, cupi, penetrati dalla santità dell’impresa, ma fieri d’esservi caduti in sorte – aspettavano impazienti i Mille – succedan pure i disagi o il martirio!
Bella! notte del gran concetto! tu rumoreggiavi nelle fila di quei superbi, di quell’armonia indefinita, sublime, edificante, con cui gli eletti della specie umana sono beati contemplando l’Infinito nell’infinito3.
Io l’ho sentita quell’armonia in tutte le notti che si somigliano alle notti di Quarto, di Reggio, di Palermo, del Volturno!
E chi dubita della vittoria, quando essa, portata sulle ali del dovere e della coscienza, questi ti sospingono ad affrontare i perigli e la morte, dolci allora come il bacio delizioso della donna del primo amore?
I Mille battono il piede sulla spiaggia, come il corsiero generoso impaziente della battaglia. E dove van essi a battagliare? Han forse ricevuto l’ordine d’un sovrano per invadere, conquistare una povera, infelice popolazione, che, rovinata dalle tasse di dilapidatori, ha rifiutato di pagare il macinato? No! Essi corrono verso la Trinacria, ove i Picciotti, insofferenti del giogo d’un tiranno, si son sollevati ed han giurato di morire piuttosto che rimaner schiavi.
E chi sono i Picciotti? Con questo modestissimo titolo, essi altro non sono che i discendenti dell’illustre popolo dei Vespri, che in una sola ora trucidò un esercito di sgherri senza lasciarne un solo vestigio.
«Ma questi piroscafi non si vedono» diceva Nullo ad un impaziente crocchio di volontarii, composto dai Cairoli, Montanari, Tucheri ed altri, che anelavano di lanciarsi sul seno di Teti, e volare in soccorso dei combattenti fratelli.
Nullo, Cairoli, Montanari, Vigo, Tucheri, del vostro nobile sangue è rossa la terra degli schiavi, ma il sublime esempio del vostro eroismo non è perduto per questa gioventù destinata a compiere ciò che voi sì gloriosamente iniziaste! – Voi prodighi d’una vita preziosa, siete impazienti di gettarla là come uno straccio, mentre migliaia d’ignavi – che non valgono una rapa e che pure profitteranno del santo vostro sacrifizio – restano indietro, o paurosi come pecore, o calcolando i vantaggi che potran raccogliere dall’arditissima impresa.
«Spero saranno piroscafi, non legni a vela: sarebbe troppo noioso il viaggio – soggiungeva il maggiore dei Cairoli colla sua calma angelica – Bixio, Schiaffino, Castiglia, Elia, Orlando, incaricati di condurli via dal porto, non sono uomini da lasciarsi intimorire da minacce o da ostacoli».
«Però – ripetea l’eroe della Polonia coll’orologio alla mano – già siamo al tocco, ed alle 3 albeggia in questa stagione: se i legni da guerra ancorati nel porto di Genova giungono a scoprirci, potrebbe andar male per la spedizione.»
«Per Dio! che fossimo obbligati anche questa volta a tornarcene a casa» urlava il focoso e prode Montanari.
«Sangue della Madonna!» e lì si disponeva a continuare alcune imprecazioni con una voce da far impallidire (se non fosse stato di notte) quante spie ed agenti di polizia ronzavano intorno ai valorosi Argonauti italiani.
«Sangue della!.. – e non arrivò a ripetere – Madonna» quando un «Zitto» di Vigo Pelizzari che si teneva sul promontorio di Quarto (ove si trovavano i nostri amici) adocchiando verso Genova «Zitto, non vedete quelle masse nere che celeremente s’avanzano verso di noi?»
«Sì, sì, per Dio! son dessi, sono i nostri piroscafi che vengono ad imbarcarci.» Ed un fremito di soddisfatta impazienza s’innalzò in un momento tra quella superba gioventù da non più udire il rumore delle onde che si frangevano contro le scogliere.
Eccoli, eccoli, e maestosi s’avanzavano i due piroscafi, e i gozzi4, già preparati, cominciavano ad imbarcare militi, armi, munizioni; e la gioia dei giovani volontari, che avrebbero voluto manifestarla almeno con un canto patriottico, era moderata dai più provetti con un «Per Dio! ci fermano se fate chiasso!». E quei prodi religiosamente tacevano per non essere sviati dalla santa impresa! Fra dieci giorni molti di questi generosi cadranno feriti per davanti, caricando il Monte del Pianto dei Romani (Calatafimi) coronato dai forti cacciatori borbonici, ben armati, uniformati e boriosi d’aver insanguinato i loro ferri contro i patrioti siciliani.
Anni della mia gioventù, ove siete iti? – Bei tempi! in cui l’entusiasmo era la vita! il pericolo, la ricompensa più deliziosa! – Anch’io provavo la gentil voluttà delle nobili imprese! l’ambizione sublime d’esser utile! E spesso nella solennità d’una tempesta desideravo la catastrofe per abbrancarmi una men forte creatura e metterla in salvo col solo guiderdone della mia coscienza, pago d’aver fatto il bene.
Siam tutti a bordo, tutti! nessuno di quella Legione di eletti è rimasto. Alcuni hanno già provato gli effetti dell’instabile elemento, ma niuno si lagna. Essi sono sulla via d’un dovere sacrosanto.
Domani daran la vita per l’Italia, ilari e giocondi come nel banchetto nuziale.
E che importano loro alcune nausee, i disagi, la morte? I piroscafi sono diretti sopra una luce verso l’ostro – là su d’una paranza sono imbarcate le provviste della spedizione – bisogna prenderle.
Si cerca un’altra luce d’altra barca su cui s’imbarcarono armi minute, munizioni, capsule, ecc., ma con minor fortuna, ed i fedifraghi che dovevano rimettere tali preziosi oggetti hanno preferito profittar della circostanza per eseguir un vile contrabbando, e così compromettere la riuscita della spedizione.
E veramente la spedizione dei Mille fu compromessa da quel turpe mercato. E come non doveva essere? Essa doveva sbarcare su d’un’isola, i di cui abitanti sono forse unici per patriottismo e per risoluzione. Ma la Sicilia non aveva meno di cinquantamila scelti soldati, una squadra formidabile che ne difendeva le coste, e i valorosi che s’erano innalzati contro il tiranno, eran decimati dai combattimenti e ridotti agli estremi. Approdar con tutto ciò senza munizioni da guerra e coi mille catenacci che la benevolenza governativa avea concessi, in sostituzione di 15 mila buone carabine, che erano di proprietà nostra, e dal governo sequestrate!
Però – vogate – nobili piroscafi, i Mille non sono gente da tornare indietro – e chi ardisse di consigliarlo, mi starebbe fresco. – Vogate! Vi sono Italiani che si battono contro birri, nostrani o stranieri – che importa! Purissimi o men puri, con più o meno principii; essi vanno in soccorso di pericolanti fratelli.
Principii! Essi Repubblicani veri, ne conoscono due soli: – il bene ed il male – e marciano sul sentiero del bene, del dovere, contro il male! Vogate! giacchè il furore dei malvagi, che preferirono l’infame guadagno all’onore, che monta? Troveremo delle munizioni.
Talamone, S. Stefano, non sono sulla via di Sicilia, ma vi sono fortezze, presidii, e quindi depositi di munizioni da guerra, e le prore del Piemonte e Lombardo si dirigevano verso Talamone. Non v’è dubbio che l’imprevista mancanza di munizioni, e quindi lo sviamento dal cammino diretto sulla Sicilia cagionò un’alterazione sulla durata del viaggio, e forse salvò i Mille dall’incontro delle due flotte, Sarda e Borbonica.
Gli ho veduti – raccolti in Pontida
Provenienti dal monte e dal piano —
Gli ho veduti, si strinser la mano
Cittadini di cento città.(Berchet).
Nella mattina del 6 maggio Talamone fu salutato dai rappresentanti delle cento Sorelle, e lo ricorderò quel giorno! Rappresentanti delle cento sorelle, sì! Ma non rappresentanti del genere dei 229 che in quella stessa epoca vendevano la più bella delle gemme italiane, Nizza! – Oggi coronata di fiori e stuprata negli abbracciamenti del più vile dei tiranni! – Non rappresentanti di quella turpe genía che provvede i consorti e cointeressati, ma rappresentanti della dignità Italiana, insofferenti d’insulti stranieri, e di soprusi nostrani. – Maestri gloriosi della generazione ventura libera dai preti e dai dominatori!
Talamone, uno dei più bei porti della costa Tirrena, è situato tra il monte Argentaro e l’isola d’Elba, coronato di belle colline coperte di macchie, cioè deserte.
E che serve all’Italia d’aver dei bei porti e delle terre ubertose, quando i suoi governi ad altro non pensano che a far dei soldi per pascere le classi privilegiate, ed obbligar colla forza, coll’astuzia e col tradimento alla miseria ed al disonore le classi laboriose?
Talamone, nel tempo della visita dei Mille, aveva un povero forte, poveramente armato, comandato da un ufficiale e da pochi veterani. I Mille avrebbero trovato cosa facile impadronirsene, anche scalandolo. Ma non sembrò conveniente, perchè si sarebbe fatto del chiasso, e poi non s’era certi di trovare in quel sito quanto abbisognava, mentre nel vicino S. Stefano, ove esisteva altro forte ed un battaglione di bersaglieri, v’erano più probabilità di trovarvi il necessario.
Ostilmente, dunque, no; conveniva adoperare un po’ di tatto, ed all’amichevole. E qui valse un bonetto da generale che per fortuna il Comandante della spedizione aveva aggiunto al suo bagaglio. Quel bonetto da generale, agli occhi dell’ufficiale veterano, ebbe un effetto stupendo, e metamorfosò in un momento il Capo rivoluzionario in Comandante legale. Si ottenne in Talamone quanto vi fu disponibile, ed il generale Türr, inviato a S. Stefano, potè procurarsi il resto del bisognevole.
In quest’ultimo porto si fece anche provvista di carbon fossile5.
Il bonetto generalesco, a cui si dovette in parte la riuscita della nostra impresa, nei porti toscani, non garbò ad uno dei capi del purismo, che si trovava nella spedizione. Egli trovò infranti i principii ed i Mille poco puri – e non mancò di manifestare il suo malcontento ai compagni. – Ma, lo ripeto: I Mille non eran gente da tornare indietro per fare delle dottrine, quando si trattava di menar le mani contro gli oppressori dell’Italia.
E, mortificato l’incorruttibile puro, se ne tornò a casa solo a fare la guerra colla penna.
Da Talamone, comandati dal colonnello Zambianchi, si staccarono una sessantina di giovani per sollevare le popolazioni soggette al papato, e coll’oggetto di distrarre i nemici e cagionare una diversione. Tale spedizione, benchè poco fortunata, non mancò di confondere i governi Italiani sulle reali intenzioni dello sbarco dei Mille6.
«Io sono certo che i componenti la spedizione Zambianchi, Guerzoni, Leardi e tutti sarebbero stati degni, come sempre, dei loro compagni, ove avessero avuto la fortuna di partecipare ai gloriosi combattimenti di Calatafimi e di Palermo».
Felice te, che il regno ampio di venti
Ippolito a tuoi verd’anni corresti.(Foscolo).
Abbiam munizioni, capsule, ed alcuni vecchi cannoni senza fusto. Che monta? li faremo.
E non sono tutte simili le fazioni di popoli contro i tiranni? Ma là v’è la coscienza del diritto e quella risoluzione che agevola le più difficili imprese.
Il Dispotismo ha dei mercenarii disciplinati, è vero, ben nutriti, ed uniformati. Ma guai a voi, padroni, se siete lenti a somministrar grassi stipendi. Essi vi fucileranno colla stessa sanguinaria indifferenza, come fucilano oggi gli sventurati che si lamentano delle vostre depredazioni.
Vogate, nobili piroscafi! Vogate, voi portate tal gente che fa l’orgoglio d’una nazione oppressa, calunniata, ma con una storia, accanto a cui si inchinano le storie dei più grandi popoli della terra.
Questa gioventù brillante è accompagnata dai palpiti e dalle benedizioni delle madri, delle spose, delle amanti, e da quanti cuori generosi sentono la dignità della patria e l’insofferenza di dominio straniero.
L’onde azzurre del Tirreno, increspate dal zeffiro, dondolavano dolcemente i piroscafi, che vogavano a tutta velocità verso il loro destino, e pochi eran gli Argonauti afflitti dal mal di mare. Male che non ben si definisce, poichè fortissime nature vi son soggette, mentre persone gracili non ne risentono i nauseanti effetti.
Come autorità incontestabile si dice: il grandissimo tra gli Ammiragli moderni, Nelson, soffrisse di tale disagio.
Sulla tolda del Piemonte un alterco non sanguinoso certamente, succedea tra il pacato maggiore Bassini ed il focoso tenente Piccinini, il primo di Pavia, e figlio il secondo delle valli Bergamasche, ambi valorosi. E ciò che prova non esser essi affetti dal male di mare, si è che la disputa proveniva dalla distribuzione del rancio.
Era proprio curioso veder l’eccellente Bassini inarcar le ciglia con un’aria d’autorità che gli dava il grado, ma che non sentiva in fondo, essendo di natura amorevole ed affettuoso anche coi minimi suoi subordinati.
Il Piccinini, più nerboruto ed ardente del suo superiore, aveva tutt’altro che intenzione di perdergli il rispetto, ma iniziata la controversia, e credendo aver ragione, ripugnava di cedere in presenza de’ compagni affollati a contemplarli.
Più curioso ancora era osservare quella massa di giovani, fra cui molti studenti e professori, appartenenti a più cospicue famiglie, osservarli, dico, colla loro scodella alla mano, divorando cogli occhi la caldaia, ed aspettando impazienti e silenziosi che finisse la questione tra i due veterani ufficiali. E devo confessare, a scapito della disciplina volontaria, che l’alterco non si disponeva a terminare molto presto, se non succedeva il fatto seguente che vi pose fine.
«Un uomo in mare! un uomo in mare!» si udì dalla prora del Piemonte, e si ripetè in un momento fino alla poppa.
E veramente un corpo umano vedevasi scorrere lungo il fianco sinistro del piroscafo, passar fuori delle ruote e lasciato indietro in un momento. Si fermò la macchina, si sciò7 indietro e cinque dei nostri marini furono in un istante sull’ammainato palischermo di sinistra e salvarono il pericolante compagno.
Quand’io penso a quella classe privilegiata d’uomini di mare, sì svelti, sì coraggiosi che si dondolano graziosamente su d’un pennone nelle tempeste e qualche volta al più alto dell’alberatura, mi torna il prurito dell’antica professione, e ricordo con compiacenza l’ammirazione e l’affetto che in tutta la vita ho nutrito per il buono ed ardito marinaro italiano.
Per la sventurata condizione del suo paese, il marinaro italiano è obbligato di cercare impiego sui legni stranieri d’ogni nazione. Dalla Francia alle Indie voi lo trovate dovunque, e dovunque stimato e portato in palma di mano (come diciamo noi marini), perchè a nessuno la cede in abilità, laboriosità e coraggio.
Il Perù, il Chilì, e tutta la costa americana del Pacifico, è zeppa dei nostri arditi navigatori.
Nel Rio della Plata, dal palischermo che vi sbarca, al piroscafo ed alla palandra che vi conducono nell’interno di quei fiumi immensi, son quasi tutti italiani.
Ed il Governo italiano sa esso di avere il fiore dei nostri marinari sparsi sulla superficie del globo? Dico fiore, poichè sono veramente i migliori, coloro che insofferenti di miserie e di depredazioni si lanciano nelle avventure di vagante vita in lontane contrade.
Il governo sa d’aver molti marinari, e per le sue belle imprese li trova anche eccellenti. Io sono comunque d’avviso, che sebbene non sianvi i migliori marini a bordo dei nostri bastimenti da guerra, la colpa delle nostre sconfitte sarà sempre unicamente per direzione pessima.
O Carambollo! perchè non ti ricorderò ai nostri concittadini! Forse perchè, semplice marinaro? E che importa! tu eri tanto buono, tanto agile, e coraggioso da servir di tipo al vero marinaro italiano.
Carambollo, compagno mio a bordo di una fregata francese destinata a Tunisi nel 1835, aveva fatto parte dei marinai della guardia, nella campagna del 1812 in Russia quando gl’Italiani erano legati al carro del primo Bonaparte. E in tutte le sue parodie il 3º Impero è pervenuto anche oggi ad assoggettare questo infelice nostro popolo!
Non era dunque più giovane Carambollo; ma quando si divertiva a volare da un albero della fregata all’altro, appena tenendosi colle mani o coi piedi, egli levava tutti in ammirazione.
Il salvato dalle onde manifestò alcuni segni di pazzia, e forse egli si gittò col proposito di raggiungere il Lombardo che veniva dietro il Piemonte; la freschezza del mare però tornandolo a più savi consigli, egli mostrossi espertissimo nuotatore lottando per raggiungere il palischermo che vogava alla di lui direzione.
Il contrattempo delle munizioni, nella prima notte del nostro viaggio che ci obbligò di andare a Talamone e quello del pazzo che ci ritardò alquanto, influirono certamente al buon esito della spedizione. E veramente avendo toccato nel porto suddetto fuori d’ogni previdenza ci sviammo dalla retta che va da Genova all’Occidente della Sicilia. Il benefizio del ritardo, cagionato dal pazzo, lo vedremo al nostro arrivo a Marsala. La traversata si compie senza altri incidenti, e l’alba dell’11 maggio ci trovò all’atterraggio del Marittimo.
L’immacolato tricolor dolenti
Sì noi macchiammo per veder risorti
Della Romana Italia i macilenti
Nipoti a un fascio e a un camminar consorti.(Autore conosciuto).
Eccola! l’isola dei portenti; la patria di Cerere, d’Archimede e dei Vespri, cioè dell’intelligenza e del valore. – Archimede, prototipo dei favoriti dell’Onnipotente, trovava il globo da lui abitato cosa insignificante, paragonato all’infinito, e chiedeva una leva, il manico d’una scopa, per smuovere questo domicilio d’insetti.
I Vespri! E qual popolo della terra ha i vespri? – Roma cacciò i Tarquinii; Saragozza i Napoleonidi; Genova e Bologna gli Austriaci, ma chi, come questo invitto popolo, esterminò in poche ore un esercito formidabile d’oppressori senza lasciarne vestigio? Fatto unico nella storia del mondo!
La direzione dei Mille era pur Sciacca8, ma l’ora tarda consigliò d’approdare al porto più vicino di Marsala.
La pesca è per il laborioso popolo di Sicilia un mezzo d’industria non indifferente, e l’isola in tutte le sue coste è solcata da molte barche pescherecce.
I Mille avean bisogno di conoscere se v’erano legni da guerra in Marsala, e quindi si corse sopra un pescatore per aver informazioni. Il pescatore che servì anche da pratico, informò che soltanto una corvetta inglese giaceva all’áncora su quella rada; che però varii bastimenti da guerra n’eran partiti alla mattina con direzione a levante verso Capo S. Marco.
E veramente verso Capo S. Marco si scorgevano due vapori ed una fregata nemici che si diressero su di noi subito scoperti.
Qui corse all’idea di molti che il ritardo in mare per ricuperare il pazzo fu giovevole.
Giunti a Marsala i due piroscafi, s’incominciò subito lo sbarco, aiutati dai palischermi di varii legni mercantili ancorati nel porto.
Il Generale Türr, con una compagnia di avanguardia, marciò immediatamente verso la città, ove non vi fu resistenza. Intanto i Mille sfilavano coperti dal molo, e poco curando una pioggia di granate e mitraglie che il naviglio Borbonico inviava a profusione, e che per fortuna non cagionò feriti.
A Marsala si parlò di dittatura, che poi venne proclamata a Salemi nel giorno seguente, e si confermò il motto: Italia e Vittorio Emanuele. Savia deliberazione che, non ostante l’opinione contraria dei puri (manifestata in seguito), giovò non poco a facilitare la spedizione.
Il 12 maggio si giunse a Salemi, ove si cominciò ad aver la riunione d’alcune squadre di Siciliani.
Il 13 si giunse ad una tenuta campestre, il di cui proprietario credo fosse un Mistretta.
Il 14 a Vita, ove s’ebbero notizie trovarsi il nemico a Calatafimi.
Il glorioso 15 maggio decise della sorte della campagna.
Vittorioso!
Non catafratto un popolo
Dalla battaglia uscir!(Berchet).
L’alba del 15 maggio trovò i Mille disposti a battaglia sulle alture di Vita, piccolo villaggio di quel nome, e dopo poco il nemico usciva in colonna da Calatafimi alla nostra direzione.
I colli di Vita sono fronteggiati verso tramontana dalle alture chiamate Pianto dei Romani; distanti un miglio circa dalla città di Calatafimi, ove esiste la tradizione: esser stati i Romani disfatti in quel sito dai Siciliani, collegati alla potente popolazione di Segeste, di cui si scoprono le ruine non lontane al settentrione.
Dalla parte di Calatafimi le alture suddette hanno un dolce declivio: il nemico le ascese facilmente e ne coronò i vertici tutti. Così rimase colla fronte appoggiata alla parte scoscesa che guardava verso i Mille.
Occupando noi le alture opposte a mezzogiorno era forse più conveniente di aspettarlo che iniziare l’attacco. E veramente spiegammo i Carabinieri Genovesi, in catena, sull’ultimo ciglione della posizione nostra verso il nemico.
Le compagnie restanti dei Mille scaglionate indietro ed in colonna, e la nostra povera ma valorosa artiglieria sullo stradale alla nostra sinistra.
Il nemico credendo d’aver a fare forse colle sole squadre, essendo i Mille al coperto, inviò baldanzoso alcune catene di tiratori con adeguati sostegni e due pezzi di montagna.
Giunto a tiro, esso cominciò a far fuoco, e continuò ad avanzare su di noi. L’ordine tra i Mille era di non sparare ed aspettare il nemico vicino; quantunque già i prodi Liguri avessero un morto e varii feriti.
Come foriero di vittoria, uno squillo di tromba nostra suonò una sveglia americana, e l’avanguardia nemica come per incanto fermossi e forse i suoi capi si pentirono d’aver avanzato tanto. – I Borbonici capirono di non aver a che fare colle sole squadre, e le loro catene cominciarono un movimento retrogrado.
I Mille toccarono allora la carica – i Carabinieri Genovesi in testa e con loro un’eletta schiera di giovani non appartenenti alle compagnie ed impazienti di menar le mani.
L’intenzione della carica era di fugar l’avanguardia nemica e d’impossessarsi dei pezzi – ciocchè fu eseguito con un impeto degno dei campioni della libertà italiana – non però di attaccare di fronte le formidabili posizioni occupate dal nemico con molte forze.
Però chi fermava più quei focosi e prodi volontari, una volta lanciati sul nemico? – Invano le trombe toccarono: Alto! I nostri o non le udirono o fecero i sordi, e portarono a baionettate l’avanguardia nemica sino a mischiarla col grosso delle forze Borboniche che coronavano le alture.
Non v’era tempo da perdere, o perduto sarebbe stato quel pugno di prodi – e subito dunque si toccò a carica generale, e l’intiero corpo dei Mille accompagnato da alcuni coraggiosi delle squadre, mosse a passo celere alla riscossa.
La parte più pericolosa dello spazio da percorrersi era nella vallata che ci divideva dal nemico. Ivi pioveva una grandine di moschetterie e mitraglie che ci ferirono un bel po’ di gente.
Giunti poi a piede del Monte Romano, si era quasi al coperto delle offese, ed in quel punto i Mille, alquanto diminuiti di numero, si aggrupparono alla loro avanguardia. – La situazione era suprema! Il nemico più forte di noi in numero, era lì sulla testa nostra in posizioni fortissime! – Eppure bisognava vincere! – E con tale risoluzione si cominciò ad ascendere la prima banchina.
Non ricordo il numero, ma certo eran varie le banchine che ci dividevano dai Borbonici.
Ed ogni volta che si avanzava dopo aver preso fiato, da una banchina all’altra, era una grandinata di palle. – E noi! – Mi fa ribrezzo il ricordarlo! i catenacci che ci aveva regalati il Governo Sardo, ci negavano fuoco, e si scorgeva il dispetto sull’eroiche fisonomie di quei giovani, che spero saran presi ad esempio dalla generazione che segue, destinata a compiere l’opera santa.
Qui pure fu grande il servizio reso dai figli della Superba9 che armati delle loro buone carabine, sostenevano l’onore delle armi. – Tutti poi corrispondendo all’intemerata risoluzione di andar avanti, finirono coll’affidarsi al freddo ferro delle loro baionette.
Calatafimi! Io, avanzo di tante pugne, se all’ultimo mio respiro – i miei amici vedranmi sorridere l’ultimo sorriso d’orgoglio – esso sarà ricordando – Tu fosti il combattimento più glorioso di popolo!
I Mille, vestiti in borghese, degni rappresentanti d’una nazione oppressa, assaltavano, col sangue freddo dei Trecento di Sparta o di Roma, un nemico numeroso, di posizione in posizione – e formidabile – ed i soldati della tirannide brillanti di pistagne e spalline fuggivano davanti a loro!
Come potrò io scordare quel gruppo di giovani, che tementi di vedermi ferito, m’attorniavano, facendomi del loro prezioso corpo un baluardo impenetrabile!
Se io scrivo commosso a tali memorie, ne ho ben donde! E dover mio non è forse di ricordar, fra i molti, almeno i nomi di quei valorosi caduti: Montanari, Schiaffino, Poggi, Elia?10.
E tu i cari parenti e l’idïoma
Desti a quel dolce di Calliope labbro
Che amore in Grecia nudo e nudo in Roma
D’un velo candissimo adornando
Depose in grembo a Venere celeste.(Foscolo.)
Ma chi furon quei due giovinetti che nel gruppo dei più arditi tra gli Argonauti volevan precederli verso il nemico gareggiando a chi doveva affrontarlo pel primo?
Essi son diversi di forme, l’uno pare un figlio della Germania, colla sua capigliatura bionda, che non potea esser nascosta da un bonetto cui s’attortigliava graziosamente una fascia di seta; l’altro bruno di volto e di capelli, somigliava piuttosto ad un meridionale italiano. Ambi imberbi, ciocchè li mostra giovanissimi. La foggia del vestire è quasi identica, alquanto più accurata del resto dei Mille, ma modesta. E veramente non v’era sfarzo nella famosa schiera.
Giovanissimi sì, ma il moschetto lo maneggiavano da veterani, e siccome tali armi eran pure armi regie, di cui accennammo più sopra, i crik dei colpi falliti eran numerosi e la speranza della vittoria riposava sull’innestata baionetta.
Tra i numerosi giovani studenti v’eran pure imberbi, bellissimi di volto e della persona, ma nessuno certamente pareggiava la squisita bellezza dei nostri due dell’avanguardia. Il loro volto, come abbiam detto, di colore diverso, colpiva lo sguardo colla nobile beltà della robusta Cinzia, indomabile cacciatrice. I contorni dei loro fianchi però accusavano, più d’alcune svolazzanti treccie, qualche cosa esclusiva del sesso gentile.
E veramente mentre, in un momento di sosta sotto una delle banchine descritte nel capitolo anteriore, io contemplava quella bellissima e valorosissima copia davanti a me – P… diretto a Nullo diceva: «È inutile! queste ragazze non vogliono stare indietro».
Io informato sino a quel momento che una sola del sesso gentile11 faceva parte della spedizione, venni così a sapere esser esse di più.
Nel turbinìo dell’assalto, della fuga, e della persecuzione, io vidi avvolgersi sempre fra i primi le due incantevoli creature. – E per un momento trasportato dal calore della pugna, e dal fascino della bellezza, mi sembrò d’esser lanciato in quei tempi eroici ove i genii e le dee presiedevano agli eventi delle battaglie.
Le due eroine, giacchè le conosciamo donne, avevano perduto nella mischia i loro fez (bonetti) e turbanti; dimodochè una capigliatura d’oro ed una d’ebano avean per un momento svolazzato sull’altipiano del Pianto del Romani. – Esse indispettite d’essere state svelate, misero le ali ai piedi, e perseguirono disperatamente il nemico. – Le due coraggiose sarebbero forse giunte a Calatafimi la stessa sera, se P… e Nullo, l’eroe della Polonia – ferito in un piede, correndo sopra il sano solo – non le avessero fatte tornare indietro.
La sera di quel glorioso giorno, io stanco, mi riposavo nella vallata che divide Calatafimi dal Pianto dei Romani; quando P… presentossi a me con quelle due belle figure che tanto m’avean colpito nella giornata.
«Lina, mia sorella, mi disse, viene colla sua compagna Marzia, a chiedervi perdono, d’aver trasgredito l’ordine di non potersi imbarcare donne nella spedizione».
«Lina è dunque figlia delle belle valli lombarde», io risposi: non potendo decidermi ad un rimprovero, ed un poco sorpreso da tale visita; poi alquanto rinfrancato: «quando per una trasgressione si acquistano tali valorose come sono vostra sorella e la compagna, io, che non sono un modello d’ordine, posso bene accomodarmivi».
Un momento di silenzio seguì l’interessante colloquio, e vedendomi fiso al volto di Marzia, P… riprese: «Marzia è Romana, e non possiamo dirvi altro di essa, poichè ella stessa non ci ha fatto sapere di più». E senza aspettare la mia risposta, P… continuò: «Non vogliamo tediarvi, poichè dovete essere stanco».
«Lina vuol presentarvi un mantello incerato, tolto ad un ufficiale nemico, e che vi servirà, sprovvisto come siete, per coprirvi dalla rugiada», e senza darmi tempo di ringraziare, i tre si dileguarono nelle tenebre.
Io m’addormentai, sognando di battaglie, di dee, di genii, d’Italia intiera risorta, e la sveglia, con cui il mio tromba avea petrificato il nemico nel giorno antecedente, mi destò colla piacevole notizia: che il nemico avea abbandonata Calatafimi.
E fu veramente grata tale notizia, poichè tenendo il nemico Calatafimi, noi avremmo dovuto ben sudare per impossessarci di quella formidabile posizione.
La vittoria
È sul brando del forte.(Autore conosciuto).
La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la brillante campagna del 1860.
Era un vero bisogno d’iniziare la spedizione con uno strepitoso fatto d’armi. Esso demoralizzò gli avversari che colla loro fervida immaginazione meridionale, raccontavan portenti sul valore dei Mille, e sulla impenetrabilità della loro pelle a qualunque proietto, e rinfrancò i prodi Siciliani che, per esser pochi, erano stati scossi dagl’immensi presidii di soldati, e di mezzi accumulati dai Borbonici nell’isola.
Palermo, Melazzo, il Volturno, videro molto più feriti e cadaveri. – Vi furono certamente delle pugne più lunghe ed accanite. – Per me però il combattimento decisivo fu Calatafimi. – Dopo il Pianto dei Romani, i nostri sapevano che doveano vincere; e quando s’inizia una pugna con quel prestigio, si vince!
Novara, Custoza, Lissa, e forse anche Mentana, nullostante tanta disparità di mezzi e di numero, sono una sventura per l’Italia, non tanto per le perdite nostre d’uomini e di mezzi, quanto per la boria dei nostri nemici che certamente non valgono più degli Italiani; e che dovendo combatterci, verranno a noi come su preda facile, su gente che si spinge avanti coi calci dei fucili.
E non dubito: gli oppressori nostri s’inganneranno, ove la gente italica sia guidata da un uomo ben convinto che bisogna vincere.
Le battaglie suaccennate di Novara, Custoza, Lissa, non furono disputate. – In tutte, le nostre forze pugnarono parzialmente, e la maggior parte rimase inoperosa, e ad altro non servì che ad accrescere la confusione della ritirata.
Io ho conosciuto in America un valorosissimo generale che dopo d’aver iniziato brillantemente una battaglia, a qualunque rovescio parziale comandava la ritirata, e ne conseguiva certo che, ritirandosi di giorno davanti a un nemico impegnato, la ritirata si cambiava in sconfitta.
Ridotto oggi a consigliare i giovani che guidavo una volta, io non cesserò di ammonirli sulla necessità di costanza, sia nel durare alle fatiche e disagi, nelle guerre che pur troppo dovranno ancor fare; sia nelle giornate di pugna grandi o piccole.
A Melazzo i Mille furono perdenti fin verso sera, avendo cominciato il combattimento all’alba, ed un ultimo sforzo fatto sul fianco sinistro del nemico, decise della giornata.
Al Volturno, iniziata la battaglia prima dell’alba, il nemico era ancora padrone del campo di battaglia alle 3 pomeridiane; quando giunsero alcune riserve da Caserta che influirono a cacciarlo dentro Capua in men d’un’ora.
Non dirò di Palermo, ove vi fu non solo costanza da parte dei pochi militi nostri e della inerme popolazione, ma sfacciataggine di cacciar via dalla città ventimila soldati che potevan far l’orgoglio di qualunque generale.
Alle prime prove dell’Italia contro i suoi eterni nemici, vi vorrà un Fabio che sappia temporeggiare: ed il nostro paese è tale da poter guerreggiare come si vuole; accettare o no una battaglia quando convenga, gettando frattanto alle spalle del nemico e su tutte le sue comunicazioni tutta la parte virile della nazione, non in guanti bianchi come soglionsi ricevere gli invasori – ma col ferro e col fuoco – fucilando il traditore che ha dato un bicchier d’acqua ad un assassino. Poichè è assassino chi invade proditoriamente la casa di un vicino e se ne fa padrone.
Allora verrà presto la parte di Marcello della spada di Roma, che potrà senza cerimonie attaccar di fronte il borioso nemico, e finalmente Zama, ove un nuovo Scipione torrà ad esso la voglia di venir ancora a mangiare i nostri fichi.
Anche in questo mi tormenta l’idea del prete, che vuol fare degli Itali tanti sagrestani. – E se l’Italia non vi rimedia, è un affare serio! I gesuiti non ponno far altro che: ipocriti, mentitori, e codardi! Vi pensi chi deve che, per marciare e dar delle splendide baionettate vi vuol gente forte.
Calatafimi sgombro dai nemici fu da noi occupato. La maggior parte dei nostri feriti era stata trasportata a Vita.
A Calatafimi trovammo i più gravi dei feriti nemici, e furon trattati da fratelli. – Avean qualche rimorso queste dominatrici famiglie dell’Italia, nell’aizzare le nostre popolazioni infelici, siccome mastini, le une contro le altre?
Rimorsi! Ma che rimorsi! Tutto il loro studio non era forse d’inimicarle, e tutto il loro interesse? – acciocchè continuasse ad esser difficilissimo, se non impossibile, l’unificazione della patria Italiana?
Sarebbe lunga la storia delle corruzioni e dei tradimenti di codesti signorotti per il diritto divino, oggi felicemente mendicanti per la maggior parte; tuttora però, traditori e pervertitori della nazione.
Le genti della Trinacria frattanto accorrevano ad ingrossar le fila dei Mille. Alcamo accoglieva i vincitori con tutto l’entusiasmo di cui sono capaci quei fervidi Meridionali. – Partinico fece di più: vedendo i nemici che sì crudeli eran stati cogli abitanti, ora sbandati e fuggenti, quella popolazione diede loro addosso, e sino le donne trucidarono di quei disgraziati.
Miserabile spettacolo! noi trovammo i cadaveri dei soldati Borbonici per le vie divorati dai cani!!!
Eran pure cadaveri d’Italiani che, se educati alla vita dei liberi, avrebbero servito efficacemente la causa del loro oppresso paese, ed invece come frutto dell’odio suscitato dai loro perversi padroni, essi finivano straziati e mutilati dai loro proprii fratelli con tale rabbia da far inorridire i Torquemada.
Dalle belle pianure d’Alcamo e di Partinico la colonna ascendeva per Borgetto sull’altipiano di Renne, da dove dominava la conca d’oro e la Regina dei Vespri – che confesso – se fra le sue cento città, Italia avesse una mezza dozzina di Palermo – da molto tempo lo straniero non calpesterebbe questa nostra terra. – E certo il Governo dei birri e delle spie o marcerebbe diritto o il diavolo se lo sarebbe portato via.
Renne sarebbe una posizione formidabile, se nello stesso tempo ch’essa domina lo stradale da Palermo a Partinico non fosse dominata dalle alture immediate a mezzogiorno e tramontana che appartengono ai monti irregolari che circondano la ricca vallata della capitale. Renne è famosa nella campagna dei Mille per due giorni di copiosa pioggia, passati senza il necessario per affrontare le intemperie, ove fu assai incomodata la gente, ma ove quel pugno di prodi provò: esser disposto ai disagi siccome a disperate battaglie.
E tu onore di pianto Ettore avrai
Ove fia santo e lagrimato il sangue
Per la patria versato, e finchè il sole
Risplenderà sulle sciagure umane.(Foscolo).
Prima del 5 maggio partivano da Genova due giovani con destinazione alla Trinacria. L’uno bellissimo e castagno di capigliatura, apparteneva a nobile famiglia dell’isola; l’altro avea la bellezza del plebeo meridionale, con una capigliatura d’ebano, un volto regolare ma bronzato, tarchiato e robustissimo. – Egli era, a non ingannarsi, uno di quella casta che la fortuna condanna a menar le braccia per la sussistenza, e che qualche volta stimolati da istinti generosi o dall’ambizione d’innalzarsi, si lanciano al di fuori dell’area in cui la sorte sembrava volerli circoscrivere; e, se coadiuvati dal genio, si vedono transitare dall’infimo della condizione umana ai gradini superiori. – Tali i Cincinnati, i Mario ed i Colombo.
L’Italia incontrastabilmente – paese di non comune intelligenza in tutte le classi – ha forse troppi di questi nobili plebei ambiziosi di migliorare od innalzare la propria condizione: ciocchè, senza dubbio, è causa d’aver essa in proporzione un’esorbitanza di cittadini repugnanti alle manuali occupazioni.
Per esempio, ho veduto in America dei giovani Italiani letterati, ridotti a non trovar impiego e quindi alla miseria; mentre i nostri operai, contadini, carpentieri, ecc., appena giunti eran cercatissimi, impiegati subito con splendidi salari, e vivevano perciò una vita agiatissima.
Nella propensione nostra quindi di salire nella scala umana, v’è bene e male – dipendendo dalla fortuna, accertare o no, l’uno o l’altro. – Comunque io consiglierò sempre a’ miei concittadini d’imparare un’arte manuale qualunque – ove troveranno sempre più robustezza che nelle occupazioni di scrivanie – e più sicurezza di guadagnar la vita in ogni parte del mondo – sopratutto poi, non dimenticar la massima di spender nove quando si possiede dieci.
Nell’anima dei due però, che si lanciavano a morte quasi sicura, v’era la devozione eroica dei Leonida e dei Muzio Scevola. – Rosolino Pilo e Corrao ponno giustamente chiamarsi i precursori dei Mille; e noi li trovammo in Sicilia dopo di una traversata portentosa, facendo propaganda emancipatrice, e solleticando i coraggiosi figli dell’Etna a sollevarsi colla promessa di pronti soccorsi dal continente.
Due individui e non più sbarcavano sulla loro terra – proscritti e condannati a morte – spargendo la loro santa propaganda, e senza esitare dirò: con tanta sicurezza come sulla terra d’asilo!
Sappilo, tirannide! e sappi che questa non è terra da spie! Tu hai perduto il tuo tempo, impiegando ogni specie di corruzione! Qui – su questi frantumi di lava – il tuo potere, brutto di sangue e di vergogna, è effimero!
Butta giù quella tua maschera di Statuto, a cui nessuno più crede, e mostrati col tuo ceffo deforme da Eliogabalo o da Caracalla – qui altro non è che questione di tempo – d’anni – che dico? forse di giorni. – Che s’intendano questi ringhiosi discendenti della discordia e della grandezza, e come nel Vespro, in poche ore, verun vestigio resterà più delle vostre sbirraglie.
Rosolino Pilo in una scaramuccia coi Borbonici – mentre i Mille facevano alcune fucilate nelle vicinanze di Renne – fu colpito da un piombo nemico, mentre si accingeva a scrivermi dalle alture di S. Martino, e stramazzò cadavere.
Italia perdeva uno dei più forti di quella brillante schiera, che col loro coraggio e nobile contegno menomano alquanto le sue umiliazioni e le sue miserie.
Corrao, men fortunato di Rosolino, dopo d’aver pugnato valorosamente in ogni combattimento del 60, morì di piombo italiano per gare individuali.
Il generoso popolo della Sicilia, io spero, non dimenticherà quei suoi due prodissimi concittadini.
La donna bella, buona e coraggiosa
È un vero portento della natura.(Autore conosciuto).
Nel campo di Renne, ove i Mille eran sequestrati da piogge dirotte, v’era mestieri di notizie certe sulla situazione di Palermo. – Quell’invitta popolazione fremente, di quel fremito che fa tremar la tirannide corazzata d’acciaio ed assiepata da baionette, era tenuta dopo l’eroico tentativo del 4 aprile nel più assoluto e rigoroso stato d’assedio.
Poche eran le comunicazioni colla campagna, e quelle poche persone a cui era permessa l’uscita dalla città dovevano garantire il Governo che nulla da loro avea da temere di congiure o d’intelligenza coi patrioti di fuori – al solito chiamati briganti.
Ma mal si governa colla tirannide e peggio ancora con popoli che hanno tradizioni come quella dei Vespri – la più terribile delle lezioni data dai popoli ai loro oppressori – e che non trova paragone in nessun tempo ed in nessuna delle storie delle Nazioni.
Italia! terra dei morti– secondo uno di quei grandi che vengono nominati tali, perchè nacquero tra generazioni di piccoli. – Italia, dico, depressa oggi, umiliata – e detto in onor del vero – anche disprezzata – conta dei fatti che nessun popolo della terra uguaglia.
1º Giunio Bruto, condannando a morte i proprii figli perchè creduti implicati in una congiura contro lo Stato.
2º Manlio, dittatore, facendo decapitare in sua presenza il valoroso suo figlio vincitore d’un gigante latino che avea sfidato a pugna singolare i migliori dell’Esercito Romano, perchè avea trasgredito il divieto dittatoriale di non uscire dalle fila. Questi due fatti d’insuperabile disciplina sono forse la chiave di quella severissima disciplina romana che condusse le Legioni su tutto l’orbe conosciuto, e di cui si trovò un saggio sotto le ceneri di Pompei, d’un legionario che coll’arma al piede lasciossi coprire dalle ceneri senza muoversi.
3º E i Vespri? Un popolo che conta i Vespri ne’ suoi annali, può durar poco nel servaggio. – E ricordatelo bene voi che nei tempi presenti (1870) cercate di imbavagliarlo con delle concessioni e delle carezze più o meno scellerate e sempre gesuitiche. – Voi che nascondete le ugne d’acciaio degli antichi signorotti sotto uno straccio di carta che presto, speriamolo, per il decoro dell’Italiana famiglia, vedremo svolazzare nel letamaio delle genti rigenerate.
Lina e Marzia abbandonando la loro assisa maschile, aveano indossato le vestimenta più confacenti alle loro bellissime forme, cioè la sottana ed il farsetto, così graziosamente allacciato dalle vezzose forosette della conca d’oro. Due rossi fazzoletti di seta che per caso si trovarono nel vicino borgo di Misero i cannoni, furono fantasticamente avvolti a quelle teste da modello, nascondendo non totalmente le ricchissime capigliature, giacchè il sesso gentile ama, com’è naturale, di mostrare i tesori che natura profuse sulla creatura prediletta.
Solo i calzari delle due eroine avevano militare, o piuttosto, cacciatrice fisionomia, poichè nel borgo suddetto non si trovarono calzature fatte da donna.
I volontari contemplavano meravigliati le superbe donzelle che sì fiere avean veduto sul campo di battaglia, ora orgogliose d’essere prescelte ad ardua e pericolosa impresa, e poi si guardavan l’un l’altro stupefatti.
Nullo, perdutamente innamorato della Lina – da lui conosciuta nelle natíe ed alpestri valli – supplicava invano il comando dei Mille, di lasciarlo andare in compagnia della bella coppia.
E P… non meno di lui invaghito della Marzia manifestava lo stesso proponimento. Alla vigilia di serii combattimenti però, non si volle privare il corpo di due sì valorosi ufficiali.
Una contadina del borgo anzidetto fu destinata ad accompagnarle come guida. – E così munite di adeguate istruzioni Lina e Marzia s’incamminarono verso la capitale della Sicilia, le di cui altiere torri scorgevansi alla distanza di poche miglia, dominando la superba metropoli dei Vespri ed il littorale Mediterraneo.
Italia, Italia, tu, cui feo la sorte
Dono infelice di bellezza…
… Nè te vedrei del non tuo ferro cinta
Pugnar col braccio di straniera gente
Per servir sempre, o vincitrice, o vinta.(Filicaja).
Ed eccomi ancora a trattare del pugnale, quantunque mi ripugni ricominciare con tale terribile argomento.
E perchè dunque vi costituite tiranni? Perchè da secoli questa mia terra deve servire di lupanare a quanti malandrini porta l’Europa?
Perchè essi vengono a mangiarci i frutti, a beverci il vino, che costarono il sudore della nostra fronte?
Perchè? Perchè? arrossisco nel pensare a tanti altri perchè, che solo il pugnale può vendicare!
E voi, amabili ed umani dominatori dell’Occidente e del Settentrione, qual’armi avete concesso ai vostri Iloti italiani, perchè non dovessero servirsi d’un ferro, per vendicare un oltraggio od un disonore?
Oggi ancora, ladroni spudorati, voi infestate le nostre terre che tenete a ruba da varii secoli, – sotto il falso pretesto di religione che non avete, e di diritto divino con cui burlate il mondo. – Ditemi voi: se più legali sono i vostri furti e le vostre violenze, od il ferro italiano che qualche volta – segna le vostre schifose fisonomie?
Ditemi, s’eran legali i vostri assassinii, commessi contro i Messicani, tra cui l’italiano generale Ghilardi fucilato proditoriamente dal servo del 2 Dicembre, Bazaine, contro i Romani del 49 e del 67, contro i Veneti, i Bassi, i Ciceroacchi con due figli e nove compagni, i martiri di Belfiore, ecc. ecc., tutti onesti, tutta gente di cui più valeva un capello che tutta l’anima vostra, carnefici del genere umano!
E verrà un giorno in cui l’Italia purgata dei suoi Tersiti, e dei suoi impostori che l’addormentano e la corrompono, vi tratterà non più coi guanti bianchi – come siete usi ad esser trattati in questo sventurato paese, ma da assassini vi tratterà, come siete, impiegando i mezzi che adoperano i popoli per redimersi da tiranni e da ladri, cioè: pugnale, fuoco, veleno.
E non fate cipiglio – signori vermi della società umana – a tali felici augurii per il mondo, poichè grassi, pistagnati, indorati come siete, siete più nocivi dell’insetto che rode le radici della pianta alimentaria, e dell’avvelenatore rettile, che uccide quasi istantaneamente l’umana creatura.
Sì! voi oppressori delle genti e sostenitori della menzogna, siete la peste del mondo!
È duopo rammentar sovente tutto ciò ai dormenti nostri concittadini: acciò smentiscano i soddisfatti, perchè con pancia piena spacciano massime che son tutte menzogne e paroloni di libertà, di indipendenza e di unità italiana con solo di vero: miseria e degradazione!
E finalmente: non è il Buonaparte con complici il Governo italiano ed i preti, il mantenitore del brigantaggio nell’Italia meridionale?
E non sono i despoti, i fomentatori delle rivoluzioni nel mondo?
Io sfido che si provi il contrario.
L’immacolato tricolor, dolenti
Sì, noi macchiammo, per veder risorti
Della Romana Italia, i macilenti
Nipoti a un fascio e ad un cammin consorti.
Or dimmi: hai tu dell’Italo fidente
Appagata la speme – e le proterve
De’ suoi tiranni, soldatesche hai spente —
Birri un dì noi vedemmo e genti serve
Su quest’afflitta terra – e fatalmente
De’ servi e birri, noi vediam caterve.(Autore conosciuto).
Ammiratore della rigida, non uguagliata da nessun popolo della terra, antica disciplina romana, io, sono quindi amante dell’ordine, cioè – vorrei vedere i popoli prosperi, liberi, felici – ed i loro reggitori, occupati non d’altro che del loro benessere – garanzie sicure queste della quiete pubblica.
Non reggitori simili agli odierni d’Italia, speculando sulle miserie della nazione, rovinandola per soddisfare a depravati capricci, non più tollerati dalla società moderna – e per impinguare numerosa caterva di satelliti che lor fan corona.
Sì! ordine vogliam noi, uomini della libertà e del progresso – cioè: Repubblicani.
Ordine! ordine! e chi lo disturba quest’ordine che l’umanità richiede – siete voi, persecutori delle genti! perturbatori della condizione normale dei popoli – voi! per gozzovigliare alle spese altrui – e far infelici le nazioni che speravano da voi un governo umano e riparatore.
Sì, voi potenti per astuzia e per l’imbecillità altrui, millantate ordine, colla coscienza di mentire – rovesciando, distruggendo ogni più sacra cosa; e facendo della famiglia umana una caterva di sventurati e di spie!
L’ordine che voi volete è la quiete – quella quiete che brama l’assassino nel godimento della roba depredata.
E Maniscalco era uno di quei vili istromenti che la tirannide poltrona, paurosa e codarda, spinge fra le moltitudini per spiarle, torturarle, assassinarle, quando fia duopo, per mantenere l’ordine che disturbano alcuni affamati servi.
Essi, istrumenti, hanno il genio della corruzione, della perversità, e sanno scegliere nella folla i loro seguaci, che distinguono a cert’aria di famiglia, agli inerenti vizii inseparabili di tale bordaglia: vizii ch’essi vogliono soddisfare al prezzo di qualunque infamia, e riconoscibili poi a certa peculiare impronta famigliare alla gente dello stesso marchio.
In Palermo, Maniscalco munito di pieni poteri, ed accrescendo di potenza in ragione inversa del credito de’ suoi padroni – credito da tiranni, che sulla terra dei Vespri si scioglie tanto presto, quanto la neve al contatto della rovente lava de’ suoi vulcani – un perverso come Maniscalco – su cui posava tutta la fiducia del Borbone in Sicilia – s’era certamente permesso ogni specie di dissolutezza, di delitti e crudeltà: la purezza delle vergini, la santità dei matrimonii, tutto andava in un fascio davanti alle libidini dello scellerato. La cuffia del silenzio, e quante torture avevano inventato i Torquemada, erano impiegate per strappare dagli sventurati prigionieri i segreti delle congiure dal dispotismo suscitate.
Un giorno in via Maqueda, tutte le classi della splendida capitale della Sicilia tornavano dal passeggio della Favorita; – tutte le classi, sì, – perchè quantunque poco menomata in potenza la famiglia dei feudali, i popoli, sono fuori da quel servilismo, che nel Medio Evo, non permetteva ad un plebeo di passeggiare accanto ai favoriti dal privilegio.
Nella folla accalcata in quella seconda strada di Palermo, pavoneggiavasi il sanguinario Ministro del Re di Napoli, con scorta numerosa de’ suoi satelliti, armati fino ai denti. – Tali non compariscono in pubblico gli agenti dell’autorità, ove la libertà non è vana parola.
Il policeman dell’Inghilterra, o degli Stati Uniti ispira fiducia all’onesto cittadino, e non timore come il sinistro cagnotto della tirannide – il bravo dei signorotti moderni.
Maniscalco dunque, attorniato da’ suoi, scoteva l’altero suo capo, e gettava sulla moltitudine uno sguardo di disprezzo, e la moltitudine, come se raccogliesse la sfida dell’insolente, calcavasi sulla siepe di sgherri che corazzava il malvivente, premevala, e dal seno di quell’onda di popolo scaturiva una di quelle figure, che la poesia dipinge dominatrici delle tempeste, sieno esse di genti o di elementi.
Tale Colombo – dopo di aver dominato il pelago che divide i due mondi – dominava gl’indisciplinati suoi seguaci in una tempesta d’insubordinata diffidenza al suo genio.
Come lo scopo del grandissimo navigatore fu realtà, la manifestazione d’odio dei discendenti del Vespro e la lama d’un pugnale, sguizzava nell’aere come una fiamma e si conficcava nel petto del disprezzatore delle genti, e lo rovesciava nella polve.
Maniscalco cadeva, ed il suo sangue irrigava una terra che non era degno di calpestare.
Il feritore poi, che alcuni dissero essere un fantasma, ma che certamente era uomo che sprezzava il pericolo, non fuggì, non accelerò il passo; ma in un orgasmo che fece stupire gli astanti, e paralizzò, ammutolì gli sgherri, pria sì baldanzosi, il feritore, dico, strappò da sè l’involto di carta che lo copriva da capo a piedi, ne sparse i brandelli sul terreno, e come per miracolo si confuse nella folla, ove fu impossibile di rintracciarlo per quante indagini se ne facessero.
I Governi ed i preti adoperano ogni mezzo perverso per corrompere le genti, e riescono sovente ad attrarre nelle loro reti qualche sciagurato, ma la massa delle popolazioni in Italia abborre la delazione, ciò sia detto in onore del nostro popolo, e se la miseria od il vizio precipitano alcuno nell’infamia, certo il delatore nel nostro, benchè infelice paese, sarà sempre generalmente in orrore.
Io ho veduto il popolo di Palermo nella gloriosa rivoluzione del 60 correr in cerca dei sorci (spie) con un accanimento indescrivibile.
Chi sa quanto il coraggioso assassino avea lavorato per tagliare, cucire, pitturare cotale abbigliamento di carta somigliante ai panni da poter comparire in pubblico senza essere riconosciuto.
Era una vendetta, meditata, certamente.
E fin ora non si conosce la causa dell’attentato, nè chi lo perpetrava.
Era lo sconosciuto qualcuno dei torturati da Maniscalco? qualcuno dei feriti nell’onore? Poichè i cagnotti dei tiranni sono generalmente gente lasciva, ed il capo degli sgherri, come già abbiamo accennato, avea fama di tale – od era alcuno di coloro che preferiscono la morte al vergognoso servaggio del loro paese?
Assassino: lo chiamarono i giornali borbonici e tale lo chiamerebbero pure altri giornali non borbonici.
Assassino! e veramente io non vorrei che si uccidesse l’uomo dall’uomo, e sono contrario alla pena di morte sotto qualunque forma.
Assassino, dunque, fu il feritore di Maniscalco e Torquemada ed Arbues ed i bruciatori delle creature umane sono santificati! ed il dominatore del Tirolo che appiccò Mantovani, Ungheresi, Piemontesi! il Reggitore della Polonia passando la vita alla distruzione di quel popolo, sottoponendo al knouth sino i bambini e le donne! – ed il Magnanimo che crede oggi di coprir colla sua veste d’Agnello le macchie di sangue di tre popoli, sono Maestà!
Assai più coperti d’omicidii dell’assassino di Maniscalco, ma infine Maestà!
Palermo!
Son le tue zolle sante ed i tuoi colli
Templi ove l’uom che ne respira l’aura
Se non risente dignità – la creta
Sortiva dello schiavo!(Autore conosciuto).
Come si ponno narrare i fatti del 60 senza un ricordo all’infelice, ma eroico tentativo del 4 d’aprile, in cui un pugno d’uomini risoluti sfidò la potenza Borbonica nella capitale della Sicilia e fu comunque sia il primo episodio della gloriosa epopea?
Io lascio ai meglio informati di me l’incarico di rammentare per la Storia i nomi dei forti che vi presero parte, confessando di ricordare solo il nome di Riso, uno dei martiri dell’impresa portentosa.
Il convento della Gancia servì di ricettacolo ai cospiratori – e fu in quel memorabile giorno il campo di battaglia ove gli stessi sostennero una disugualissima pugna contro gli oppressori della patria.
Il convento della Gancia, sì, in cui i frati, benchè frati, ricordavano d’esser uomini ed Italiani, contrariamente a quelle iene di Roma, di cui la storia è una serie d’assassinii, di prostituzione, di tradimento.
I preti dei Messicani al tempo di Cortez, i sanguinarii druidi dei Celti al tempo dei Romani ed i Papas Greci ai nostri tempi, tutti si consacrano ai più orribili martirii sostenendo le cause del loro popolo.
Ed il prete italiano? Sempre traditore al suo paese, fosse esso invaso dai Turcomanni!
Il contegno dei poveri frati della Gancia fu lodevolissimo.
Essi non pugnarono, non macchiaronsi di sangue, ma identificaronsi colle aspirazioni d’un popolo generoso ed oppresso, lo favorirono e ne divisero i pericoli e le miserie.
L’inviolata quiete di cui godè il Clero in tutte le peripezie tempestose di quella prolissa campagna del 60 si dovè senza dubbio al patriottismo di quei pochi religiosi che – ad esempio di Cristo – si schierarono nelle fila degli schiavi12.
L’impresa del 4 aprile mosse gli uomini di cuore che dopo la fallita impresa della capitale presero la campagna, congiungendosi alle squadre di quegli ammirabili picciotti sempre pronti a misurare i loro poveri fucili colle armi perfezionate dei soldati della tirannide, sempre pronti, senza dimandarne la causa, a correre in sostegno dei concittadini impegnati contro mercenari nostrani o stranieri.
E qui in onore del vero devo accennare che in nessuna parte d’Italia ho trovato tanta accostevolezza da uomo a uomo, da campagna a città, quanto nella Trinacria.
Sono certo che non vincendo, i Mille, dopo di aver bruciato ed abbandonato il naviglio, essi avrebbero scelto la sorte dei Leonida o dei Fabi. Ma dovunque nella penisola, essi non avrebbero trovato l’incrollabile fedeltà, ed il sostegno che a loro sacrarono i nobili discendenti del Vespro.
In nessuna parte del mondo fuori della Sicilia sarebbe stata possibile una marcia come quella dalla Piana dei Greci a Marineo, da Marineo a Missilmeri; da questo a Gibiltossa e finalmente dall’ultimo punto a Palermo nella notte dal 26 al 27 maggio all’insaputa del nemico.
Si ricordino quindi i reggitori moderni, che invece di tanto occuparsi nel rovinare le popolazioni con tasse, imposte, macinati e il diavolo – per gozzovigliare nel vizio e nella lussuria – essi non dovrebbero accrescer l’odio che han seminato a piene mani tra coteste energiche popolazioni del mezzogiorno. Odio, che aumenta in ragione geometrica. Odio, che non domeranno con tutti i birri della terra, che riuscirà forse impotente una o dieci volte per ora, ma che trascinerà finalmente il paese in uno di quei cataclismi che le venture generazioni ricorderanno con raccapriccio.
E non crediate, signori oppressori ed impostori, che tutte le rivoluzioni le avrete a passar liscie e immacolate di sangue come quella del 60.
Troppe sono le colpe vostre e troppo l’odio che giustamente vi portano le popolazioni da voi ingannate, umiliate, depredate, tradite!
Les cloîtres, les cachots ne sont point son ouvrage.
Dieu fit la liberté, l’homme a fait l’esclavage.(Chenier).
Il 4 aprile era trascorso, e la tirannide avea trovato il mezzo di far delle vittime sempre grate a Lei, perchè con ciò crede di frenare i popoli e mantenerli nel timore. Ma di quelle vittime che sono i martiri d’una causa santa, i coraggiosi raccolgono il sangue, vi tingono le fasce delle sorgenti generazioni, ed a loro ne consacrano la memoria – e… la vendetta… – E Dio alle volte paga tardi, ma paga giusto.
Gettando nella bilancia lo stato selvaggio dell’uomo da una parte e l’incivilimento dall’altra, dovrebbe certamente risultare per il bene dell’umanità il peso maggiore nel piatto civile. Eppure qualche volta l’uomo angosciato da reggitori perversi – occupati solo a tiranneggiarlo ed impoverirlo – si trova costretto a desiare la vita primitiva delle foreste, ove mangiava frutte di selva, è vero, ma non avea la schifosa presenza del prete, del dottrinario, del birro, di quella caterva d’arpie che col nome di moderati, cointeressati ministri, pubbliche sicurezze, ecc., lo spolpano, lo corrompono e lo prostituiscono allo straniero.
Tutta gente che vogliono lautamente vivere alle spalle sue accusandolo di rivoluzionario quando si lamenta di essere stracarico, e quando vorrebbe respirare un tantino, scaraventando tutta l’odiosa turba reggitrice all’inferno!
I Governanti sono generalmente cattivi, perchè d’origine pessima e per lo più ladra. Essi, con poche eccezioni, hanno le radici del loro albero genealogico nel letamaio della violenza e del delitto.
Al loro sorgere – tempi feudali – essi, dopo d’aver cacciato l’aquila dall’alpestre nido, l’occupavano – e di là piombavano sulle inermi popolazioni, rubando quanto a loro conveniva: messe, frutta, donne e sostanze d’ogni specie per provvederne i loro covili che chiamavan castelli.
Ai tempi nostri (1870) non meno feudali di quelli, più potenti i signori, più numerosi i birri, e più servili e prostituiti i satelliti, benchè i bravi, si chiamino Pubbliche Sicurezze – e i signori, Re o Imperatore – credo si stia in peggiori condizioni, essendo gli ultimi più potenti dei primi – e con una sequela di legali cortigiani, sempre pronti a sancire colla maggioranza dei loro voti ogni più turpe mercato delle genti o delle loro sostanze.
Al Governo della cosa pubblica, poi, giacchè i padroni regnano od imperano e non governano, vi si collocano sempre coloro che ne son men degni od i più atti a sgovernare, non volendo, i despoti, gente onesta a tali offici, ma disonesti com’essi, striscianti e corruttori parassiti coll’abilità della volpe o del coccodrillo.
Ciò non succede soltanto nelle monarchie dispotiche, più o meno mascherate da liberali – ma spesso anche nelle repubbliche, ove gl’intriganti s’innalzano sovente ai primi posti dello Stato, ingannando tutto il mondo con ipocrisie e dissimulazioni; mentre uomini virtuosi e capaci, perchè modesti, rimangono confusi nella folla a detrimento del bene pubblico; e sovente pure nelle immense Società popolane succede lo stesso inconveniente; d’archimandriti immeritevoli. – I popoli son così facili ad essere ingannati!
Il principio repubblicano ha certamente fatto dei progressi in questi ultimi tempi, e non si deve disperare di vederlo finalmente prevalere. Ma ciò che succede nelle piccole società succede pure dovunque nella grande società umana, ove similmente l’intrigo e le esagerazioni fanno inciampare ad ogni passo cotesto bello andamento del progresso umano.
Parlate di Repubblica – Governo normale e naturale delle nazioni – e propagatela con successo – vi sortono subito i socialisti, i comunisti, gli agraristi, ecc., che spaventano il mondo e ritardano i risultati del vostro lavoro.
Parlate del vero e della ragione – non difficili a seminarsi nelle masse a dispetto della tirannide e del negromantismo – e compariscono gli atei, i materialisti, a menomare le vittorie del buon senso.
Aggiungete a tutto ciò le gloriuzze di certi individui che vogliono essere chiamati grandi a qualunque costo – e vogliono far parlar di loro i giornali, fosse anche per un incendio del tempio d’Efeso alla Erostrato.
Tali considerazioni mi conducono alla conseguenza d’esser possibile nel mondo, non so per quanto tempo ancora, certi governi mostruosi, come quello del Borbone – che la tempesta rivoluzionaria del 60 rovesciò nella polve – e la peste pretina – compimento delle miserie e delle degradazioni umane.
Le prigioni del despota eran zeppe a Palermo ed i fatti di Maniscalco e del 4 aprile le avean colme – giacchè la prigionia serve alla tirannide per reprimere non solo le aspirazioni dei popoli ma per spaventarli.
Lascio pensare in che orgasmo di diffidenza e di paura si trovarono le autorità borboniche nella capitale della Sicilia – allo sbarco dei Mille a Marsala. – Se vi si fosse potuto imprigionare i dugentomila abitanti, sono certo, i Borboni non vi avrebbero ripugnato.
E dopo Calatafimi e la marcia dei filibustieri sulla Metropoli? Dio me ne liberi! In tali frangenti entrarono in Palermo Lina e Marzia e Lia – la graziosa contadina dell’Agro Palermitano – le tre vestite a foggia del paese, e favorite dalla prima oscurità d’una notte di maggio.
Ho già detto: la terra del Vespro non è terra da delatori, ed era probabile che tre ragazze del paese, appartenenti al ceto rurale, potessero entrare senza eccitar sospetti nella popolosa capitale.
Mentre però passavan le tre sotto il primo riverbero di Piazza reale, due occhi somiglianti a quei del serpente13 si fissarono sul bel volto di Marzia, e vi cagionarono l’effetto della scintilla elettrica – ma malefica, ma funesta come quella vibrata dalla cupa, nera partoriente delle tempeste sulle dominanti torri del feudo o della bottega pretina.
La coraggiosa fanciulla – che abbiam veduto alla testa degli eroi di Calatafimi in quella solenne pugna – fu padroneggiata da tal brivido in tutte le membra, le luci le si ottenebrarono in tal modo, che non sentiva più il terreno sotto i piedi, traballò come in uno stato d’ubbriachezza, e senza il sostegno di Lina – a cui s’appoggiò subito – si sarebbe rovesciata sul macigno del marciapiede su cui transitavano.
«Celeste dote è negli umani – la corrispondenza d’amorosi affetti», dice Foscolo, che segue le anime elette, sacerdotesse dell’amore celeste sino oltre tomba.
L’occhiata d’un perverso che vi fa l’effetto di una punta di stile, sarà dunque l’antitesi di quella dote e la potremo chiamar: dote infernale.
E tale fu veramente l’effetto di quell’occhio sulla bellissima fanciulla romana.
Riconfortata alquanto da quel primo scompiglio dell’esser suo – e tornata alla virile sua natura, Marzia era lì per consigliar l’amica di tornare verso il campo – ma voltandosi e scorgendo lo stesso individuo con altri, senza dubbio della stessa risma, che le seguivano, disse a Lina, senza rispondere al «cosa hai?» dell’amica, «sollecitiamo».
Scivolavano quindi le tre giovani sul selciato del marciapiede di Piazza reale colla velocità e leggerezza della Silfide – ma nella popolosa Toledo a quell’ora facea mestieri rompere la folla per poter proseguire celeremente, e la folla trovavasi sempre più densa a misura che s’inoltravano verso il centro della città.
Tutto ciò dava vantaggio ai persecutori, sulle giovani perseguite, che di più inciampavano nel non indifferente ostacolo che incontrano le belle donne nelle città grandi, quando non accompagnate da uomini, cioè: lo esser bersaglio alle occhiatine, ai motteggi, e sovente alla persecuzione de’ cicisbei.
Comunque, le tre compagne non eran ragazze da lasciarsi spaventare per poco, e la stessa Marzia sul di cui volto era improntata abituale malinconia – e che forse s’era aumentata col sinistro incontro – Marzia, dico, avea ripreso quel fiero contegno cui dava diritto l’indomito suo coraggio.
Passati i Quattro canti14 e continuando per via Toledo verso il mare, esse giunsero finalmente ove quella via principale forma una piazzetta regolare, ed ove verso levante trovasi l’ingresso del vicolo che conduce all’Albergo d’Italia, e nell’entrare nel portone dello stesso, esse s’accorsero che sin lì eran state seguite.
A gente più assuefatta a mene poliziesche delle belle fanciulle, sarebbe forse venuto in mente di non fermarsi in quell’albergo di prim’ordine, oppure giungendovi, fare in modo di uscire subito da un andito posteriore che conduceva alla splendida passeggiata sul mare, e di là cercare una più modesta ed appiattata dimora. A Lia però, che la faceva da guida, non occorsero tali considerazioni, e forse anche qualche motivo particolare la induceva a prender stanza in detto albergo. La noncuranza poi delle nostre eroine per qualunque pericolo coadiuvò la scelta di tale dimora – non sicura certamente per esse in quel tempo di parossismo rivoluzionario da una parte e di paura governativa dall’altra.
Il fatto sta che appena le tre fanciulle avean messo piede nella stanza richiesta ed a loro assegnata dal padrone di casa, questo si presentò ad esse con un commissario di polizia e tre birri dicendo loro: «Signore, io era venuto per chiedere ciò che desideravano per cena; la comparsa però e l’intimazione di questi signori (la seconda parte del discorso fu a voce bassa ed arrugando le labbra), mi duole dirlo, farà inutile la mia richiesta».
Quelle parole aveano un accento di simpatia, e si capisce con quel colpo d’occhio intelligente che distingue i nostri meridionali, il padron di casa avea indovinato che le belle viaggiatrici eran gente di conto – e bastava per ciò gettar uno sguardo sul distinto, nobile e vezzoso volto delle due compagne dei Mille. – La Lia, di bellezza non comune, pure era conosciuta in quella casa.
Anche si capisce l’istantaneo apparir della polizia borbonica in quei giorni di terrore, ove in Palermo si era concentrata quasi tutta quella del Regno, coadiuvata da quanto il gesuitismo avea di più astuto e di più diabolico.
L’uomo dall’occhio sinistro la di cui vista avea sì stranamente e malignamente magnetizzato la nostra Marzia, avea quindi durato poca fatica a raccoglier sgherri sufficienti per la cattura delle fanciulle sospette.
L’Albergo d’Italia attorniato dalla birraglia, quei birri che col commissario aveano invaso la stanza delle donne e tre carrozze già occupate da custodi pronti al portone, furono gli apparecchi idonei per il trasporto delle tre donne a Castellamare, ove le lasceremo per un pezzo, dolenti del mal esito della loro impresa – ed indispettite.
«Cozzo» fu la sola parola che Lia potè articolare al padrone di casa in un momento in cui i poliziotti stavan concertandosi sulle grandi misure da prendere per assicurare la famosa preda.
Les prêtres ne sont pas ce qu’un vain peuple pense.
Votre crédulité fait toute leur science.(Voltaire).
Quando le scritture – che gli stupidi ed i furbi chiamano sante o sacre – collocarono allato della coppia primitiva il serpente per tentare la prima debole donna, esse avrebbero dovuto a tante invenzioni aggiungere l’invenzione d’un prete invece del rettile, essendo il prete il vero rappresentante della malizia e della menzogna – più atto assai alla corruzione e al tradimento che non lo schifoso e strisciante abitatore delle paludi.
E qui mi pongo ancora la mano sull’immane piaga! Un prete! e di più un gesuita – il sublimato del prete – mi si presenta, con mio ribrezzo in tutta la laidezza della sua natura per nausearmi – rabbrividirmi – e per nauseare coloro che avranno la sofferenza di leggermi!
Il sole del 26 maggio nascondevasi dietro i pittoreschi monti che circondano la Conca d’oro a ponente, fosco, rossiccio, come se macchiato di sangue – e col crepuscolo d’un giorno infocato cominciavano a vedersi, nelle pubbliche passeggiate, alcune carrozze con dentro il bellissimo sesso della stupenda capitale. Non numeroso però, abbenchè le donne, colla loro educazione presente, non si curin quanto dovrebbero delle miserie ed umiliazioni della patria: v’era nell’atmosfera naturale e politica qualche cosa che inaridiva ogni voglia di divertimento.
Era scirocco? Credo non fosse. Col scirocco, le popolazioni meridionali agiate chiudonsi soventi dentro casa – trovando insopportabile l’afa che si respira al di fuori. – Il bracciante la trova meno insopportabile della fame, e lavora anche spossato dal soffocante scirocco.
Il sole del 26 maggio era al tramonto e tra le poche carrozze che circolavano sulla deliziosa sponda del Mediterraneo una se ne scorgeva che all’occhio indagatore presentava un aspetto diverso dalle altre.
Perchè coperto quel veicolo? perchè vuoto? – poichè ben difficile scoprire in quel fondo oscuro un coso a sembianza umana, che dico? a sembianza d’un demonio!
Quella carrozza coperta aggiravasi come le scoperte, occupata da gente più o meno oziosa e che in quella sera, più per consuetudine che per gusto, faceva il solito andirivieni.
L’occupante però di quella – come il gufo – nascondevasi dalla luce, ed aspettava le tenebre, per attuare i suoi divisamenti sinistri.
E ne avea ben donde Monsignor Corvo – il più astuto e scellerato dei gesuiti – di nascondersi all’umano sguardo. Se, come m’è successo qualche volta d’esser solleticato a far una buona azione – tale prurito fosse venuto ad alcuno dei generosi palermitani presenti – esso potevasi precipitare in quella carrozza di cattivo augurio, strapparne fuori il malvagio, e schiacciarlo col tacco del suo stivale per non contaminarsi le mani, come si fa del velenoso rettile. – Egli avrebbe compito opera santa e liberato l’Italia da uno de’ suoi più perversi e nocivi nemici.
E lì, nelle vicinanze del sinistro augello, si aggirava uno: giovane, bello, forte, tipo di quella gioventù palermitana sì propensa all’eroismo del martirio. – Cozzo, il valoroso amante di Lia con altri compagni della stessa tempra da lui guidati, avean giurato di liberar i patriotti prigionieri nel forte di Castellamare. Ed eran molti i detenuti – appartenenti per la maggior parte al fiore dei propugnatori della Libertà Italiana.
Essi passeggiavan divisi e lontani dall’ergastolo borbonico – per coprire il loro disegno – e Cozzo, or sapendo che la prigione racchiudeva il suo tesoro, la sua Lia era d’un’impazienza indescrivibile di cominciar a menar le mani. – Poi si sapeva delle due bellissime forestiere compagne della palermitana la di cui fama s’era duplicata sotto il velo del mistero. – Solo sapevasi ch’esse provenivano dai Mille.
E Cozzo coi compagni che avrebbero potuto liberar il mondo da un demonio tentatore, non se ne occuparono credendo vuoto il veicolo – e penetrati com’erano dalla santità della loro impresa.
Les cloîtres, les cachots, ne sont point son ouvrage.
Dieu fit la liberté – l’homme a fait l’esclavage.(Chenier).
Quand’io considero quella serie di mostruosi governi che da secoli reggono la meridionale Italia – con popolazioni energiche come son quelle – cresciute sulle lave dei nostri vulcani – io concludo: che non basta l’energia per fare un popolo libero e grande. – Dirò di più, che non basta l’energia e l’intelligenza, poichè a dovizia possiede il nostro popolo l’una e l’altra qualità.
E qui devo ancor mettere la mano sulla piaga della nostra patria infelice: il clericume – ossia l’impostura.
E chi potrà negarmi che sia il pretismo la base su cui poggiano tutti i governi perversi?
E mentre si millanta progresso, incivilimento dovunque – in questi giorni stessi trionfa nelle elezioni al Parlamento Belgico, il clericume! – E chi può sottrarre all’influsso malefico del 2 dicembre protettore della menzogna, i piccoli Stati che attorniano la Francia, quali l’Italia, la Spagna e il Belgio?
Manca certamente al nostro popolo la disciplina – che tanto grandi fece i nostri padri – la disciplina da cui lo distolgono una mano di dottrinari per la gloriuzza d’esser chiamati grandi, mentre sono piccolissimi.
E ciò mi spinge sempre più all’idea d’una Dittatura onesta e temporaria.
Il «Siate tutti soldati, tutti ufficiali, tutti generali» del Mazzini, significa «Siate tutti una Babilonia!»
Cozzo! Pare impossibile; la terra dei gesuiti e dei preti – l’Italia – partorisce anche i Cozzi – quelle antitesi così pronunciate del malvagio!
Io l’ho veduto Cozzo – bello come una fanciulla e giovanissimo. – Cozzo che non s’è mai presentato che al momento del pericolo – e nel pericolo sempre tra i primi, io l’ho veduto a Caserta – morente – col petto rotto da una palla borbonica – e baciai cogli occhi umidi quella fronte d’angelo!
Egli sorrise vedendomi – d’un sorriso che terrò scolpito nell’anima fino alla morte – e pronunciò le ultime solenni parole: «Io sono felice d’aver dato la vita al mio paese!».
E tutte le provincie italiane possedono i loro Cozzi da non esser superati da nessuna casta nel mondo.
Cotesti superbi rappresentanti dell’abnegazione, del decoro, del martirio, della dignità umana scaturiscono dalla folla di quella moltitudine corrotta che serve di piedestallo alla menzogna ed alla tirannide – e qualche volta la dominano e la guidano verso il bene – ma spesso vi rimangono travolti, superchiati, sinchè i cilicii e le battiture la riconducono ancora sulla via tracciata dai liberatori.
Ogni provincia possiede alcuno dei prototipi della nobile Legione – e l’Italia ne può andar orgogliosa. – Essa mai è meno dei Mille, ma il giorno in cui la gioventù italiana capisca, quanto sia grande il titolo di militi di quella incomparabile Legione – in quel giorno: Addio menzogna e tirannide. – La libertà riscalderà, vivificandola, questa terra delle grandi glorie, e delle grandi sventure!
Era la mezzanotte, quando Cozzo, dopo di aver riunito i cinquanta coraggiosi figli di Palermo, marciava risoluto all’assalto di Castellamare, presidiato da cinquecento uomini – da molta artiglieria – e colla parte del mare protetta dalla flotta borbonica, schierata a poca distanza.
I Borbonici apprezzavano giustamente la posizione di Castellamare – sia per la facilità di poter sbarcare al sicuro ogni specie di sussidio d’uomini, armi e vettovaglie – sia per facilitare la ritirata delle guarnigioni di Palermo sulla base dell’imponente flotta.
E perciò mantenevano quel propugnacolo della loro tirannide, molto provvisto dei migliori soldati, d’armi, di munizioni, e d’ogni specie di cose necessarie.
«Che importa!» aveano esclamato i cinquanta campioni della libertà italiana «più ardua è l’impresa, e più gloriosa».
E qui mio malgrado devo ancora fermare i liberatori per un inaspettato evento.
Un’illuminazione a giorno, pria a Palazzo Reale, poi a Castellamare, ed in seguito ne’ pubblici stabilimenti e nelle case di quanti impiegati borbonici si trovavano in Palermo – e di quanti non poterono esimersi dall’ordine d’illuminare – fermò i nostri mentre s’accingevano ad attraversare la piazza che divide Castellamare dalla Città.
Un rovinío di cannonate dai forti e dalla squadra assordava la gente, e più ancora le grida selvagge di tutta la ciurmaglia borbonica, con gli evviva a quel modello di monarca e morte ai filibustieri!
In sostanza era giunta in Palermo la notizia che i valorosi generali Bosco e Van Michel avean raggiunto i Mille presso Corleone, li avean distrutti, preso l’artiglieria e fugati i pochi resti verso il mare africano, ov’eran aspettati dai prodi della flotta per esser condotti in quei certi ergastoli di S. Stefano e Favignano, che i patriotti dell’Italia Meridionale ben conoscono, oppure per essere appiccati ai pennoni di detta valorosa flotta: ricompensa generalmente assegnata ai pirati o filibustieri, simili ai Mille, che si occupano di disturbar l’ordine sì ben mantenuto dalle monarchie in generale e dalle italiane in particolare.
Fra poche ore noi avremo un cenno certo della veritiera loquacità dei dispacci governativi, che per la decima volta avean mangiato i Mille od annientati. – Bosco e Van Michel avean bensì raggiunto, verso Corleone, l’artiglieria nostra comandata dal generale Orsini, che con pochi invalidi la difese valorosamente, ed a cui tolsero, credo, un pezzo inutile. Ma la colonna principale dei Mille, prendendo a sinistra per Marineo e Misilmeri, giunse a Gibilrossa, ove il generale La-Masa avea riunito buon nerbo di squadre siciliane, e di là tutti riuniti si attuò la famosa marcia di notte per sentieri asprissimi sulla capitale dei Vespri presidiata tuttora da quindici mila soldati delle migliori truppe dell’esercito borbonico.
Quel sottile velen – che nel virgineo
Cuore s’instilla – e paradiso umore
Ti sembra – E poi micidïali e tetre
Le miserie del mondo a te dischiude.(Autore conosciuto).
Era la una della mattina, nel fatale 27 maggio del 60, e qualche cosa di fatale veramente pesava nell’atmosfera. – Tu ne sentivi la soma e ne andavi irrequieto. – Non era, come abbiam detto, l’alito appestato del Simoùn15, giacchè venti non se ne sentivano. – Afa? – non la so descrivere! – Io l’ho sentito però quel fatale mal essere, perchè anch’io in quella notte che precedeva un giorno di tempesta popolare contro la tirannide, anch’io respiravo l’atmosfera di Palermo e l’ho respirata coll’ansia di scorger l’alba che io bramavo – come la presenza della fanciulla amata – e che presentivo liberatrice.
Se soffocati dal malore noi, all’aria aperta, e marciando a dovere santo – a liberazioni di schiavi – che non soffrirebbero in quella pesante notte i rinchiusi nell’afa micidiale di un carcere?
In Palermo certo i dormenti eran pochi. E i detenuti? – molti! Gl’infelici precipitati nel fondo delle loro bolgie – senza colpe – e sostenuti solo dall’intemerata coscienza, languivano privi d’alimenti e d’un soffio d’aria libera!
Tiranni! a che tanto chiasso coi vostri cagnotti, se lo schiavo – raramente, ma però qualche volta – dopo di aver tastato i solchi troppo profondi che incisero i vostri ferri nelle sue carni, vi scaraventa sopra un palco che si chiama guigliottina o nei fossi delle casematte di Queritaro? Voi!.. che tanto faceste e fate soffrire l’umana famiglia di umiliazioni, di torture e d’omicidii!
Ed eran rinchiusi nelle celle della tirannide le nostre eroine, che lasciammo nelle mani della polizia all’Albergo d’Italia. – Rinchiuse nelle carceri più recondite dell’ergastolo di Castellamare – esse morivano di quella morte lenta, lenta, che appassisce, appassisce sino ad inaridire e troncare l’esistenza più florida e più robusta.
Esse furono prive del consorzio e divise ciascuna nella sua cella. Gl’interrogatorî di queste famose delinquenti dovevano essere presi a parte. Il despotismo nulla ignora di questa morte morale delle anime: l’isolamento e le torture dello spirito.
Il selvaggio cavallo delle Pampas, i suoi primi passi verso l’addomesticamento li fa con due giorni di corda corta e nessun alimento od acqua. Tali sono tutte le specie di padroni, e la tirannide ben conosce esser l’avvilimento dell’anima compagno dell’avvilimento del corpo.
Era dunque la una della mattina del 27 maggio 1860, quando la cella della Marzia fu semiaperta e l’orrida figura del tentatore – che già abbiamo fiutato in Piazza Reale nel peristilio dell’Albergo d’Italia ed in fondo di una carrozza alla passeggiata pubblica sulla sponda del Tirreno – mostravasi alla derelitta.
Orrida figura, dico, perchè sapeva scendere nei penetrali di quell’anima di Lucifero – e come Lucifero adorna di belle esterne forme.
Tale era questo demone a cui natura era stata prodiga di favori per sventura dei suoi simili.
E qui col ginocchio piegato davanti alla bellezza umana, io, vecchio e senza pretensione, devo un rimprovero o piuttosto un avvertimento alla donna: essa sarebbe assai meno infelice, se si occupasse un po’ più di discernere sotto l’involto d’un bell’uomo, l’anima di un Lucifero!
Marzia trasalì, ebbe dei brividi – come le successe sul marciapiede di Piazza Reale – riconobbe nell’ombra le sembianze del suo tentatore, e sull’impeto primo essa fu per lanciarsi contro di lui e sbranarlo.
«Marzia!» esclamò il Gesuita. «Marzia» ricominciava il prete, e quella voce risvegliando forse nella memoria della fanciulla chissà quali reminiscenze, essa ricadde sul suo lettuccio con immobilità disperata, «io sono venuto a liberarti, e tu sarai libera in questo momento, se vorrai seguire i miei consigli.
«I tuoi sono consigli di Satana» rispondeva la giovine rinvenuta dalla prima impressione e ritornando al suo essere eroico, «via, tentatore nefando, l’esistenza mi pesa solo per aver avuto la sventura di conoscerti. E la libertà, per cui io darei cento vite, datami da te la calpesterei come orribile dono, e me ne servirei soltanto per uscir da una vita che tu hai reso infame.
«Eppure io t’ho salvata da una fede di perdizione, Marzia, e t’ho posta sulla via del Signore e della santa sua Religione.
«Sappi, impostore, per confusione tua, ch’io tornai col pentimento alla fede d’Israele, alla fede dei miei padri. Solo alla mia innocenza io non potrò tornare – scellerato! – E tu ben lo sai; e sai quanti raggiri, quante menzogne e seduzioni tu adoperasti per ingannare una giovinetta tredicenne – prostituirla, e, quando sazie le tue libidini, chiuderla in uno di quei postriboli da voi chiamati conventi, per isbarazzartene.
«Via, assassino dell’anima! la tua presenza mi è mille volte più insopportabile di questo duro carcere».
A queste parole Marzia s’era rialzata, e l’occhio suo scintillava nell’oscurità come quello della tigre. – Il Gesuita, con una lanterna sorda nella sinistra, teneva colla destra la posterla semiaperta, pronto a chiuderla in caso che la fanciulla si fosse precipitata su di lui – azione di cui la credeva capace.
E veramente, dopo aver misurata la distanza collo sguardo, concentrate le spossate sue forze, Marzia fu d’un balzo contro la porta, che trovò chiusa dalla robusta mano del prete, ed il malvivente fu sollecito a dar un giro di chiave per non esporsi una seconda volta all’assalto della fanciulla.
Egli però aprì poco dopo una graticola da dove probabilmente si conferiva coi prigionieri pericolosi, e da dove vi si faceva passare il miserabile alimento.
«Marzia!» ripigliò la voce stridula del loiolesco, «il vecchio tuo padre…»; qui si udì uno di quei lamenti che non si ponno descrivere, e che l’antico fondatore della lingua italiana si contenta di accennare con quei suoi versi immortali:
E se non piangi, di che pianger suoli!
Non era il rantolo del morente, ma uno di quegli accenti di dolore che noi uomini non conosciamo, o di cui non racchiudiamo il tesoro. Solo la donna e forse solamente la madre, il di cui cuore è il vero santuario dell’amore, è capace di sì incomparabile dolore! – Ed il tonfo del corpo di Marzia stramazzante si udì nel fondo della cella.
Un sepolcrale silenzio seguiva, e solo quando l’impassibile ministro dell’inferno s’accorse che la vittima sua non era preda della morte, esso ricominciò: «Marzia! il vecchio tuo padre, lo sai, giace tuttora nei sotterranei dell’Inquisizione, sottoposto a giornaliere torture, e basterebbe una tua parola per liberarlo, e renderlo alla sua primitiva agiatezza».
Singhiozzi d’un’anima veramente travagliata erano la risposta dell’infelice.
«I tuoi Mille, Marzia, su cui speri ancora per liberarti, sono annientati. Essi furono distrutti dai generali Bosco e Van Michel: questa notte istessa avrai intesa le salve d’artiglieria, e le grida di vittoria, che echeggiarono dovunque in Palermo».
«Bugiardi! Bugiardi!» urlava la giovine profetessa, «i Mille passeggeranno vittoriosi sui cadaveri dei vostri mercenarii, sino alla distruzione della fucina infernale che mantenete in Roma, nel cuore d’Italia, per la sventura di questo infelice paese, e del mondo».
L’ultima parte della profezia potea avverarsi, ove i nostri concittadini fossero stati più solerti ad accorrere in sostegno dei Mille.
Nuovo silenzio seguì le ultime parole di Marzia, e raffreddato il parossismo di sdegno, di collera, e di dolore che sinora l’aveva invasa, essa ricadde spossata sul miserabile pagliericcio dominata dalle più sinistre riflessioni. – Suo padre! suo padre nei sotterranei del Sant’Officio! Questo pensiero l’uccideva! – Coi Mille che essa avrebbe accompagnati a Roma, la liberazione del genitore era possibile. Ma ora, rinchiusa in questa malefica bolgia, ove pochi giorni avrebbero bastato a distruggerla!
«Dio mio! che m’importa morire! non son io capace di affrontar la morte le mille volte come a Calatafimi! – La morte! – cos’è la morte? Ma la tortura! Dio mio! il mio povero padre sì amoroso, sì buono! alla tortura! colle sue carni strappate! la veneranda sua chioma insozzata, aggrumata da mortale sudore, e da sangue! in patimenti indescrivibili!»