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La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I

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La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I / Terza serie – Lettere, scienze e arti

LA POESIA DEL QUARANTOTTO

CONFERENZA
DI
ENRICO PANZACCHI
I

Il '48 considerato in uno dei suoi tanti aspetti, forse il più attraente, si presenta a noi come una sonante e fulgida pagina di poesia. Aspettando che i miei illustri colleghi, rivolgendosi alla vostra ragione, di mano in mano illustrino gli altri aspetti di quell'epoca memorabile, lasciate che io v'intrattenga un poco di questa poesia del '48, la quale, più che nelle carte dei poeti, fu scritta nei fatti e nei cuori. Poeta ispirato e fecondo fu allora il popolo italiano; e tutti, in alto e in basso, furono poeti per un momento, poichè una corrente irresistibile trasse e confuse gli italiani di tutte le classi a vivere e ad agitarsi negli stessi entusiasmi.

Era il tempo in cui un frate benedettino nella solitudine del suo cenobio, nel silenzio della sua cella, dopo avere scritto una storia della Lega lombarda, la dedicava al Papa con queste parole: – Affacciatevi, Beatissimo Padre, alla ròcca dei secoli, ed ascoltate la voce dei tempi nuovi. Scrutate i nostri cuori, e vedrete che noi siamo sempre degni nepoti di quei Lombardi, che così eroicamente congiunsero la fede e l'amor di patria. – Poi continuava: – Togliete, o Padre Santo, la bandiera che Alessandro III appese al sepolcro del beato Pietro, dopo aver debellato Barbarossa; e fatela sventolare al sole d'Italia! —

Strano frate ed insolito linguaggio! Era questa la voce isolata di un asceta sognatore?.. No. Se il Padre Tosti dall'altezza di Montecassino avesse teso l'orecchio, avrebbe sentito voci somiglianti alla sua, in quei giorni benedetti, sonare per tutta l'Italia e passare le Alpi e invadere tutta l'Europa e volare at di là dell'Atlantico. Cessavano i tristi esilii. Uomini che per amor di patria avevano dovuto riparare in America ritornavano sopra una nave che s'intitolava «La Speranza», ed entrati nel Mediterraneo e visto nell'orizzonte gli umili confini della Patria si sentivano gonfiare gli occhi di lacrime, si abbracciavano, e gridavano: – Viva Pio Nono! Viva l'Italia libera! Dio lo vuole! – Che cosa era successo? Era sogno di menti esaltate? No. Un semplice sogno non produce movimenti così forti, così universali e così perduranti. Il sogno vero e grande lo aveva fatto prima un altro tonsurato, Vincenzo Gioberti, il quale, là, tra il '40 e il '42, esule a Bruxelles, anch'esso per peccato di patriottismo, aveva accolto nella sua mente la più audace chimera che potesse mai attraversare il cervello d'un poeta. Egli, a quei lumi di luna, aveva immaginato «una Italia prospera, devota a Dio e concorde in sè.» Aveva immaginato e di prossimo evento, «i principi italiani e i popoli non più ringhiosi e sospettosi fra loro, ma affratellati in un'ammirabile concordia per costruire insieme l'edifizio di una patria grande e meravigliosa, che superasse in grandezza e in meraviglia tutte le altre nazioni.» E questo audacissimo Abate arrivava, nella grandezza del suo sogno, fino a vedere in tempo non lontano le altre nazioni civili, dapprima attonite, poi ligie e devote, inchinarsi a questa grande Italia «e prendere da lei le norme del bene e le forme del bello.»

Ebbene, tutto questo era passato rapidamente in pochi anni, non già alla sua realtà, ma ad inizii così fausti e felici, che quasi facevano credere prossimo il pieno adempimento. Tutto questo perchè, o Signore? Perchè da qualche tempo un uomo vestito di bianco di tanto in tanto si affacciava alla loggia del Vaticano o del Quirinale, e dinanzi a gran folla di popolo inginocchiato invocava la benedizione di Dio sopra l'Italia. Ma quell'uomo vestito di bianco era «il Signor dei credenti,» come con frase un po' mussulmana lo chiama Giovanni Prati. E in quel suo augusto e semplice atto, era la spiegazione di tante e così stupefacenti novità.

Miracolo di Papa! aveva esclamato Pietro Giordani. Dal canto suo, il grande Cancelliere dell'Austria, Metternich, sconcertato in tutti i suoi disegni, aveva detto che nella sua prudenza politica egli tutto aveva potuto prevedere, tranne il caso inverosimile di un Papa liberale!

E gli avvenimenti si succedettero con una rapidità vertiginosa. In diciotto mesi, dice Cesare Balbo, avvenne per opera di Pio IX, soltanto riguardando all'interno dello Stato Pontificio, una serie di riforme alle quali pareva non dovesse bastare mezzo secolo: l'amnistia che ridonava alle famiglie gli esuli e i carcerati per colpe di patriottismo, poi la Consulta di Stato, la guardia civica, la secolarizzazione parziale del governo, la lega doganale dei principi, anticipante la desiderata confederazione politica, poi la Costituzione. Finalmente la guerra allo straniero, bandita dal «Signor dei credenti,» che era anche il padre comune di tutti i fedeli! I principi dovettero seguire, chi di buon grado chi a mal in cuore, l'esempio trascinante di Pio IX. A Napoli il Re volle essere il primo a largire la Costituzione; e diede tutto con la facilità di chi è poi disposto a tutto ripigliarsi e tutto sconfessare.

II

Il popolo sorto a quel nuovo grido, abbacinato da tutta quell'improvvisa luce, entrò in un entusiasmo indicibile e in una specie di festività permanente. Se voi volete avere una qualche idea di tutta quella gioia inondante i cuori, io vi consiglio di non leggere gli storici liberali. Leggete invece il padre Bresciani, il quale, pure cospargendo di tante menzogne e di tante calunnie l'opera del partito liberale in Italia, narrò nell'Ebreo di Verona e con altri racconti i fatti del '48, non negandoli, anzi descrivendo quelle feste, quella gioia traboccante dai cuori, quella festività inenarrabile coi più vividi colori. E con arguzia maligna le intitolava «la luna di miele.»

Quando noi a tanta distanza di tempo con la fantasia cerchiamo di ricomporre quel quadro incomparabile, ci immaginiamo, da un capo all'altro della penisola, popolazioni che sorgono acclamando. Vediamo da per tutto feste e luminarie e fanfare, e nella folla uomini coi capelli lunghi, vestiti all'italiana, che declamano, che strepitano, che imprecano, che piangono, tanta è la piena dei loro affetti; e donne belle, vestite dei colori nazionali, che agitano fazzoletti bianchi e gialli affacciandosi alle finestre e a' balconi a gettar fiori, fiori, fiori, sopra i volontari che passano giù per le strade, acclamanti ed acclamati, con la rossa croce sul petto. Essi vanno nei campi lombardi ad affrontare la morte per la cara patria. E sopra tutte le acclamazioni e tutte le grida, un grido altissimo quasi venuto dal cielo: – Italia libera, Dio lo vuole! – Tutto questo è certamente argomento di poesia. Che cosa avrebbe da fare la poesia in questo mondo, se non dovesse ispirarsi in questi momenti di ebbrezza e di beatitudine negli individui e nei popoli? Quindi viene spontaneo il domandare: Che parte ebbe la poesia in tutto questo moto?

È curioso che uno storico papalino della più bell'acqua, Giuseppe Spada, raccontando, alla sua maniera, i fatti di Roma del '48, verso la fine del suo terzo volume, risalendo dalle tristi catastrofi al ricordo dei primi entusiasmi per Pio IX, cita lo Sterbini, il Guerrini, il Masi, il Meucci, tutti e quattro poeti, i quali «accendevano gli spiriti col genio dei loro versi.» E aggiunge che, quantunque essi non fossero che quattro giovani poeti, pesarono sugli eventi più che quattro generali d'armata. «Ciò serva di avviso ai reggitori dei popoli (conclude il nostro bravo storico) per stare in guardia sopra i coltivatori di un dono tanto mirabile ma tanto pericoloso alla pubblica quiete.» La polizia dunque era avvisata.

Povero genio! lo potrei leggervi, o Signore, alcune strofe di questi quattro geni e specialmente dello Sterbini che mi pare il migliore della brigata; ma non lo farò per non togliervi le illusioni, se mai ne aveste!

La verità è che il '48 non ebbe grandi poeti. Il Peretti, il Dall'Ongaro, il Montanelli, il Mercantini non si elevarono mai, anche nei loro momenti più felici, dalla «aurea» mediocrità. Quando la nostra mente misura l'intervallo enorme che corre fra il valore dei loro versi e l'importanza degli avvenimenti che intendono di celebrare, si rimane proprio costernati. Lo stesso Tommaso Grossi, il cantore inspirato di Ildegonda e dei Lombardi alla prima crociata, quando scosso dai grandi fatti di Milano, le Cinque gloriose Giornate, vuole in un inno riecheggiare tanta costanza e tanto eroismo di popolo, compone delle strofe fredde, meditate, quasi lambiccate; e proviamo una vera pena domandandoci come mai un uomo di tanto ingegno non abbia subito compresa la grande disparità che era fra il tema del suo canto e la forma poetica che egli aveva miseramente potuto conquistare nella laboriosa concitazione del suo estro ribelle. A Firenze intanto Giambattista Niccolini viveva come un iroso appartato. Egli non aveva creduto mai al «miracolo di Papa.» Tutto quel gran contrasto tra le sue opinioni e i fatti, fra il suo sentire e quello dei più cari amici suoi, così fortemente lo scosse, che quasi la sua ragione si smarrì. Giuseppe Giusti nel '48 fu un misto di soddisfatto e di sfaccendato. Per una parte il suo spirito troppo fondendosi con lo spirito pubblico, si neutralizzò e quasi si volatizzò. Quindi il suo estro per natura acre e penetrante e battagliero, dovette adattarsi a cantare affettuosamente la parola del perdono e della fratellanza, volgendosi al granduca Leopoldo II; poi si limitò a punzecchiare un poco a destra e sinistra, raccontando i dialoghi di Ventola e di Vespa. Mancava insomma il naturale obiettivo alla sua Musa. Quando tutti sorridevano, a che il pungolo acerbo? a che l'ombra del sarcasmo? perchè (come scriveva ad un amico) continuare a sonare a morto, quando tutti suonavano a festa?.. Giovanni Prati e Goffredo Mameli, ecco due figure di poeti che vengono subito in mente pensando alle grandi ispirazioni poetiche di quell'epoca. Ma anche qui la disparità non scema o scema ben di poco. Giovanni Prati non ebbe momenti felici nel '48. Li avrà poi. Nel '48 anch'egli, sopraffatto dalla grandezza degli avvenimenti, è come uno strumento che si sforza a vibrare in tutte le sue corde, ma il gran motivo epico non esce da quello strumento. Di Goffredo Mameli troppo si è parlato, troppo si è voluto esaltare. Io credo che la sua più bella lirica fu di morire eroicamente ai piedi del Gianicolo. Giosuè Carducci, analizzando il famoso inno «Fratelli d'Italia» arrivato alla strofa:

Dov'è la vittoria?
Le porge la chioma,
Chè schiava di Roma
Iddio la creò,

o io molto m'inganno, o il nostro Giosuè si batte anch'egli i fianchi per generare in sè stesso una larva di entusiasmo; ma poi è costretto a convenire che, per una parte, Goffredo Mameli rappresentava troppo la decadente evoluzione del romanticismo e d'altra parte che tutto quel virgiliano o quel claudianesco della interrogazione lirica sopra citata contrastava troppo miseramente colla esiguità de fatti d'arme contemporanei. Onde anche egli è tratto a concludere che la grande poesia di questo giovane eroico fu nella sua breve vita e nella morte generosa per la libertà. Così mostra di intenderlo anche Giuseppe Mazzini, e così ce lo descrive, fino a commuoverci nell'intimo del cuore, in un'ammirabile pagina della sua prosa.

III

Ebbe la poesia del Quarantotto una voce più degna nella musa popolare? Nemmeno questo, io credo. Certo riandando quei canti, spesso volgarucci, non può non colpire il confronto coi canti anteriori: per esempio i canti del popolo italiano e specialmente toscano nell'epoca Napoleonica, qualche volta tutt'altro che triviali. Come suona in essi la diffidenza, come suona la tristezza! «Napoleone, guarda quel che fai!,» comincia uno stornello popolare. Ve ne sono altri che esprimono il gran dolore delle nostre povere plebi per dover andare a combattere lontano, fuori d'Italia, per una causa non italiana:

Partirò, partirò, partir bisogna
Dove comanderà il nostro sovrano.
Chi prenderà la strada di Bologna,
Chi anderà a Parigi e chi a Milano!

E le strofe tristissime finiscono sempre col ritornello che pare un singhiozzo: «Dio, che partenza amara!» E la esclamazione amarissima ci fa correre con la mente ai versi di Giacomo Leopardi, quando lamenta il fiore della gioventù italiana mandata a morire fra i ghiacci delle «rutene squallide spiagge» senza nemmeno il conforto di poter dire alla cara patria lontana:

La vita che mi desti, ecco ti rendo,

poichè i prodi figliuoli d'Italia morivano, non per essa, ma per i suoi tiranni, per «coloro che la uccidevano!»

Insomma, nel Quarantotto abbiamo una serie interminabile di poesie popolari, delle quali credo che non metta conto intrattenervi: canzonette, canzonucce e canzonacce. In quella immobile gora però, noi vediamo fiorire come una bianca e bella ninfea. È la canzoncina toscana:

Addio, mia bella, addio,
L'armata se ne va…

Non sgorgò veramente dal cuore del popolo la gentile ed eroica canzoncina, perchè si sa che ne fu autore un certo Bosi, il quale morì pensionato e tranquillo oltre il '60 dopo essere stato, credo. Sottoprefetto a Volterra. Ma il popolo la fece sua, il popolo se la assimilò e la rese interprete dell'anima sua. Ed è veramente una cara e poetica cosa; un toccantissimo motivo che ho sentito lodare e quasi invidiare all'Italia, nientemeno che da Riccardo Wagner. Questa candida e bella ninfea, in mezzo a tante erbacce e tanti rovi, trionfò nella lotta per la vita e si mantenne. Ritornò dai campi lombardi, dove nelle veglie delle armi aveva consolato i cuori magnanimi dei giovani toscani, che dovevano cessar di battere a Curtatone e a Montanara; e seguitò a risonare per le nostre campagne, per le nostre città. Sopraggiunti i tristi tempi della invasione straniera, la gentile ed eroica canzoncina non fu dimenticata; ed ogni tanto era sommessamente modulata dal popolo. Giunto il Cinquantanove ecco che torna sulle labbra di tutti, ed è ancora la canzone prediletta del popolo! E sempre poi, mentre fervevano le ambizioni in alto, e mentre i partiti laceravano l'Italia, e mentre l'egoismo personale prendeva il posto dell'amor patrio, ostentandone sacrilegamente le apparenze, il popolo italiano continuava, nella innata bontà del suo cuore, a credere che bello era il combattere e il morire per la patria; e continuava a cantare:

Se non partissi anch'io
Sarebbe una viltà.

IV

Però anche una grande lirica ebbe l'Italia del Quarantotto; e fu l'inno del Manzoni. Fatto curioso! Questo inno è il peana del Quarantotto, ma venne composto nel Ventuno:

Soffermati sull'arida sponda
Volto il guardo al varcato Ticino,
Tutti assorti nel nuovo destino,
Caldi in cuor dell'antica virtù,
L'han giurato!..

La verità è che nel Ventuno il Ticino non fu varcato. L'inno in sè stesso rappresentava un'aspirazione poetica dell'anima di Manzoni, il quale, come vide che al carme non corrisposero gli eventi prese questo partito: non scrisse, non pubblicò, e nemmeno affidò alla carta questo volo, questo sprazzo della sua anima poetica. Egli volle tenerlo gelosamente chiuso nel suo cuore come la parola dell'avvenire; egli l'avrebbe poi detta questa parola quando fossero giunti gli avvenimenti che essa affannosamente invocava. E di fatti, allorchè scoppiarono i grandi avvenimenti, quando non parve più un sogno lontano la redenzione della patria, allora Alessandro Manzoni scrisse l'inno pensato e meditato già da ventisette anni e lo pubblicò, dopo che (e questo va notato) egli aveva messo senza paura il suo nome sotto una protesta contro l'Austria, una protesta che, date le circostanze, poteva benissimo costargli la vita, poichè eravamo proprio alla vigilia delle Cinque Giornate. Allora finalmente, da un capo all'altro della penisola, risuonarono le affettuosissime voci:

Cara Italia! dovunque un dolente
Grido uscì del tuo lungo servaggio
Dove ancor dell'umano linguaggio
Ogni speme deserta non è;

Dove già libertade è fiorita,
Dove ancor nel silenzio matura,
Dove ha lacrime un'alta sventura
Non v'ha cor che non batta per te.

Alessandro Manzoni era stato dunque poeta e profeta; poichè aveva fin dal Ventuno vaticinato il grande consenso di tutto il mondo civile alla causa italiana. Nel Quarantotto infatti, tutto ciò che vi era di buono e di generoso nell'Europa civile di quel tempo, si raccoglieva veramente intorno alla rivoluzione italiana e faceva voti per lei.

La grande poesia del Quarantotto dunque, come vi ho detto in principio, o Signore, sta nei fatti principalmente e nelle condizioni degli animi.

E questo è ciò che quasi sempre si avvera. Non domandate che la poesia si renda interprete di ciò che avviene nel cuore umano quando il cuore umano è gonfio di passioni, quando la passione grida essa impetuosamente le sue voci non traducibili con parola precisa. Vi è una legge psichica di cui fanno testimonianza le storie di tutte le letterature, o Signore: i due grandi fattori della poesia sono, da una parte, l'aspettazione e la speranza che guardano innanzi, dall'altra il ricordo e il desiderio che si volgono indietro. La poesia o spera o ricorda. Quando l'uomo ama nel parossismo della sua passione, sia anche poeta come Dante e come Petrarca, non aspettate da lui dei versi d'amore. I versi d'amore egli li compone, e sono veramente degni dell'arte, quando spera e sogna la felicità agognata, oppure quando ricorda con dolcezza e con tristezza la felicità che è fuggita da lui. Questi i due momenti psichici, i due fattori veri della poesia. Quello che avviene degli individui, doveva anche avvenire nella grande collettività del popolo italiano. Non è nell'orgasmo, non è nell'esaltazione, non è tra le luminarie e i baccani e le ansie dell'aspettazione, che la musa (la quale come disse Parini, formulando un canone eterno dell'arte «orecchio ama pacato e mente arguta e cuor gentile») poteva meditare e comporre il grande carme degno degli avvenimenti.

La poesia, lo ripeto, fu nei fatti. E se qualcheduno di questi fatti vogliamo ricordare, io potrei dirvi che la più alta poesia del Quarantotto esalò da un meraviglioso accordo, che i fatti inaspettati fecero balenare alle anime pensose e aspettanti di tutto il mondo civile, tra l'amore della libertà e l'amore della religione. Fu davvero un momento storico, meraviglioso, o Signore; perchè, se voi percorrete la storia del nostro Risorgimento, voi troverete che nessuno ha mai detto e spero che nessuno dirà mai che fra amor di patria e religiosità vi sia un dissidio incompatibile. Ma è un fatto, che una certa diffidenza fra l'una cosa e l'altra vi è sempre stata, e purtroppo vi è ancora. Da Dante Alighieri, di cui il cardinale Beltrando Del Poggetto voleva disperder le ceneri perchè lo aveva in odore di eretico, alle censure ecclesiastiche dei libri di Antonio Rosmini, i sintomi e i sospetti di questo dissidio (non diciamo ora per colpa di chi) si sono sempre, più o meno, manifestati in Italia. E non fu questa l'ultima causa (diciamolo con coscienza d'uomini liberi) delle nostre divisioni e della debolezza nostra di fronte alle altre nazioni!